1. La “svolta” heideggeriana e la svolta dell’antropologia filosofica.
Heidegger nel primo capitolo di “Essere e tempo” scriveva: “Nella introduzione abbiamo già posto in evidenza come l’analitica esistenziale dell’Esserci comporti anche un’esigenza la cui perentorietà è a mala pena inferiore a quella del problema dell’essere stesso: lo scoprimento dello a priori che rende possibile la discussione filosofica del seguente problema: Che cosa è l’uomo? L’analitica esistenziale dell’Esserci precede ogni psicologia, ogni antropologia, e soprattutto ogni biologia. Dalla sua delimitazione rispetto a queste ricerche possibili intorno all’Esserci, il tema dell’analitica non potrà che acquistare una determinazione ancora maggiore. Con ciò la sua necessità risulterà ancora più rigorosamente dimostrata.” 1M.Heidegger, “Essere e tempo”, Longanesi, Milano, 1970/1990, p. 68; titolo originale “Sein und Zeit”, Max Niemeyer Verlag, Tubingen, 1927.
Heidegger, dunque, operava una rottura con la tradizione della Metafisica: da una parte, con la sua svolta verso la “finitezza”, con l’indicazione cioè di una ontologia fondata sull’analitica esistenziale dell’Esserci; e, dall’altra, fondandola (in congiunzione allo scheleriano “primato dell’emozionalità”), sulla sua determinazione fondamentale costituita dalla “situazione emotiva”. Ma, nello stesso tempo, rimaneva legato al trascendentalismo tedesco in quanto manteneva (come condizione di possibilità del discorso filosofico sul “Che cosa è l’uomo?”), “lo scoprimento dell’a priori” e dunque la preclusione verso “ogni psicologia, ogni antropologia e soprattutto ogni biologia”. In breve ci troviamo, con queste enunciazioni di Heidegger, agli antipodi della metodologia e delle tesi che l’Antropologia filosofica, con Scheler, (il suo “La posizione dell’uomo nel cosmo” è del 1928), ma soprattutto con Plessner e con Gehlen, (e anche con Binswanger) stava formulando in quegli stessi anni, sul terreno di quella tradizione di profondo interesse, da parte dello stesso pensiero filosofico tedesco (si pensi solo a Herder o a W.von Humbolt), nei confronti dello studio sull’uomo in quanto tale, al di là di ogni trascendentalismo, nello spirito dell’umanesimo.
Pertanto è da tener presente che Helmut Plessner, già col suo “L’unità dei sensi” del 1923 e poi con “I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica.” del 1928, si era avviato a proporre un’interpretazione dell’uomo che ne tematizzasse, in stretto legame con i risultati in primo luogo della ricerca biologica e delle altre scienze, lo “specifico” rispetto alle altre forme viventi: contro un’antropologia di tipo puramente “zoologico”, e contro, nello stesso tempo, qualsiasi concezione metafisica della natura umana o di leggi universalmente valide. 2E in direzione di una messa a fuoco della sua “eccentricità” rispetto agli altri esseri viventi; e di una messa a fuoco delle “protesi” che attraverso la cultura egli ha costruito, a prolungamento simbolico dei suoi organi, per dominare la realtà E tale posizione “eccentrica” definisce la struttura della sua dimensione “intellettiva” come di quella “vegetativa”. Tutte le prerogative umane perciò vengono connotate da questa eccentricità nel loro carattere sia fisico che psichico: e tali caratteri, attraverso cui si costituisce la vita e l’agire dell’uomo nel suo mondo, sono entrambi “originari” e, pur nella diversità delle loro funzioni, sono da considerarsi un tutto unico. Quanto a dire che egli affrancava l’antropologia filosofica, oltre che da Heidegger, anche dal marchio metafisico che Scheler le imprimerà in “La posizione dell’uomo nel cosmo”; in cui, pur definendo creativamente l’uomo come il soggetto del “no costituzionale all’impulso istintivo”, introdurrà contemporaneamente lo “spirito” quale elemento del tutto altro dalla vita. E teorizzerà la impossibilità di concepire lo spirito sia come scaturente dalla dimensione biologica, sia come compensazione di una inferiorità a livello organico e sia come eventuale risposta sostitutiva dell’adattamento all’ambiente 3Peraltro, come si è visto, è nota la critica da parte di Scheler, fin dal 1913, sulla base della fenomenologia husserliana, alle posizioni teoretiche kantiane e al suo intendere il soggetto soltanto nei modi dell’operare logico. E in particolare la sua critica alla “intollerabile limitazione” di non assumere l’a priori dell’esperienza emozionale. “Quel che di emozionale vi è nello spirito (…) ha dei costituenti originari apriorici, che non sono derivati dal “pensiero”, che l’etica deve mettere in luce senza nulla derivare dalla logica.” (citato da A.Masullo, in “Filosofia del soggetto e diritto del senso”, Marietti, Genova, 1990, p. 136.) Quì, per inciso, è forse inutile ribadire che la posizione di Max Scheler sull’emozionalità e sull’ etica è tuttavia interessante pur se segnata inappellabilmente dalla fenomenologia husserliana. Infatti, come si è visto, egli ritiene che questi “costituenti apriorici”, assimilabili alle “essenze” di Husserl, sono oggetto di intuizione emozionale e vengono a costituire, in quanto valori, i fondamenti di un’etica materiale aprioristica che privilegia radicalmente, di conseguenza, la dimensione del sentimento invece che quella dell’intelletto Per cui non perverrà mai a quanto contrassegna la vera “svolta” che l’antropologia filosofica avviava: la concezione di un apriori di carattere bioantropologico e contemporaneamente storico-culturale: da una parte marcato dalla storia evolutiva della specie umana e dall’ontogenesi; e dall’altro dal come tutto ciò interagisca, in quel determinato contesto storico-culturale e ambientale, con il vissuto cognitivo emozionale dell’identità umana nel rapporto emozionale con l’altro e con valori legittimati comunitariamente.
2. Arnold Gehlen e la sua antropologia.
A questo punto è bene aver presente ciò che Arnold Gehlen puntualizzava a sua volta nell’introduzione a “L’uomo” (che è del 1940, ma raccoglie studi e pubblicazioni precedenti e rappresenterà uno degli esiti conclusivi dell’antropologia filosofica. L’altro sarà quello che farà capo, successivamente, alla Philosophical Biology di Jonas): “Il compito di rappresentare l’uomo -enunciava- è difficile: è stato più volte tentato, mai però realizzato. Non è stato realizzato per parecchi motivi. Il principale è questo: la mancata ricomposizione di “esterno” e di “interno”; morfologia e psicologia, corpo e psiche rimangono, in tutte le riflessioni sin’ora condotte, mondi estranei (…) Un’altro motivo del fallimento delle teorie antropologiche globali è il seguente: in una scienza siffatta dovrebbero collaborare parecchie scienze particolari: la biologia, la psicologia, la gnoseologia, la linguistica eccetera. Già l’orientarsi in scienze tanto differenti può essere non facile, e ancor più problematica vuol essere la possibilità di attingere un punto di vista dal quale tutte queste scienze possano essere dominate in funzione di un unico tema. Si debbono per così dire abbattere i confini tra queste scienze ma in una guisa produttiva; da questa distruzione deve acquisirsi il materiale per una rifondazione di un’unica scienza. Il mio compito è ora di costruire un tale punto di vista guida e non mi è stato possibile desumerlo da alcuna delle scienze particolari citate, essendo un punto di vista filosofico.” 4Arnold Gehlen, “L’uomo”, Feltrinelli, Milano, 1983/1990, pp. 38/39; Ed. orig., “Der Mensch”, 1940. E forse diventa superfluo aggiungere come queste fiormulazioni si pongano in modo netto contro l’indicazione heideggeriana, citata sopra, dello “scoprimento dell’a priori che rende possibile la discussione filosofica”; e contro il fatto che ciò avrebbe permesso di rispondere alla domanda “Che cosa è l’uomo”, a prescindere da “ogni psicologia, ogni antropologia, e soprattutto da ogni biologia”.
Contro il trascendentalismo e contro l’ontologia di marca fenomenologica l’approccio di Plessner e Gehlen e dell’Antropologia filosofica appare dunque nella sua rilevanza di vera “svolta”. Ed essa si manifesta come un traguardo di indubbio spessore teorico, in quanto, in modo nuovo e definitivo indica negli apriorismi non altro che le strutture bioantropologiche e attribuisce all’antropologia, alla psicologia, alla biologia come a tutte le altre discipline “utili”, purchè traguardate nella stessa ottica, il compito di indagare, alla luce della specificità della condizione umana, le modalità attraverso cui, antropobiologicamente e storicamente, si è costruita l’identità umana, rispetto alle altre specie viventi. “Quanto abbiamo finora indagato -poteva scrivere Gehlen- comporta anche la confutazione di tutti gli errori di matrice kantiana per il quale l’articolarsi e il configurarsi della nostra percezione sarebbe opera dell’intelletto. Nella gnoseologia di Kant c’è molto di legato all’epoca sua, in particolare una mancanza di più profonde conoscenze in fatto di fisiologia dei sensi, di psicologia animale e di teoria del linguaggio, anzi un’assenza completa di queste scienze.” 5A.Gehlen, ivi, p.216.
In merito poi alla specificità della proposta antropologica che Gehlen avanza, diviene indispensabile rilevarne i caratteri essenziali. “Dal punto di vista morfologico -affermava- a differenza di tutti i mammiferi superiori, l’uomo è determinato in linea fondamntale da una serie di ‘carenze’, le quali di volta in volta vanno definite nel preciso senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, coè di carenze di sviluppo: e dunque in senso essenzialmente negativo” 6Ivi, p. 60.. Pertanto il nucleo di questa sua concezione antropologica può essere definito da due ordini di determinazioni: intanto, come si è visto, l’uomo è inteso, sulle orme di Herder, come “essere manchevole” e “non specializzato”, ovvero come “essere carente” degli istinti animali, e inteso dunque, schelerianamente, come un essere “aperto al mondo” e privo “dell’adattamento animale ad un ambiente specifico”. La seconda determinazione, sulla scorta della teoria paretiana dell’azione, è costituita invece dalla categoria fondamentale dell’azione concepita come strumento atto a dotare l’uomo di un “orientamento” sicuro, in sostituzione di quello istintuale; e atto a dotarlo di “autostabilizzazione”. Azione concepita altresì sia quale base dell’”autoattività” umana che, in quanto tale, supera il dualismo tra soma e psiche e salda prestazioni cognitive, mentali e fisiologiche; e sia in quanto caratterizzata da una sua “struttura” in conformità al linguaggio (“a misura di linguaggio”) le cui radici stanno nella loro “autoattività” e sono tutte riferite alle condizioni della costituzione umana. Gehlen, d’altra parte, si preoccupa anche di costruire un fondamento filogenetico alle sue formulazioni sull’uomo quale “essere carente” e, in una visione oppositiva nei confronti della teoria evolutiva di Darwin, interpreta la carenza istintuale dell’uomo in riferimento a un processo di decadenza, di “disgregazione”, di “degradazione” dei suoi istinti. Ovvero, (ignorando e non tematizzando bioantropologicamente la positiva acquisizione da parte di Scheler e di Heidegger, del “primato dell’emozionalità”), non vede che questo processo non è l’origine, ma il risultato della speciazione culturale dell’uomo: cioè di quel processo che a partire dalla “specializzazione emozionale” di Homo Habilis, ha prodotto con Homo Sapiens la sua speciazione culturale: la sostituzione dei condizionamenti istintuali con il culturale lato sensu, quale esito della esperienza psichica delle dinamiche dell’emozionalità primaria e del suo vissuto relazionale (ma per tali temi chi scrive è costretto a rimandare al suo “Per un umanesimo rivisitato. Da Scheler ad Heidegger, da Gramsci a Jonas, all’Etica di liberazione”, Jaca Book, 1999).
Riguardo, allora, a una lettura in grado di vagliare gli elementi positivi e negativi dell’antropologia di Gehlen non può non tenersi conto che è stato Gehlen stesso, negli ultimi anni della sua vita a prendere coscienza dei limiti dei caratteri che egli aveva attribuito all’azione. Particolarmente in riferimento a un concetto di azione che non postulava alcuna altra mediazione nella relazione tra uomo e mondo, e cancellava la sfera dell’emozionalità. E che finiva con l’echeggiare, pur se in una dimensione materialistica, posizioni teoriche dell’idealismo e dell’attualismo.
3. Le tracce di Gehlen nell’ultimo quindicennio italiano.
Deriva dal discorso fatto fin quì l’interesse verso la ricerca delle tracce che la concezione antropologica gehleniana ha depositato nella cultura italiana di questo ultimo quindicennio, ovvero da quando è uscita nel 1983, in Italia, la sua opera principale “Der Mensch”. E a titolo di significativo esempio, in rapporto specifico ad autori che, pur non avendo in comune alcuna impronta di appartenenza, hanno sentito, ognuno in modo diverso, la necessità di assumere un paradigma antropologico altro da quello che ha connotato e connota tuttora la riflessione filosofica occidentale. Più precisamente faremo un breve cenno ai richiami a Gehlen contenuti in alcuni lavori di Sergio Moravia, Francesco Remotti, Pietro Barcellona, Paolo Flores D’Arcais e Umberto Galimberti. Richiami che, anche se a volte quasi incidentali, sono certo rivelatori, a parere di chi scrive, di un impegno, e di sensibilità nuove e importanti, in direzione dell’acquisizione della dimensione bioantropologica all’interno del pensiero filosofico e della riflessione culturale in genere.
Sergio Moravia, in “L’enigma dell’esistenza” del 1986, in relazione a un discorso riguardante “la costituzione psico-antropologica del soggetto nell’età Moderna”, tratteggia brevemente l’urgenza di oltrepassare gli schemi che hanno contrassegnato un tale soggetto “uscito dal rigido controllo degli unitari e unificanti categoremi classici, cartesiano-kantiani non meno che aristotelici-scolastici.” 7Sergio Moravia, “L’enigma dell’esistenza”, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 130. E inserisce un pertinente riferimento all’antropologia filosofica tedesca e al concetto gehleniano di “mancanza”, di cui coglie il carattere di “molla, dinamica dell’essere\agire umano”, pur se non va a indagarne ulteriormente le connessioni con la dimensione bioantropologica. Lamentando poi la scarsa conoscenza in Italia di Gehlen, Moravia precisa: “L’essere umano si costituisce come tale proprio affrancandosi dagli istinti, distanziandosi dalla naturalità immediata, progettando e realizzando universi culturali (…) L’uomo è quell’ente che attraverso un sistema di segni dotato di significati lato sensu storici (…) assegna ordine e valori all’esperienza che lo circonda.” 8Ivi, p. 97.
Francesco Remotti invece, nel suo “Contro l’identità” del 1996, in una lettura etnoantropologica che egli collega, in particolare, a Geertz, (ma ovviamente potrebbe esserlo ad Ernesto De Martino e alla sua Scuola), pur non richiamandosi esplicitamente all’antropologia filosofica di Gehlen, deriva correttamente, e proprio attraverso una ottica bioantropologica, la “irrinunciabilità” dell’identità dalla “incopletezza biologica” dell’uomo: “Nel momento in cui l’essere umano ha da uscire dalla precarietà e dall’incompletezza -afferma- affronta il problema dell’identità: di una sua specifica identità culturale. L’identità si presenta perciò come irrinunciabile (…) Sullo sfondo della teoria dell’incompletezza si comprende come per gli esseri umani il tema dell’identità divenga non solo irrinunciabile, ma pure centrale e decisivo.” E quindi, in quanto centro di una nuova concezione antropologica, indica il bisogno d’identità quale motivazione umana primaria, e cita efficacemente Stephen Mitchell (“Relational concepts in Psychoanalysis. An Integratio.”, Cambidge, 1988): “Alcuni teorici relazionali considerano l’instaurarsi e il mantenersi di un senso di identità e di sè come la motivazione umana primaria e basilare.” 9Francesco Remotti “Contro l’identità”, Laterza, Bari, 1996, p. 17.
Potrebbe osservarsi che Remotti e Moravia, malgrado le loro aperture al biologico, non tematizzano se il bisogno d’identità e la costitutività del rapporto con l’altro abbiano origine, attraverso il dispositivo biologico-evolutivo dell’emozionalità (quale primordiale apparato di segnalazione-riconoscimento del si alla vita e del no), dalla dinamica emozionale della gioia-angoscia e del vissuto valoriale di questi sentimenti primari, costituito dai valori a favore della vita e dai valori contro di essa (anche per tali temi e per l’impronta filogenetica delle “cure parentali” è valido il richiamo fatto sopra).
Non è pertanto senza motivo che qui di seguito si segnali l’”Almanacco di filosofia ’97” dedicato dalla rivista MicroMega interamente all’etica. Paolo Flores D’Arcais, nella sua introduttiva esortazione a prendere congedo dall’Essere “in tutti i suoi travestimenti e metamorfosi”, svolge la proposta di “un’etica del finito” (solo lessicalmente analoga alla “neopagana” etica del finito di Salvatore Natoli) e scrive in palese riferimento all’antropologia gehleniana: “Ogni specie animale affida il suo comportamento alla certezza dell’istinto. L’homo sapiens si sottrae, non ne è più costituzionalmente capace (…) La plasticità dei comportamenti, che assicurerà il successo della scimmia nuda malgrado la sua inferiorità animale, fa si che debba surrogare la univocità dell’istinto con la norma. (…) Il dover essere è perciò il primo e l’ineludibile dell’esistenza. La morale è ontologia.” 10“Almanacco della filosofia ‘97”, in MicroMega del 1997, pp. 7\28. Flores-D’Arcais tornerà su queste tesi anche nel suo ultimo “L’individuo libertario” del 1999 e nelle pagine conclusive scriverà con forza: “Nella specie biologica homo sapiens non esistono cromosomi morali, ma solo l’impossibilità di fare a meno di norme che surroghino il perduto automatismo degli istinti.” Mentre nelle prime pagine affronterà invece, da un punto di vista bioantropologico, il tema del bisogno di senso: “Fare senso è il nostro mestiere di esseri umani. Che si possa fare a meno del senso è irrealismo. Metafisica, e della peggiore. Il bisogno di senso è un bisogno materiale primario dell’animale uomo.” 11Paolo Flores D’Arcais, “L’individuo libertario”, Einaudi, Torino, 1999, pp.167 e 17.
Anche Pietro Barcellona si riferisce all’antropologia di Gehlen (specie attraverso gli studi di U.Fadini), in diversi suoi lavori e ci limitiamo a ripotare questo passo dell’ultimo “Il declino dello Stato” del 1998. “Non appare convincente il tentativo di ricondurre la tecnica a un progetto della natura secondo l’impostazione di Gehlen –scrive- Per Gehlen l’uomo è un essere mancante, privo di un codice istintuale (…) Questa mancanza originaria determina la necessità di istituire un sistema di selezione che trasformi lentamente il mondo delle pulsioni in azioni intenzionali e progressivamente abituali (…) Là dove c’erano le pulsioni debbono subentrate le abitudini, debbono subentrare le regole, gli ordinamenti, l’istituzione. La tecnica appartiene a questo processo: è ciò che consente di rendere quasi automatico il funzionamento della ragione strumentale (..) la strutturazione di un calcolo che si traduce in una macchina automatica capace di sostituire l’uomo.” 12Pietro Barcellona, “Il declino dello Stato”, Dedalo, Bari, 1998, pp. 264-267. E conclude: “L’ipotesi che avanzo è che la tecnicizzazione del mondo non si sottragga alla comprensione da parte dell’uomo, se l’uomo è capace di interrogare le origini del processo da cui scaturisce questa progressiva autonomizzazione della ragione strumentale.” Gli altri lavori di Barcellona, cui si è accennato, sono l’”Individualismo proprietario”, che è del 1987, “Capitale come puro spirito” e “Ritorno del legame sociale” che sono del 1990, nonché “Spazio della politica” del 1993.
4. Umberto Galimberti e i problemi ancora aperti.
Nel recente “Psiche e techne” (1999) Umberto Galimberti, nella sua ricerca tesa a individuare un antropologia all’altezza dell’”Età della tecnica”, si richiama pressochè esclusivamente a Ghelen. “La tecnica –scrive rifacendosi direttamente a Gehlen- è l’essenza dell’uomo non solo perché, a motivo della sua insufficiente dotazione istintuale, l’uomo senza la tecnica non sarebbe sopravvissuto, ma anche perché (…) ha potuto attraverso le procedure tecniche di selezione e stabilizzazione, raggiungere ‘culturalmente’ quella selettività e stabilità che l’animale possiede per natura.” 13Umberto Galimberti, “Psiche e techne”, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 35. Quindi precisa: “L’uomo dunque è originariamente votato alla tecnica per compensare l’insufficienza dei propri organi, per intensificare le capacità che possiede, e per agevolare il lavoro della costruzione del mondo da cui la sua esistenza dipende”. E riassume: “L’uomo (..) fin dalle origini non può vivere se non operando tecnicamente, la sua natura si modifica in base alle modalità di questo ‘fare’ che perciò diventa l’orizzonte della sua autocomprensione”, “La tecnica (..) è l’origine della coscienza”, “Soggetto della storia non è più l’uomo, ma la tecnica” 14Ivi, pp 171, 47, 197, 37.. Da qui perciò il suo riferirsi alla centralità dell’azione negli stessi termini di Gehlen. “L’azione -osserva- questa figura ‘psicofisicamente neutrale’ come la definisce A.Gehlen, ponendosi come condizione prima per l’esistenza dell’uomo, abolisce tutti i dualismi e rende inessenziali i nessi escogitati per la loro connessione. L’uomo infatti è generato dalla sua azione che crea un mondo che lo definisce” 15Ivi, p. 109. O ancora: “Sostenendo il principio della dipendenza della conoscenza dall’azione, Gehlen (..) può affermare che, se il mondo che l’uomo conosce è il mondo costruito dalla sua azione, l’uomo, per natura, ossia per la sua carenza organica, è destinato a dominare la natura”16Ivi, p. 170/171, e aggiunge: “ e siccome siamo soliti chiamare questo dominio ‘cultura’, la cultura diventa per l’uomo quello che per l’animale è l’ambiente, cioè la condizione essenziale per la sua sopravvivenza.”; “L’Azione (è) la legge strutturale che governa tutte le funzioni umane dalla percezione all’immaginazione, dal linguaggio al pensiero” 17Ivi, p.231
Il porre, a riferimento del proprio discorso, l’antropologia gehleniana indica come in Galimberti sia assai presente la consapevolezza dei limiti della tradizione filosofica occidentale e come la sua ricerca si indirizzi sistematicamente, e con grande ricchezza e appropriatezza di articolazioni, nella direzione di un suo superamento. Resta però, secondo chi scrive, una soglia non superata: quella del mantenere la centralità del concetto di azione (che, come si è visto, lo stesso Gehlen era in procinto di abbandonare) e quella, connessa, di tecnica intesa quale “essenza dell’uomo”. E resta il fatto che egli “utilizza” il tutto come supporto antropologico per la riproposizione di uno dei più discutibili luoghi teorici heideggeriani, cioè quello della lettura dell’epoca odierna come esposta al totalizzante “dominio della Scienza-Tecnica” 18Di cui, tra l’altro, come ha mostrato Vattimo, Heidegger non ha mai saputo motivare, teoricamente, la implicita connotazione eticamente negativa.19) F.Battistrada “Per un umanesimo rivisitato. Da Scheler ad Heidegger, da Gramsci a Jonas”, Jaca Book, Milano, 1999, p. 13; E.Boncinelli “Il cervello, la mente e l’anima”, Mondadori, Milano, 1999, pp. 253/254.
5. Alcune considerazioni conclusive.
In definitiva si sta delineando l’ipotesi che sia stato proprio quello stesso oggettivismo metafisico e scientifico della tradizione occidentale a pretendere la lettura che Heidegger ha fatto del “Ge-stell”: dell’impronta-imposizione della Scienza-Tecnica”, della “gabbia di acciaio”, di weberiana memoria, che ci sovrasta e c’ingabbia (“solo un Dio ci può salvare”). Ed è quì che il suo proposito, da una parte di “distruzione della metafisica” e dall’altro di “dare ragione del suo tempo”, mostra per intero il suo intrinseco limite: mostra cioè di rimanere all’interno di quell’oggettivismo se lo assume, direttamente, come modo di essere dell’uomo, senza alcuna mediazione, senza dar conto delle reali motivazioni primarie che spingono e orientano l’agire umano e senza dar conto del fatto che questo è stato il vero scacco della metafisica, dai greci fino alla sua analitica esistenziale. Ovvero senza dar conto che è del tutto fuorviante instituire un rigido meccanismo di causa-effetto tra sfera del sapere filosofico-scientifico e motivazioni umane primarie.
Quanto a dire che l’imbalsamazione del pensiero occidentale nella pressochè esclusiva ricerca della “fondazione-spiegazione” dei principi assoluti reggenti l’oggettualità incontrovertibile dell’Essere, ha cancellato-marginalizzato per un’intera epoca storica il problema della “comprensione” del modo di essere della soggettività umana quale soggettività di un essere vivente che si è costituito attraverso la dinamica dell’emozionalità primaria e del vissuto intellettivo e valoriale di quella primaria emozionalità. Perchè se la svolta della grecità e il razionalismo cartesiano hanno in effetti condotto nel campo dei saperi a quell’egemone oggettivismo metafisico e scientifico, ciò non consente in alcun modo il dedurne la sua immediata traduzione in un “generalizzato” modo di essere “tecnico”, “calcolistico” dell’uomo. E’ questo il punto in cui si rivela l’inadeguatezza del pensiero occidentale e della sua sottesa antropologia: l’uomo non è “animal rationale” (nè la heideggeriana “gettatezza dell’esserci”, o l’essere gehleniano “generato dall’azione”), ma il prodotto della speciazione culturale dell’ominide quale jonasiano “organismo vivente: la specie evolutiva che ha costruito, quale motivazione primaria in sostituzione degli istinti, il “bisogno di senso” (come per esempio hanno visto, per rimanere agli autori citati in questo scritto, Moravia, Remotti, Flores D’Arcais e lo stesso Barcellona).
Nella prefazione-introduzione del mio “Per un umanesimo rivisitato” ho riportato in proposito le conclusioni che un neurobiologo e neurofisiologo della levatura di Edoardo Boncinelli, ha posto nella sua innovativa e densa indagine sulla biologia e sulla fisiologia del cervello. “Si direbbe che la ricerca del senso e del significato sia una nostra necessità fisiologica –egli afferma al termine del “Il cervello, la mente e l’anima”- e che la stessa necessità condizioni tutti gli eventi della nostra vita psichica, dalla sensazione elementare alla teorizzazione più astratta.” (19) E’ dunque “il bisogno di senso”, oggi come ieri, a fondare e costruire l’identità umana attraverso, secondo quanto specifica Boncinelli, le “risposte” che a quel “bisogno” vengono date. Cioè, traducendo nel linguaggio di Gramsci, attraverso quei “valori” che, in quella determinata realtà storica e attraverso il loro vissuto coinvolgente in primo luogo l’emozionalità, si affermano come “valori egemoni” nel confronto con altri valori. Sono questi valori a orientare l’uso della tecnica secondo i fini che essi propongono e la “tecnica” ha solo il “generalizzato” ruolo di tradurli in pratica e di attuarli. L’uomo occidentale viene motivato alla attuale competizione cieca e ferina, dal vissuto dell’attuale sistema di valori egemoni imperniato sul successo economico personale a qualsiasi costo, non dalla Scienza-tecnica. In sostanza risulta scontato che la struttura bioantropologica è sempre la stessa e non esiste, come Galimberti propone (e contraddittoriamente perché, secondo la maggior parte delle sue formulazioni, l’uomo, fin dalle origini, si è costituito nell’orizzonte della tecnica), un “uomo pretecnologico che agiva in vista di scopi inscritti in un orizzonte di senso” e un uomo dell’”età della tecnica che ha abolito questo scenario umanistico” 19U.Galimberti, op. cit., p. 33. E “secondo le regole di quella razionalità che (..) non esita a subordinare alle esigenze dell’apparato tecnico le stesse esigenze dell’uomo”, ivi, p. 36
Ma se questo è il passaggio cruciale, è interessante vedere le formulazioni che sempre Galimberti svolge a riguardo, nell’intervista che Giovanni Maria Pace ha predisposto (mettendolo a diretto confronto con Boncinelli), e che è uscita da Einaudi, a marzo, col titolo “E ora?”. Interessante perché, da una parte Galimberti ribadisce le sue tesi centrali. “Ho impiegato 7 anni –dice- per scrivere il libro sull’uomo nell’età della tecnica che ha per titolo “Psiche e techne”, in cui dico che è cambiato il soggetto della storia: non più l’uomo, ma la tecnica che ha fatto dell’uomo un suo semplice funzionario.” 20Boncinelli-Galimberti “E ora”, a cura di Giovanni Maria Pace, Einaudi, Torino, 2000, p. 83.. Oppure: “La tecnica è un mezzo che è diventata un fine, subordinando a se tutti i fini.” 21Ivi p. 24.. Dall’altra perché mette in chiara evidenza il centro della sua divergenza con Boncinelli: “Il contrasto tra me e B. –riassume- verte sul fatto che egli pensa che la categoria di ‘senso’ sia universale, mentre io ritengo che appartenga esclusivamente all’antropologia occidentale.” 22Ivi, p. 52. In altri termini, pur se non esplicitamente, viene riproposto il tema della contrapposizione, più sopra indicata, tra l’antropologia filosofica di Plessner e di Gehlen e quella di Heidegger: la tematizzazione bioantropologica della “svolta” heideggeriana verso la “finitezza”. Che oggi si ripresenta sotto forma del confronto tra la tendenziale “universalizzazione” del “bisogno di senso” in chiave bioantropologica o la sua riduzione al relativismo dello storicismo ermeneutico. In questa prospettiva le affermazioni di Boncinelli acquistano un rilievo determinante. “L’essere umano –egli dice- ha un bisogno biologico di punti di riferimento.” 23Ivi, p. 146. “L’uomo oggi continua ad aver bisogno di risposte alla sua ricerca di senso, esattamente come ieri (..) L’essere umano è fatto inscindibilmente di razionalità e di irrazionalità” 24Ivi, p. 60. E ancora: “La tecnica è e resta uno strumento: qui sta il nocciolo della questione.” 25Ivi, p. 112. Oppure: “La tecnica non si contrappone all’umanesimo: è un prodotto dell’uomo e non potrebbe esistere senza la società (..) l’uomo è in un certo senso immutabile.” 26Ivi, p. 157. Ma diviene ora utile riportare le considerazioni che ho svolto su Boncinelli nel lavoro più sopra menzionato. “Edoardo Boncinelli, nel già citato “Il cervello la mente e l’anima” –scrivevo- contro il riduzionismo e il dualismo e dopo aver precisato che ‘senza emozioni non c’è adeguata elaborazione delle cose apprese e forse nemmeno apprendimento’, parla di una ‘mente computazionale’, riservata alle elaborazioni cognitive, e di una mente ‘fenomenologica’, intessuta di emotività e sentimento, che rappresenta ‘il nostro vissuto personale’ e ‘il nostro modo di vedere e vivere il mondo’. E definisce l’’anima’ (la coscienza), ‘come il risultato della sintesi dell’apetto computazionale e di quello fenomenologico della mente.” 27F.Battistrada, “Per un umanesimo rivisitato”, op. cit., p. 305. Al contrario Galimberti descrive il “portar(si) all’altezza dell’operare generalizzato della tecnica” 28U.Galimberti, “Psiche e techne”, op. cit., p.48. (nell’ultima, conclusiva mezza pagina delle 715 di “Psiche e techne”), quale “salvezza” (o “flebile speranza”): essa risiederebbe per l’uomo nella “capacità di anticipare (.) gli effetti ultimi del suo ‘fare’”, cioè in un “ampliamento psichico” che abbia la “capacità di comprensione dello smisurato che l’attornia”; e nell’evitare in tal modo che la tecnica lo porti all’”estinzione” 29Ivi, p. 715.. Una tale “salvezza”, invece, risiede più semplicemente, secondo il discorso svolto fin quì, nel prendere atto, come indica Boncinelli, della decisività dell’emozionalità e del sentimento, “nel nostro modo di vedere e vivere il mondo”; nonchè della decisività del bisogno di senso e delle risposte che ad esso debbono essere date. Ossia nel come rapportarsi ai valori oggi egemoni e nel come riuscire a decodificarli e a contrastarli.
Potrebbe dunque dirsi che la presenza nella cultura italiana delle domande poste dall’antropologia filosofica e in particolare dall’antropologia gehleniana, ha significato una importante presa di cocienza dei limiti del paradigma antropologico che ha sorretto l’intera tradizione culturale dell’Occidente; limiti che già la tradizione dell’umanesimo italiano, fino a Vico e fino a Gramsci, aveva indicato. E limiti che l’antropologia filosofica ha individuato nella mancanza, nel discorso filosofico, di una tematizzazione del biologico; e che, in seguito, soprattutto la Philosophical Biology di Jonas (o di Giorgio Prodi), e, oggi, quella di Boncinelli, hanno affrontato. In merito diviene allora significativo che in una aggiornata serie di articoli sul “Ponte” sul rapporto tra neuroscienze e filosofia, Arnaldo Benini possa scrivere: “La coscienza come problema dell’essere in rapporto alla conoscenza è il problema stesso della filosofia (..) è indubbio che l’irruzione della neurofisiologia ha posto il problema della mente e della coscienza con una concretezza completamente nuova.” 30A.Benini, “Coscienza e autocoscienza”, in Il Ponte, n° 10/99, p. 91 (ma si vedano anche i suoi articoli sul n° 11/12/99 e sul n° 1/2000). Quanto alle previsioni di Benini sugli sviluppi delle neuroscienze esse appaiono collocarsi in una prospettiva troppo rigidamente pessimistica in quanto formulate a prescindere dal loro rapporto col congiunto sviluppo della “filosofia”. Ovvero, nel solco di queste complessive tradizioni, resta attuale il problema di come selezionare, oltrepassare, ampliare, sia il ventaglio delle tematizzazioni che Gehlen ha collocato al centro del suo discorso; e sia gli stessi “contributi” delle discipline che egli aveva chiamato a “collaborare” al suo progetto e che oggi, come si è visto, risultano in gran parte datati.
Note