Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Un’etica della produzione

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Quando si guardano le colline devastate dagli incendi, la congestione urbana, la scomparsa della fauna, i fiumi contaminati da agenti tossici, le montagne che franano, l’intossicazione del corpo umano ad opera degli antiparassitari, del piombo, eccetera, viene davvero da chiedersi perché la tecnica sia stata e sia usata non al servizio degli esseri umani, ma in maniera così selvaggia e anzi contro gli interessi stessi umani.

La  presa di coscienza dei guasti ambientali nei paesi industriali ha portato ad un riesame del destino dell’uomo tecnologico e consumatore che sfrutta in maniera sconsiderata la natura e che rischia di essere a sua volta vittima di questa degradazione. È vero che anche i paesi tecnicamente arretrati hanno provocato, per ignoranza, alterazioni della natura e ne hanno sfruttato le risorse con opera lenta, ma spesso ugualmente disastrosa. Nelle società avanzate, però, tale usura è stata ed è molto più rapida; il “progresso” tecnico, nel trasformare le risorse naturali – aria, acqua, foreste, suolo, minerali, animali, vegetali — nel “bene supremo”, in merci e servizi, si lascia alle spalle una natura impoverita, talvolta irrimediabilmente, e corrompe l’aria, l’acqua e gli altri beni senza i quali è impossibile il benessere fisico, psichico e morale degli esseri umani e perfino la loro sopravvivenza.

C’è seriamente da interrogarci sulla produzione e sull’uso dei beni materiali, se veramente gli oggetti e le merci che stanno alla base della nostra crescita economica sono compatibili con le leggi della natura, se esistono altri modi per procurarsi cibo, energia, abitazioni.

La critica alla “società dei consumi” non è nuova: è stata  formulata, solo per fare alcuni nomi, da Thornstein Veblen (1857-1929), da Bertrand Russell (1872-1970), da Lewis Mumford (1895-1990), nel corso del Novecento, per non citare le opere giovanili di Karl Marx (1818-1883), come i “Manoscritti del 1844”. Il dubbio che qualcosa non andasse nella frenesia produttivistica, nella corsa al benessere materiale, è stato più volte sollevato da studiosi, filosofi e uomini di cultura, ma il “successo” tecnico e merceologico hanno fatto tacere ogni volta la voce della coscienza e della ragione.

Inoltre, fino a quando lo sfruttamento delle risorse naturali, la produzione di merci e gli inquinamenti sono stati modesti, la natura ha sopportato l’immissione dei prodotti del metabolismo delle città e delle industrie “digerendoli” nei suoi grandi cicli biologici e geochimici. Pur davanti allo squallore delle grandi città industriali e alla sporcizia dei fiumi e delle spiagge, non si è mai pensato, fino a pochi decenni fa, che la natura potesse ribellarsi e che potesse affacciarsi il pericolo di una ecocatastrofe.

L’aggravarsi dell’usura delle risorse naturali è stato una conseguenza dell’aumento della  popolazione, dell’aumento della richiesta di beni e della crescente “perfezione” della tecnica; ci se ne è resi conto, in particolare, con la costruzione e l’uso della bomba atomica, la  prima invenzione che ha mostrato in maniera inequivocabile di poter arrecare danni, attraverso l’immissione di prodotti radioattivi artificiali, a tutti gli esseri viventi su tutta la Terra, oggi e in futuro.

Le successive scoperte di prodotti sintetici come i detergenti, gli antiparassitari, le materie plastiche, salutate all’inizio con entusiasmo perché hanno permesso di risolvere numerosi problemi della vita quotidiana con grande successo economico per i fabbricanti, hanno rivelato, dopo pochi anni, pericoli  nascosti soprattutto perché tali prodotti, per la loro composizione chimica, sono estranei alla natura, restano stabili e inalterati e non vengono decomposti e degradati dai normali processi di disintossicazione del mondo naturale, e spesso si sono rivelati tossici per tutti gli esseri viventi.

Molte altre invenzioni considerate un progresso tecnico e economico hanno provocato la degradazione e l’inquinamento dell’ambiente, dalla cui integrità dipende la  sopravvivenza degli esseri umani, al punto da far temere che presto possano mancare aria e acqua pulite, terreno fertile, città in cui sia possibile muoversi e abitare in maniera decente, che risulti compromessa la stessa possibilità di continuare a produrre e a consumare, a vivere nel futuro. In altre parole, come si dice oggi, che sia compromessa la “sostenibilita’” del pianeta, dello sviluppo, della società umana, della stessa persona umana.

La lezione dell’ecologia

L’ecologia, intesa originariamente (il termine è stato “inventato” dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel 1866) come studio delle relazioni fra gli organismi viventi e l’ambiente in cui essi vivono, a poco a poco si è rivelata un grande strumento per un più generale studio dei rapporti fra gli esseri umani e la loro casa (oikos, appunto), l’intero pianeta Terra.

Abbiamo così preso coscienza di alcune cose pur ovvie, ma alle quali non si era data sufficiente importanza. Noi possiamo trarre le risorse naturali necessarie per gli oggetti della nostra vita quotidiana  soltanto dalla Terra, nostra unica casa nello spazio; da nessun altro pianeta o corpo celeste, raggiungibile con mezzi tecnici in un numero ragionevole di settimane o mesi o anni di viaggio spaziale, possiamo ricavare energia, spazio abitabile, aria, minerali, spazio coltivabile, acqua, alimenti.

Le risorse naturali sono disponibili in quantità grandi, ma non illimitate e in certe zone della Terra, specialmente nei paesi densamente abitati e altamente  industrializzati, lo sfruttamento di alcune di tali risorse sta già portando a situazioni di crisi. Si pensi – solo per fare pochi esempi – al graduale abbassamento della falda idrica in molte zone, come conseguenza di una eccessiva sottrazione di acqua per consumi urbani e industriali che spesso costituiscono dei veri e propri sprechi; si pensi al deterioramento dell’ambiente agricolo e all’erosione dei suoli in seguito ad un forzato aumento della produttività, si pensi alla congestione del traffico nelle città.

Inoltre i “beni” materiali fabbricati, con la tecnica, per trasformazione delle risorse naturali, non scompaiono; noi, non “consumiamo” le merci che usiamo, ma queste, dopo l’uso, in un periodo più o meno breve, si trasformano in rifiuti, la cui massa è molte volte superiore a quella dei beni materiali utilizzati. Tali rifiuti devono essere smaltiti “da qualche parte”, cioè, per forza, negli stessi serbatoi delle risorse naturali – nei fiumi, nel mare, nel suolo, nell’aria – dai quali traiamo ciò che ci occorre per vivere e per produrre.

Essere di più sulla Terra, produrre di più e più intensamente, significa, quindi, avere in futuro meno risorse disponibili, e peggiorare continuamente, attraverso la miscelazione con i rifiuti, la qualità di quelle restanti, tanto che la nostra merita davvero il nome di “società dei rifiuti”, più che di “società dei consumi”.

La biosfera ha delle possibilità di autoriparazione nei confronti della sottrazione di una crescente parte delle sue risorse, e di disintossicazione nei confronti degli inquinamenti, ma anche tali possibilità sono limitate.

“Spaceship Earth”

La Terra è – per usare una bella immagine dell’economista inglese Barbara Ward (1914-1981) -come una capsula spaziale che porta con se una limitata riserva di aria, acqua, cibo per i suoi astronauti – noi terrestri – che nella stessa capsula devono per forza depositare i propri rifiuti: con la differenza che la Terra non ha nessun posto in cui andare o tornare per rifornirsi di altre risorse o scaricare i rifiuti.

La grande lezione dell’ecologia è che esiste una  stretta interrelazione fra tutte le risorse naturali e che una azione in un punto del pianeta ha effetti sull’equilibrio dell’intera biosfera. Essa ci invita perciò a prendere coscienza di un nuovo senso di solidarietà fra tutti i componenti della biosfera, siano essi viventi, come gli esseri umani e gli altri esseri animali e vegetali, siano non viventi, come l’acqua  degli oceani e delle terre emerse, l’atmosfera, il suolo, i minerali.

La nostra salvezza, la sopravvivenza degli esseri umani sul pianeta, richiedono che essi lavorino questa Terra, ma ricordino che ne sono i “custodi” – una immagine che si trova nel libro della genesi (Genesi 2:15), come anche nelle parole di Marx (nel terzo libro de “Il capitale”) o in quelle di Saint-Exupery, divenute poi bandiera dei movimenti ambientalisti (la Terra ci è stata data in prestito dai nostri nipoti) – e che i beni della Terra sono dati per il dignitoso sostentamento di tutti gli esseri umani e devono essere usati al fine di realizzare, per la presente e le future generazioni, delle condizioni adatte allo sviluppo integrale e non solo materiale dell’uomo e tanto meno di alcuni gruppi, una minoranza, di esseri umani a spese dell’altra maggioranza dei terrestri.

Se è vero che alcune situazioni di sfruttamento della natura e di inquinamento della biosfera possono essere sanate impiegando, diversamente, altra tecnica, adottando opportuni depuratori oppure con azioni di rimboschimento e di  ristrutturazione delle città e del mondo rurale, per conservare un mondo naturale a dimensioni degli esseri umani, vivibile, occorre una revisione  radicale di molti dei modelli di comportamento finora adottati, occorre una nuova cultura e una nuova etica.

Difesa e conservazione della natura  significano rifiutare l’egoismo e la furberia, avvicinarsi diversamente ai  grandi problemi della casa, della città, della produzione, riformare la nostra valutazione di ciò che è “economico”.

Vengono alla mente le parole scritte da T.S. Eliot (1888-1965) nel 1939 nel libro: “L’idea di una società cristiana”: “L’organizzazione della  società sulle basi del profitto individuale e della distruzione collettiva dei beni conduce sia al deturpamento dell’umanità, attraverso un industrialismo  indisciplinato, sia all’esaurimento delle risorse naturali. Buona parte del nostro progresso materiale sarà forse pagata a caro prezzo dalle generazioni future”. Così è stato per la seconda metà del ventesimo secolo e ancora di più tale rischio esiste per gli abitanti del ventunesimo secolo.

Lo sfruttamento della natura, gli inquinamenti, le offese all’ambiente vanno rifiutati perché rappresentano forme di violenza verso altri umani, verso il prossimo, quello che è vicino a noi, che conosciamo, che avveleniamo con i gas dello scappamento dell’automobile, ma anche quello che è lontano, in  qualche altro punto del pianeta, che non sa più dove trovare il cibo a causa dell’avvelenamento dei pesci con i rifiuti, dei raccolti contaminati con i pesticidi, e addirittura verso il “prossimo  del futuro”, che non conosceremo mai, ma di cui, con certe nostre azioni compiute oggi, possiamo influenzare negativamente le condizioni di vita: si pensi, solo per fare un esempio, alle modificazioni climatiche secolari provocate dal nostro attuale uso di combustibili e prodotti che alterano la composizione chimica dell’atmosfera; all’eredità di scorie e materiali radioattivi artificiali che lasciamo alle generazioni future.

Così, indipendentemente dal reato nei confronti delle leggi umane, si arreca danno al prossimo quando lasciamo l’automobile parcheggiata in seconda fila, quando usiamo i pesticidi, quando usiamo in eccesso energia, dal momento che l’uso dei combustibili fossili provoca un inquinamento e anche modificazioni climatiche che fanno peggiorare le condizioni di vita degli abitanti dell’intero pianeta.

Si usa violenza verso i nostri contemporanei e le future generazioni quando viene prodotta elettricità commerciale – o quando sono predisposte armi di distruzione di massa – utilizzando le reazioni nucleari che liberano sostanze radioattive che entrano in tutti gli organismi della Terra, con conseguenze difficilmente prevedibili, in quanto la radioattività liberata oggi resterà inalterata per millenni nei depositi, quella assorbita dagli organismi animali continuerà a far sentire i suoi effetti per decenni.

Così sono forme di violenza la distruzione degli animali allo stato naturale con lo pseudo-sport della caccia o per procacciare pelli; la speculazione edilizia che  porta alla costruzione di città inumane; lo sfruttamento del suolo; il  rumore (la collera dei clackson e degli scappamenti aperti);  la distruzione delle foreste; l’avvelenare i passanti con i gas di scarico degli autoveicoli; lo scarico da parte delle fabbriche di rifiuti e di agenti inquinanti nell’aria, nei fiumi e nel mare; il trascurare norme di sicurezza e condizioni di lavoro che proteggano la vita e la salute dei lavoratori; e molte altre azioni.

Non ci si può nascondere che, accettando questa visione etica, l’ecologia finisce per essere una scienza sovversiva, nel suo interrogarsi su: quale tecnica? quali merci? quale economia? per che cosa?

Il fatto è che tutte le azioni, ecologicamente riprovevoli, prima elencate, vengono generalmente compiute per ragioni “economiche”, ubbidendo all’attuale filosofia che raccomanda l’espansione del reddito, della produzione e dei consumi – che ci viene fatto credere siano i motori della fabbrica della felicità e del progresso.

Ed è proprio qui che l’ecologia, imponendo una revisione del concetto di progresso, si fa sovversiva. Se è vero, infatti, che gli esseri umani, a qualsiasi popolo e a qualsiasi civiltà appartengano, hanno una naturale tendenza verso un miglioramento delle loro condizioni di vita, verso una vita  più lunga  per  se e per i propri figli, verso l’allontanamento delle malattie e del dolore, è altrettanto vero che in gran parte dei popoli e delle culture oggi il concetto di progresso è associato alla crescente disponibilità di beni materiali – merci, macchine, energia, servizi – e di ricchezza monetaria e che questo obiettivo può realizzarsi soltanto sfruttando sempre più le risorse della natura e provocando crescenti e continui inquinamenti.

Ormai in tutti i paesi – in quelli orientali dove esistevano filosofie che proponevano diversi rapporti fra gli uomini e gli altri esseri animati e inanimati, nei paesi capitalistici come in quelli che fino a ieri avevano una economia  socialista, come negli ultimi paesi a economia pianificata – il termine di paragone, il criterio di valutazione e confronto, è il reddito monetario individuale medio e un paese è considerato tanto più “progredito” quanto più alto è tale reddito.

Senza tenere conto che l’aumento della ricchezza e dei beni materiali può aversi soltanto attraverso un crescente sfruttamento e deterioramento delle risorse dell’ambiente, dei beni collettivi non monetizzabili, della basi naturali della vita.

Consumi dei ricchi, consumi dei poveri

Questa critica si riferisce a consumi e modi di vivere di una piccola parte dell’umanità, quella degli abitanti dei paesi ricchi del Nord del mondo; ma i tre quarti dell’umanità non si sono neanche avvicinati all’ombra della società dei consumi.

Nei paesi tecnicamente avanzati, nel Nord del mondo, abitati da 1.500 milioni di persone, i bisogni e i servizi  primari sono, in media, soddisfatti, e l’aumento del reddito e della  produzione portano  a soddisfare bisogni secondari e artificiosi sollecitati dalla raffinate tecniche della pubblicità e da condizionamenti palesi e occulti, e a veri sprechi.

I consumi artificiosi dei paesi sviluppati si traducono, a livello globale, in una rapida diminuzione delle risorse naturali di buona qualità dalle quali dipendono il soddisfacimento dei bisogni primari e lo stesso sviluppo dei paesi poveri, del Sud del mondo, con i loro 4.500 milioni di persone, e, alla lunga, la stessa sopravvivenza di tutti gli esseri umani.

In certe zone del Nord del mondo si sta addirittura osservando che gli effetti negativi dell’abuso  e  dello spreco delle risorse dell’ambiente ricadono sopra coloro che da tale abuso e spreco hanno tratto e traggono vantaggio: è il caso dell’impoverimento delle riserve di acqua dolce; del deterioramento dei raccolti in seguito alla forzatura delle colture e all’uso eccessivo dei pesticidi e dei concimi; dell’inquinamento del mare; della congestione urbana, eccetera.

D’altra parte gli abitanti dei paesi del Sud del mondo spesso mancano di una adeguata disponibilità dei beni necessari a soddisfare i bisogni primari, perfino quelli alimentari, anche perché sono costretti a coltivare prodotti destinati all’esportazione nei paesi ricchi, sottraendo terra alle coltivazioni che assicurerebbero cibo per loro stessi.

In un tempo in cui i progressi della tecnica e delle attività economiche potrebbero permettere un’attenuazione delle disparità e delle ingiustizie sociali, troppo spesso essi si tramutano in causa del loro aggravamento e in alcuni  luoghi perfino del regresso delle condizioni ambientali e umane  dei deboli e dei poveri. Mentre folle immense mancano dello stretto necessario, alcuni, anche nei paesi meno sviluppati, vivono in una offensiva opulenza o dissipano i beni, per cui il lusso si accompagna alla miseria.

E’ venuto il tempo di proporre una nuova definizione di progresso che ribadisca il diritto di tutti gli esseri umani di avere un livello adeguato di beni per soddisfare i bisogni primari indispensabili, quali alimenti, abitazioni, assistenza  sanitaria, istruzione, lavoro, dignità, vita in un ambiente decoroso.

E qui si entra in un altro territorio che induce a pensieri nuovi: tutti quelli che consideriamo “bisogni  primari” possono essere soddisfatti con merci e servizi molto differenti. Al “bisogno primario” istruzione ci si può avvicinare con una lavagna dentro una capanna, ma nessun  ragazzo  nei paesi “civili” si avvicina all’istruzione se non è attrezzato con cartelle e quaderni “firmati” e con libri di carta patinata.

La necessità di distinguere fra bisogni primari e bisogni secondari artificiosi si fa tanto più urgente in quanto all’attuale folle idea di “progresso” si ispirano anche i ceti poveri dei paesi ricchi, e i paesi poveri.

Per restare al caso dei poveri dei paesi industriali  avanzati, non assistiamo forse continuamente all’impiego del salario per ostentare consumi che scimmiottano quelli dei “modelli” offerti dai grandi mezzi di comunicazione ? L’indebitamento collettivo per ubbidire  ad una moda di consumi ispirata dai fabbricanti fa sì che l’analfabetismo conviva con i più moderni elettrodomestici, che il padre, la madre, i bambini vengano indegnamente strumentalizzati per stupidi consumi, che  una  offensiva ostentazione consumistica faccia indebitare le famiglie povere che devono fare, “per la gente”, sfoggio di superfluità sacrificando ben più importanti valori, come l’istruzione e la sicurezza dell’avvenire e della salute dei figli, e tutto questo sprecando e sporcando l’acqua e l’aria e il verde e il mondo circostante.

Su scala globale, se i paesi oggi poveri adottassero dei livelli di consumi come quelli americani o europei odierni, che sembrano rappresentare il vertice della felicità, la richiesta e lo sfruttamento delle riserve di risorse naturali in  tutto il pianeta avrebbero conseguenze disastrose in pochi anni.

Poiché non è possibile sottrarre senza limiti risorse da un serbatoio di capacità finita, come è la Terra, il  possedere maggiori quantità di beni materiali, merci e macchine porta a depauperare  e  a sporcare le risorse naturali e a togliere agli  altri, al prossimo della nostra e delle future  generazioni,  acqua pulita, aria limpida, il verde, le condizioni indispensabili per lo sviluppo fisico, psichico  e  morale, cioè per il vero progresso umano, addirittura per la stessa vita.

Dovrebbe essere compito dei governi orientare la produzione e i consumi delle merci verso il soddisfacimento di bisogni primari e non è detto che ciò richieda una società  autoritaria. E’ necessaria invece una società morale.

E’ indispensabile che i parlamenti e i governi pianifichino i grandi  processi  civili ed economici — scuola  e  traffico, abitazioni e produzione, servizi sanitari e igienici, eccetera – non sotto la pressione degli interessi  finanziari  di una ristretta minoranza, ma alla luce di valori anche etici, fra cui l’etica della scarsità dei beni della natura.

La bestemmia dell’austerità

Non c’è dubbio che l’idea della continenza come guida ad una  nuova  saggezza ecologica è non solo impopolare –  oggi addirittura una bestemmia – ma anche piena di contraddizioni. Il potere economico ironizza sulle proposte di continenza, di austerità avanzate dai malinconici  frustrati, come ci chiamano, che, criticando l’attuale struttura dei consumi, vogliono tornare al tempo delle caverne. E’ quello stesso potere economico che oggi si presenta tanto amico dell’ecologia e degli ecologi sperando di cavalcare la nuova tigre per poter continuare  a inquinare e a sfruttare la  Terra  senza eccessivi disturbi ai propri bilanci aziendali.

E’ innegabile che, una volta assaporato il frutto dell’albero della tecnica, non si può tornare indietro e che le  proposte di continenza merceologica nascondono, sotto il loro fascino, profonde contraddizioni. E’ credibile che si possa smettere di produrre energia,  macchine, strumenti di lavoro, con la popolazione mondiale che aumenta di ottanta milioni di persone all’anno, con  tremendi problemi di sottoalimentazione, di sottosviluppo? E, d’altra parte, possiamo continuare a correre, con incoscienza, verso il diboscamento e l’erosione del suolo e le modificazioni, di origine antropica, della composizione dell’atmosfera e delle acque?

Possiamo decidere, nel nome della salvaguardia degli equilibri naturali, di non usare più pesticidi  col  rischio di lasciar morire milioni di persone per mancanza di cibo o per malattie ? E, d’altra parte, possiamo accettare l’idea che, continuando ad usare gli attuali pesticidi, si avvelenino, nel  corso di alcuni decenni, tutti gli esseri viventi della Terra?

Possiamo negare acqua, energia e fertilizzanti ai due terzi sottoalimentati della popolazione terrestre perché le opere di regolazione del corso dei fiumi turbano l’equilibrio ecologico di migliaia di kilometri quadrati della superficie terrestre o perché le centrali nucleari producono dei residui radioattivi il cui smaltimento senza pericolo diventerà sempre  più difficile ? E, d’altra parte, possiamo accettare che le valli si trasformino in deserti e che i residui radioattivi contaminino, in trenta o cento anni, tutta la  biosfera?

Come possiamo distinguere fra la produzione di merci inutili, ispirata soltanto al profitto privato e imposta con le raffinate  tecniche  della persuasione a consumatori ormai sazi nelle loro  necessità elementari di cibo e di lavoro, e la produzione di beni in grado di assicurare un minimo di  vita umana a quelli che oggi vivono in condizioni sub-umane ? Come possiamo capire quando economia e tecnica sono al  servizio dell’uomo o quando sono al servizio dei bilanci aziendali ?

Etica dei bisogni e bisogni di lavoro

Una delle contraddizioni della proposta di continenza merceologica riguarda il fatto che la produzione e i consumi di merci sono indispensabili per assicurare occupazione a milioni di persone in Italia, a miliardi di lavoratori nel mondo. Che cosa faremo della mano d’opera che probabilmente resterà disoccupata se porremo dei limiti al processo di produzione di merci che, anche se inutili, pure contribuiscono a tenere in  piedi un meccanismo da cui dipende la vita di tante famiglie?  Con che coraggio raccomanderemo la continenza ai poveri, a coloro che non hanno ancora neanche assaporato il frutto dell’albero della tecnica?

Non si può infatti dimenticare che lo sfruttamento della natura  ha luogo anche per assicurare un minimo di beni a coloro che non hanno niente, tiene in moto un meccanismo che, oltre  a procurare profitto ai padroni, assicura lavoro agli operai ed è liberatorio per molti bisogni elementari. I detersivi sintetici e le lavatrici, responsabili di  inquinamenti, hanno liberato la donna dalla schiavitù del  bucato e dal lavatoio; l’automobile che porta l’operaio più rapidamente sul posto di lavoro inquinando l’atmosfera, permette però allo stesso operaio di stare più tempo con la sua famiglia; e così via.

Peraltro la continenza nei consumi, intesa  come atto di rispetto per il prossimo del futuro, al quale si vuole lasciare un’adeguata eredità di risorse naturali ancora di decente qualità, potrebbe tradursi in un atto di  ingiustizia verso i poveri di oggi; se infatti questa continenza venisse adottata  oggi da tutti gli abitanti della Terra: quelli che hanno già a sufficienza o molto continuerebbero  ad  avere quello che hanno e quelli che hanno poco o niente resterebbero come sono.

Per  realizzare almeno un minimo di giustizia occorre dare precedenza alle azioni tecniche e scientifiche e ai settori dell’agricoltura e dell’industria che assicurano una adeguata disponibilità dei beni primari a coloro che ne sono privi. Per  far ciò è indispensabile imporre ai paesi che già  hanno molto, una revisione critica della gerarchia dei  bisogni di beni materiali e una azione di disciplina nei consumi e di freno nello sfruttamento delle risorse naturali.

Del resto alla realizzazione di uno “sviluppo sostenibile” proposto dalle Nazioni Unite – uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni dell’attuale  generazione lasciando alle generazioni future risorse che gli consentano di soddisfare  ugualmente i loro bisogni – non ci si può neanche avvicinare se non si realizza una contrazione dei consumi dei paesi ricchi per  assicurare ai paesi poveri le condizioni  materiali  per almeno un avvio del loro sviluppo.

Anche così, tuttavia, per assicurare ai  paesi poveri il raggiungimento di un livello dignitoso di sviluppo umano, per soddisfare i bisogni primari dei poveri, di quelli che non hanno neanche l’indispensabile, bisogna essere  preparati  a sacrificare una parte, che può essere anche rilevante,  della quantità e della qualità delle risorse naturali ancora  restanti, togliendole alle generazioni future. Il che è in contrasto con la definizione stessa di ”sostenibilità”.

Come decidere fino a che punto, anche solo per assicurare  un minimo ai poveri, possiamo continuare a provocare inquinamenti, diboscamento, frane, senza arrivare ad una catastrofe planetaria, è un problema pieno di incognite e costituisce uno dei più grandi impegni di ricerca da parte di ecologi ed economisti, ma anche di politici e moralisti.

Fra  l’altro bisogna sottoporre a revisione gli attuali concetti-idoli di produttività, di competitività, di globalizzazione dei mercati, e di convenienza economica, in modo da comprendere, nelle valutazioni economiche, i costi sociali conseguenti al peggioramento della qualità dell’ambiente e  i benefici derivanti dallo svolgimento della vita umana in un ambiente decente che assicuri un adeguato sviluppo fisico, psichico e morale.

Popolazione, ambiente e merci

I problemi, già difficili, finora considerati sono aggravati dal rapido aumento della popolazione mondiale.

Ci sono voluti alcuni milioni di anni per  raggiungere, nel 1900, la presenza sulla Terra di 1.600 milioni di  persone; la  popolazione  era salita a duemila milioni di persone dopo appena  trent’anni ed è diventata di quattromila milioni di persone nel 1975; di cinquemila nel 1987; di 6.000 milioni nel 2000. Anche se si osserva un sia pur piccolo rallentamento nel tasso di aumento, in questa fine di secolo la  popolazione mondiale aumenta ogni anno di quasi ottanta milioni di esseri umani.

Finora le azioni per rallentare l’aumento della popolazione sono state ispirate all’egoismo individuale o collettivo, familiare  o politico. Per chi ha molto si tratta di evitare di spartire quello che si ha con “troppi” altri; per  quelli che hanno poco si tratta di evitare che i figli, essendo in troppi, non  abbiano mezzi materiali sufficienti; i  paesi ricchi temono che l’aumento degli abitanti dei paesi poveri –  sono  i poveri, infatti, che generalmente  aumentano più rapidamente dei  ricchi –  minacci  l’equilibrio  mondiale, faccia aumentare il numero dei potenziali scontenti e rivoluzionari,  con le loro pretese di ripartizione più equa delle risorse esistenti, porti ad una crescente pressione  migratoria verso i paesi industriali.

L’ecologia induce ad esaminare il problema della  popolazione mondiale sotto diversa luce: quanto più aumenta il numero degli esseri umani sulla Terra, tanto maggiore è, per soddisfare anche soltanto i loro bisogni elementari, la  richiesta di risorse naturali, l’impoverimento delle riserve di risorse che restano disponibili alle generazioni future.

Circa duecento anni fa, precisamente il 7 giugno 1798, comparve uno scritto, anonimo, sui rapporti fra popolazione e risorse, in particolare risorse alimentari. L’autore, Robert Malthus (1766-1834), dopo aver raccomandato la limitazione delle nascite, nella seconda  edizione del  “Saggio  sulla popolazione” (1803), scrisse che devono essere respinti dal pur abbondante banchetto della natura coloro che vi si presentano senza avere di che provvedere a se stessi. Una frase tanto spietata che lo stesso Malthus la tolse nelle edizioni successive.

Non ci si può, peraltro, illudere che si possa allargare  il banchetto della natura, che le risorse della natura – cibo, acqua, energia – possano aumentare,  anche se più o meno lentamente. Le leggi della natura sono esplicite: le risorse materiali, fisiche, in realtà diminuiscono a  mano a mano che aumenta la popolazione e tanto più rapidamente se anche  aumentano i consumi. Se  guardiamo  all’avvenire, i ricchi e i poveri si ritrovano tutti ugualmente poveri  di quei beni naturali che sono indispensabili per una vita degna dell’uomo.

Per elementari ragioni ecologiche, chimiche e fisiche, l’aumento della popolazione umana determina una crescente sottrazione delle risorse indispensabili perché altri raggiungano uno sviluppo integrale e costituisce un atto di violenza verso il  prossimo, presente e futuro, verso gli stessi figli e verso gli abitanti attuali e futuri del pianeta che avranno minori disponibilità di acqua, aria, di spazio abitabile, di condizioni umane di vita.

L’analisi dei rapporti fra popolazione, consumi, risorse naturali mostra che vi sono altre trappole con cui dobbiamo fare i conti.

Un rallentamento del tasso di aumento della popolazione, cioè del numero di  figli  per coppia, porta ad un rallentamento dell’aumento del numero totale dei terrestri, ma porta anche in breve tempo ad un aumento del numero di anziani: oggi nelle società industriali, domani in tutto il pianeta. Questi anziani hanno crescente bisogno di beni e servizi, sia pure di un tipo del tutto diverso da quelli dei consumatori – bambini, giovani e giovani adulti – per i quali produce l’industria e a cui parla la pubblicità: i bisogni della crescente popolazione degli anziani richiedono denaro,  proprio  mentre sta diminuendo la popolazione in età lavorativa e quindi la fonte prima di reddito.

Questo quadro presuppone nuovi indicatori e nuove azioni di solidarietà, l’identificazione dei nuovi bisogni della popolazione anziana e di nuove merci, strutture e servizi per soddisfarli. Presuppone la  necessità di aprire le porte dei paesi industriali alla forza lavoro proveniente dai paesi oggi poveri, presuppone la rottura di molti  privilegi esistenti nei paesi ricchi, anche nelle classi lavoratrici, presuppone una nuova cultura del “servizio” per una nuova categoria, o “classe”, di deboli e di nuovi poveri, gli anziani appunto.

A maggior ragione la  soluzione di questi problemi non è facilitata, ma aggravata, da un ulteriore aumento di coloro che si affacciano al banchetto della natura.

La tecnica ci salverà?

Si sente spesso affermare che i guasti ambientali provocati da un uso miope della tecnica possono essere riparati da un uso migliore, più attento, più intenso, di altra tecnica.

Coloro che vogliono evitare le contraddizioni esistenti fra l’erosione delle risorse naturali, l’aumento della popolazione e i consumi, coloro che vogliono evitare di affrontare il problema dei “limiti” della Terra, fanno rilevare come, in  molte  zone del nostro pianeta, esistano ancora grandi riserve di acqua, foreste, suolo coltivabile e come, da un punto di vista scientifico e tecnico, sia possibile mettere a coltura i deserti, estrarre acqua dolce dal mare, ridistribuire  le risorse e le popolazioni spostandole da una parte all’altra del globo in modo da alleviare l’eccessivo sfruttamento che, in particolari zone, la popolazione già esercita sulle risorse naturali locali.

Fra tali proposte vi sono i giganteschi progetti di modificazione  del corso dei fiumi, l’uso dell’energia nucleare per produrre fertilizzanti e acqua dolce dal mare, le grandi opere di diboscamento per ricavare nuovo terreno da coltivare nelle  foreste tropicali, per raggiungere risorse minerarie ancora non sfruttate, per aumentare la produzione agricola e forestale.

A breve termine è possibile, con adatti accorgimenti, uscire dalle trappole tecnologiche in cui siamo caduti: agli inquinamenti si può rimediare con impianti di depurazione, con nuove materie plastiche, con nuove fonti di energia, con antiparassitari diversi, con nuovi detersivi, con nuove e diverse automobili: i cambiamenti tecnici sono certamente costosi, fanno aumentare i costi di produzione e le imposte, ma permettono di continuare sulla attuale strada del “progresso”.

Con l’illusione che, grazie alle risorse illimitate della tecnica, si possa evitare il rapido esaurimento delle limitate scorte di risorse naturali della Terra, molti si tranquillizzano e  ritengono così scongiurato il pericolo di dover consigliare la continenza nei consumi, il pericolo di un rallentamento della corsa verso la produzione e il profitto, di dover raccomandare un rallentamento dell’aumento della popolazione mondiale.

L’esperienza finora raccolta mostra, però, che le grandi dighe hanno modificato il trasporto di sostanze fertili a valle e hanno diminuito la fertilità dei suoli; le grandi opere di irrigazione hanno prosciugato i laghi di acqua dolce e li hanno trasformati in  paludi  saline;  il diboscamento delle  foreste tropicali ha consentito di aumentare la superficie coltivabile solo per breve  tempo; il nuovo terreno è ben presto divenuto sterile ed esposto all’erosione. Molti sistemi di depurazione dei fumi e delle acque non fanno altro che trasferire le sostanze nocive da una parte all’altra della biosfera; dalle acque o dai fumi, ai fanghi e al terreno e alle acque sotterranee.

Nei paesi poveri la diffusione di alcune nuove tecniche avanzate, estranee alla cultura locale, ha creato una nuova classe dominante costituita da coloro che sono riusciti a ricevere dalle mani dei “bianchi” i segreti degli artifizi e dei macchinari e che diventano oppressori dei loro concittadini. Non a caso molti paesi poveri accusano i paesi ricchi di usare le storie dell’ecologia come nuovi strumenti di oppressione e di colonialismo.

La soluzione va cercata in un “nuovo ordine economico internazionale”, invocato da tanti anni, ma sempre eluso, che richiede anche l’uso di tecniche che siano al servizio della persona, della dignità umana, della vita.

Una ingegneria per la vita

Una tecnica capace di aiutare i paesi poveri del Sud del mondo a muovere i primi passi sulla via di un reale sviluppo, dovrebbe essere basata più sull’amore che sull’energia nucleare, più sulla comprensione di bisogni e culture a noi estranei che sulle grandi dighe e autostrade.

La conoscenza delle culture locali è di primaria importanza perché le nuove tecniche siano credibili ed accettabili e siano facilmente assimilabili. Le tecniche al servizio dell’uomo dovrebbero essere basate su attrezzature creabili sul posto di utilizzazione, con materiali  e capacità locali, che gli abitanti dei paesi poveri devono imparare a fabbricare e usare con le proprie mani, per convinzione e non per imposizione di culture e interessi finanziari estranei.

Penso a pompe per sollevare l’acqua dal sottosuolo, a macchinari alimentati dall’energia solare e dal vento, a sistemi di depurazione dell’acqua, a tecniche di conservazione dei prodotti agricoli, di trasformazione e utilizzazione industriale dei prodotti e sottoprodotti agricoli e forestali, a dispositivi per migliorare le condizioni igieniche, per aiutare i minorati e i disabili, eccetera.

Essenziale è il contributo dei tecnici locali, più vicini ai problemi di ciascun paese, ma occorre una svolta decisiva nella cooperazione tecnico-scientifica che finora è stata orientata a preparare tecnici in grado di esportare nei loro paesi le nostre tecniche, spesso contrarie agli interessi dei loro stessi paesi, spesso disastrose per l’ambiente.

Le difficoltà sono grandi perché tutto il mondo va in direzione contraria. Basta pensare che i paesi industriali del Nord del mondo hanno l’interesse a vendere a quelli poveri del Sud del mondo quello che sanno produrre, dai macchinari sofisticati, ai trattori, alle armi, alla propria cultura e al  proprio modo di  vedere il mondo. Lo dimostra uno sguardo ai nuovi paesi emergenti che scimmiottano, nelle città, nei  negozi, negli edifici, le nostre città industriali.

Un progetto di cambiamento è di difficile attuazione, ma non utopistico; intanto i materiali e il  denaro per lo sviluppo umano del Sud del mondo sarebbero già disponibili se cessasse o diminuisse la produzione di armamenti, queste “merci oscene” così redditizie per la grande industria delle armi nelle mani del capitale dei paesi industriali; è contro tale fabbrica di morte che va condotta una guerra coraggiosa e intensa, tanto più che la produzione, la conservazione e la sperimentazione, anche non in guerra, e perfino la distruzione delle armi “scientifiche” (nucleari, biologiche e chimiche) rappresentano dei gravi attentati alla conservazione dell’ambiente e agli equilibri della biosfera.

Nonostante il gran parlare di distensione, dopo 2000 esplosioni sperimentali di bombe nucleari nell’aria e nel  sottosuolo, soltanto alla fine del 1996 si è arrivati ad un trattato che vieta tali esplosioni, peraltro non ancora entrato in vigore per la mancata ratifica da parte degli Stati uniti. Siamo ancora ben lontani dal fare qualche passo concreto verso un vero disarmo nucleare totale, pur richiesto dal Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, firmato e ratificato da tutti i paesi.

E ancora oggi nel mondo esistono trentamila bombe nucleari, con una potenza distruttiva mille volte più grande di quella di tutti gli esplosivi usati durante la seconda guerra mondiale. E se anche venisse deciso un vero disarmo nucleare, la distruzione e lo smaltimento dei materiali esplosivi radioattivi, presenti in tali bombe dovrebbe impegnare intere generazioni di tecnici e scienziati e enormi cifre.

Lo stesso vale per le armi biologiche e chimiche che, pur essendo formalmente vietate e dichiarate illegali, continuano ad essere prodotte clandestinamente in vari paesi, anche in quelli poveri, e sono state usate in conflitti locali  per uccidere o per rendere inabitabile l’ambiente occupato dal nemico attraverso la distruzione della vegetazione o la contaminazione della biosfera, con diretta ricaduta sui civili innocenti. Anche la distruzione e lo smaltimento delle armi di guerra chimica può dar luogo a disastri ecologici e all’avvelenamento degli oceani.

È semplicemente sbalorditivo che paesi che si dicono “civili”, e fra questi anche l’Italia, siano contrari ad un disarmo nucleare, invocando cavilli giuridici di diritto all’autodifesa, o addirittura producano e vendano le mine anti-uomo che stanno uccidendo e mutilando milioni di persone, fra cui molti bambini, nel mondo.

Una rivoluzione scientifica ed etica

La salvezza può venire solo da una diffusione della cultura della speranza e della nonviolenza. Nonviolenza nei confronti degli altri esseri umani e della natura. Si tratta di ricuperare antichi e dimenticati valori di rispetto del prossimo, di solidarietà, di rapporti internazionali disinquinati dalla violenza della sopraffazione, della concorrenza, del potere, del denaro.

Si tratta di portare tali nuovi valori nelle scuole, nelle Università, le quali, nei paesi industrializzati, sono ancora troppo permeate dai veleni dell’ideologia della violenza, del successo privato, del consumo, e di portare un nuovo messaggio, mobilitando gli insegnanti.

Si tratta di denunciare la pubblicità che, incoraggiando i consumi inutili e gli sprechi, ha, come effetto, l’ulteriore degrado della natura e rappresenta, perciò, una forma di “ecopornografia”.

Un ruolo importante avrebbero le chiese se condannassero, più di quanto non facciano, lo spreco, l’ostentazione, i consumi inutili. Si pensi all’occasione del giubileo, l’anno sabatico che, nel capitolo 25 del Levitico, viene specificamente indicato come l’anno in cui deve essere lasciata “riposare la Terra”, devono essere restituite le terre accumulate nei cinquant’anni precedenti, devono essere liberati gli schiavi. Quale straordinario invito ecologico, e quanto lontano dalla frenesia consumistica che permea il giubileo romano del 2000!

Un ruolo fondamentale avrebbero i partiti e le organizzazioni dei lavoratori, se avessero il coraggio di rivendicare i grandi valori di solidarietà e internazionalismo – che erano poi i valori fondatori della loro stessa esistenza – contro le meschine manovre di protezione di interessi parziali.

Nel 1970 un gruppo di  filosofi,  naturalisti e tecnologi, riuniti a Perugia per un convegno sul  tema: “Verso il terricidio?”, ha firmato un “manifesto” che dichiara “antiumana qualsiasi azione che, attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, arrechi danno fisico o morale a qualsiasi essere umano, in qualunque parte della Terra si trovi, vivente oggi e in futuro sul pianeta”.

Questa dichiarazione potrebbe essere una guida per un cammino verso la nuova cultura della sopravvivenza e può essere sottoscritta da coloro che vogliono impegnarsi nell’operazione di salvataggio degli abitanti di questa nave spaziale alla deriva nello spazio.

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