Cercherò di dar conto di alcuni aspetti dell’esperienza in corso a Brescia, dicendo subito che l’ambizione maggiore che la ispira è di entrare nella “fabbrica del Novecento” di esplorare la grande macchina e il grande mito che hanno dominato il secolo lasciandoci in eredità un paesaggio di rovine.
Abbiamo faticato non poco nel far capire che il Museo doveva essere realizzato in una fabbrica e, ancor prima, che ci dovesse essere un museo dedicato all’industria e al lavoro: la pulsione all’oblio, alla rimozione era molto forte e abbastanza generalizzata. Solo recentemente la situazione è cambiata perché sullo sfondo di una depoliticizzazione persuasiva si è affermata l’idea che la quotidianità del lavoro piuttosto che l’inventiva imprenditoriale potessero avere piena dignità culturale, e diventare oggetti di una rappresentazione storica.
Questa nuova sensibilità si manifesta soprattutto in una dimensione locale, fa parte di un imponente e ambivalente movimento di recupero delle radici che ha colpito da qualche decennio l’occidente industrializzato e che si presta ad usi molteplici. Per parte nostra abbiamo cercato di trasformarlo in una domanda di storia, piuttosto che di invenzione della tradizione.
La sede principale del Museo, recentemente resa disponibile da una Variante riguardante la principale zona ex industriale di Brescia, è un edificio di 15.000 mq, su un unico piano con varie tipologie edilizie, risalenti agli inizi del Novecento, che ha ospitato diverse attività produttive, a partire dalla produzione in grande serie di armi leggere.
I punti di forza sono costituiti dalle collezioni e dalla documentazione, raccolta dalla Fondazione Luigi Micheletti, anche se ultimamente hanno aderito al Museo altri soggetti apportando il proprio patrimonio. Le macchine, gli strumenti, i campioni di produzione, riguardano il lavoro industriale degli ultimi cento anni o poco più, e coprono una notevole varietà di tipologie. Questo nucleo centrale è oggi costituito da circa 1.500 pezzi, a cui si affiancano collezioni decentrate che riguardano la protoindustria e l’artigianato (soprattutto del ferro). Dall’industria siderurgica e meccanica a quella tessile, dalla stampa alla produzione cinematografico-televisiva, dall’industria bellica a quella alimentare, lo sforzo è stato quello di documentare i settori strategici del decollo industriale, avendo di vista il peculiare modello italiano di industrializzazione. Tutto il materiale è inventariato, fotografato e schedato su supporto informatico (anche se attualmente non consultabile in rete).
Direttamente collegata alle suddette collezioni è la documentazione sull’archeologia industriale raccolta a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, riguardante principalmente la Lombardia (con varie fasi di censimento sul campo).
La caratteristica distintiva del museo bresciano è il legame con il contesto novecentesco: l’industria e il lavoro sono concepiti come i due fulcri attorno a cui è ruotata la storia del secolo, nelle sue dimensioni più profonde, intrecciata alle vicende politiche ed ideologiche non meno che ai cambiamenti che hanno investito la vita quotidiana, il costume, le forme di socialità. Ci si collega in tal modo alle migliori esperienze europee che significativamente hanno visto l’affermarsi di un modello di museo in controtendenza rispetto al nostro clima culturale. Dove la storia sociale non ha perso i suoi referenti politici o partitici è diventata la base di istituzioni che senza clamore stanno diffondendo un po’ in tutte le regioni europee, ed anche in America, collocandosi sul terreno della public history, senza disdegnare forme di turismo culturale-industriale.
Non è un caso che in Italia ci siano state tante difficoltà, per cui è necessario tentare nuovi percorsi, che non possono riguardare solo l’allestimento – ovviamente multimediale – e il modello di gestione. La scommessa, detta in formula di slogan, è di far interagire globale e locale, i fattori di potenza con le identità comunitarie, vale a dire: su un versante tecnologia e ideologia, sull’altro il territorio. Si cerca di raccontare questa vicenda che attraversa il Novecento, non in base ad un astratto progetto ma partendo da una massa critica di fonti, che, al momento è costituita dall’hardware che dicevo integrato da una biblioteca sul Novecento di 50.000 volumi, un’emeroteca di 9.000 testate, 35.000 fotografie, 6.000 manifesti, 5.000 film, ecc. L’asse portante costituito dal patrimonio storico industriale potrà così embricarsi con la storia sociale del lavoro, con la storia politica e delle ideologie, fornendo una chiave di accesso alla contemporaneità non appiattita sul tempo presente. All’attività di ricerca e di dibattito è demandato il compito strategico di tenere accesa l’attenzione sulle trasformazioni in atto, alimentando anche per questa via la raccolta delle fonti documentarie. Segnalo tra i filoni aperti quelli sui localismi, il postfordismo e la crisi ambientale. In una società tendenzialmente astorica si persegue l’obiettivo, in controtendenza, di arricchire la comprensione della realtà sedimentando memoria e “difendendo” la storia, il suo significato e la sua incidenza.
Una dimensione che rimanda al territorio, come luogo di conflitto in cui si manifestano spinte contraddittorie, fornendo un supporto culturale al riconoscimento (e al necessario superamento) del produttivismo esasperato che ne ha segnato il rapido percorso dalla povertà al successo competitivo.
La formula dei musei territoriali e degli ecomusei si va diffondendo nella pratica europea, mentre in Italia, anche per una questione di scala dimensionale, mancano esempi concreti di effettivo rilievo. Quello di Brescia ci pare il primo caso di un museo che già dai primi passi si struttura attraverso il progetto di una sede centrale in città e di una rete di antenne in avanzato stato di realizzazione se non già operanti. Il tutto su una scala paragonabile a quanto è stato fatto in Catalogna, nella Rhur e in alcune regioni di Francia e Inghilterra.
Nella nostra ottica l’importanza del territorio, come luogo in cui si è formato il capitale sociale che consente di competere nell’economia globalizzata, sottoponendo ad un grande stress le risorse umane e naturali, deve essere indagata ai fini di una comprensione riflessiva del bisogno di identità e comunità, nel momento in cui l’industria e il lavoro cambiano completamente di funzione e significato e sono in atto dinamiche profonde di privatizzazione, accanto all’intrusione pervasiva dell’informazione generalizzata.
L’obiettivo è realizzare una struttura che sia ad un tempo un’agenzia culturale, un centro di ricerca, un luogo della memoria. Siamo consapevoli che nel passaggio all’allestimento, nel contatto con il pubblico, si porranno dei problemi tra filologia e scenografia, tra ricostruzione storica e rappresentazione ad effetto, razionalità ed emozionalità, o, se volete, aspirazioni e vincoli di bilancio.
Un vincolo scelto deliberatamente è stato quello dei contenitori (una fabbrica meccanica per la sede centrale, un maglio e un impianto idroelettrico dismesso per le prime sezioni staccate). Se oggi l’arte antica viene esposta in una centrale elettrica e la storia del cinema rievocata in quella che doveva essere una sinagoga, si capisce come possa essere congruente ma banale scegliere una fabbrica per un museo del lavoro. D’altro canto andrebbero sviscerate le implicazioni della tendenza postmoderna a relegare il rapporto col passato sul piano di citazioni decontestualizzate. A cui è da aggiungere il disagio generazionale e politico di fronte a ciò che resta del luogo emblematico del moderno, la fabbrica industriale del Novecento.
Crediamo però di aver intercettato, e di esprimere, una controtendenza: un bisogno molto forte di ristabilire un rapporto con una parte fondamentale della storia del XX secolo, proprio mentre la trasformazione del modo di produrre diventa pienamente visibile.
Le conseguenze culturali della smaterializzazione e del virtualismo attendono ancora una piena elaborazione, specie sul versante della memoria, del rapporto tra presente e passato. La fine del fordismo ha alimentato l’archeologia industriale, suscitando problematiche d’ordine urbanistico e architettonico, di storia sociale e della tecnica, ma con il postfordismo tutto sembra destinato ad azzerarsi: spariscono i monumenti e i documenti; gli edifici produttivi non hanno forma, sono modulari, intercambiabili, privi di identità; le memorie sono elettroniche, cancellabili, obsolete, diventano illeggibili e precipitano nel tempo senza storia del digitale. La tecnologia più pervasiva mai apparsa, capace di cambiare la faccia del mondo, i paesaggi urbani e quelli umani, di mettere al lavoro gli elementi primi della vita, non evoca più l’immagine di una “scatola nera” da decifrare ma quella di un “buco nero” che inghiotte interamente la trama del passato, il tempo della vita. In compenso tutte le storie, tradizioni, culture, modi di essere e stili di vita, sono continuamente riattualizzati, compresenti, senza profondità, lontananza, spessore, senza nemmeno più una successione temporale ordinata, come è inevitabile in una società del caos e dell’estrema incertezza.
Quindi la necessità di una controtendenza, di una resistenza e di una diversa dinamica. In questo orizzonte, almeno per alcuni, il museo è un presidio contro la spinta alla cancellazione della realtà storica: una inedita “disfatta dei fatti” (P. Virilio) che da progetto politico del revisionismo diventa un effetto derivato dell’autonomizzazione della tecnica.
Una scommessa così ardua ha senso solo se nel suo specifico ha qualcosa di importante da dire e se regge la chiave interpretativa con cui viene letta la storia del Novecento su coordinate e una periodizzazione non riconducibile alle opposte e speculari sintesi di Furet, Nolte e Hobsbawm. A nostro avviso il nodo principale, la sigla della modernità contemporanea, era ed è l’intreccio di tecnologia e ideologia, mentre il lavoro specifico da fare, in nome di un effettivo pluralismo culturale, consiste nel leggere il secolo prendendolo alla rovescia, affrontandolo dal basso, nella quotidianità della vita e del lavoro, nel dispiegarsi di cambiamenti capillari frutto della attività di generazioni che non possiamo semplicisticamente schiacciare ed eliminare sotto il marchio del fanatismo ideologico, del consenso informe ai totalitarismi novecenteschi o alla religione democratica dei consumi.
Nel progetto che stiamo perseguendo l’attività di osservatorio critico sull’inoltrarsi del presente alla frontiera dell’artificializzazione e della postumanità, fornisce gli stimoli, la sensibilità, gli strumenti intellettuali per un modello particolare, ma forse non privo di interesse, di museo del XX secolo.
(Comunicazione al convegno Per un museo del XX secolo, Torino, 15 gennaio 2000).