Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

L’ambiente di lavoro tra razionalità tecnologica e ragioni dell’uomo. L’esperienza bresciana negli anni Settanta.

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Gli anni Cinquanta: quando la tecnologia pretendeva le sue vittime

Sig. Tessaroli Libero, via Mazzucchelli, n° 37 Brescia. Gli accertamenti specialistici, ai quali siete stato recentemente sottoposto, sconsigliano il Vostro impiego in ambienti o zone, ove ci siano emanazioni di gas tossici o comunque irritanti. Pertanto, pur con rammarico, dobbiamo privarci della Vostra collaborazione e risolvere, con decorrenza 30 novembre 1959, il Vostro rapporto di lavoro. Nel mentre formuliamo i nostri migliori auguri per il ristabilimento completo della Vostra salute, Vi informiamo che dal 7 dicembre 1959, presso il nostro Ufficio Manodopera, saranno a Vostra disposizione le Vostre competenze di liquidazione e i Vostri documenti di lavoro. Distinti saluti. 

Brescia 30 novembre 1959. Società elettrica ed elettrochimica del Caffaro. Stabilimento di Brescia. Il Direttore [firma illeggibile]”1ASCL, Fondo chimici, b.11, Vertenze individuali (1956-1972). 

Questa lettera, stesa, diremmo oggi, in perfetto politically correct (senza peraltro dimenticare il mussoliniano “Voi”), rappresenta l’essenza del rapporto tra tecnica e operatore umano che dominò per l’intero primo Novecento negli apparati produttivi e segnatamente nelle industrie del nostro Paese. Probabilmente – e sarebbe interessante indagarlo in profondità – senza apprezzabili differenze fra i decenni della democrazia liberale, il ventennio fascista e i primi decenni del dopoguerra. 

Il signor Tessaroli, destinato purtroppo a morire precocemente per malattia professionale, non era infatti un caso isolato. Rappresentava piuttosto la norma. In quell’occasione, in verità, l’ufficio legale della Cgil di Brescia si pose per la prima volta il problema di rivolgersi al magistrato per “richiedere il risarcimento del danno” e per questo chiese consiglio all’ufficio legale della Confederazione nazionale. La risposta del 17 febbraio 1960 individuava nel “nesso di causalità” tra l’attività dell’operaio soggetto alle emanazioni di gas tossici e la malattia contratta la strada per adire la causa, avvertendo però che avrebbe presentato “difficoltà di carattere tecnico”, con un chiaro segnale di scoraggiamento nei confronti del sindacato locale. Ed in effetti agli atti non risulta che l’azione fosse stata realmente intentata2Ibidem

La pratica del licenziamento dei lavoratori resi invalidi dalla nocività della fabbrica era peraltro consolidata alla Caffaro, la più grande industria chimica di Brescia che, collocata dentro la città, produceva fra l’altro, oltre al clorosoda, diversi anticrittogamici ed insetticidi, il clorocaucciù e, unica a livello nazionale, i PCB (policlorobifenili, precursori e parenti stretti delle diossine)3“La chimica e l’industria”, Milano,  maggio 1952, anno XXXIV, n. 5, p. 296..   

Un intervento al comitato direttivo dei chimici della Cgil di Brescia del 6 ottobre 1957 apriva uno squarcio inquietante su come il problema degli effetti nocivi delle tecnologie impiegate e delle produzioni venisse normalmente gestito dall’azienda: “In questi giorni Mauroner [un membro della Commissione interna. N. d. A.] è stato chiamato in Direzione per discutere i nuovi licenziamenti, dei quali alcuni per età pensionabile e altri per scarso rendimento in quanto sono invalidi [più corretto sarebbe stato dire: ‘sono diventati invalidi’. N. d. R.]; questi lavoratori sarebbero disposti qualora siano assunti i propri figli, e qui pare che ci siano da parte della Direzione buone intenzioni”4ASCL, Fondo chimici, b. 1. Verbale manoscritto della riunione del comitato direttivo F. I. L. C. (Federazione italiana lavoratori chimici del 6 ottobre 1957.)). 

In sostanza si assumeva come dato oggettivo, incontrovertibile, immodificabile, che la tecnologia ed i processi produttivi comportassero necessariamente rischi e nocività. Si riteneva che questi fossero lo scotto da pagare al progresso tecnico ed economico della società. Agli uomini coinvolti in questi effetti sgradevoli, se ne avessero avuto la forza, non restava altro che chiedere di essere compensati per i danni subiti o, paradossalmente, di essere sostituiti dai propri figli, quando fossero giunti precocemente all’esaurimento delle proprie energie. 

La pratica risarcitoria: in fabbrica la salute viene “monetizzata” 

Infatti per tutti gli anni Cinquanta, ma anche per buona parte del decennio successivo, l’azione del sindacato per la sicurezza e la tutela della salute dei lavoratori si dispiegava essenzialmente su di un terreno meramente risarcitorio. L’impostazione era sostanzialmente quella che, in seguito, sarebbe stata definita della “monetizzazione della salute”. Emblematico, in questo senso, fu l’“accordo nazionale per la previdenza e l’assistenza aziendale ai lavoratori della ceramica e degli abrasivi soggetti e colpiti dalla silicosi” del 1963. In esso si istituiscono Fondi assistenziali integrativi per la silicosi, “morbilità professionale tipica [sic!] in determinate lavorazioni della ceramica e degli abrasivi”, per misure sanitarie individuali e prestazioni mediche o eventuali supplementi alimentari e soggiorni climatici, nonché per “l’assegnazione ai lavoratori riconosciuti silicotici, con percentuale superiore al 60% che vengono allontanati dalle lavorazioni silicotigene e trasferiti col loro consenso ad altre mansioni, di un sussidio integrativo, in misura pari alla differenza fra i minimi tabellari delle loro categorie, per la durata di tre anni dal trasferimento”5ASCL, Fondo chimici, b. 1. Cfr. testo dell’accordo dell’8 marzo 1963.. Il danno veniva assunto come inevitabile, intrinsecamente connaturato a determinati processi tecnologici, per cui non rimaneva altro che rivendicarne un adeguato risarcimento economico. Proprio per questo il contratto di categoria, anche per gli altri settori, prevedeva un’indennità per le lavorazioni nocive. 

Tornare nelle fabbriche per superare la crisi del sindacato. 

All’inizio degli anni ’60, del resto, il sindacato italiano si trovava ancora impantanato nelle difficoltà della crisi del dopoguerra: divisione e tensioni fra le tre centrali (Cgil, Cisl e Uil), debolezza nella contrattazione collettiva (come si è visto sul tema cruciale dell’ambiente di lavoro, ma non solo), autoritarismo e repressione padronale in fabbrica, mancanza di diritti sindacali6Cfr. S. Turone, Storia del sindacato in Italia (1943-1969). Dalla Resistenza all’Autunno caldo, Bari, Laterza, 1976,  pp. 215-313.

In verità alcuni settori, sia della Cgil, sia della Cisl, stavano già riflettendo sull’urgenza di ricercare vie di uscita da questa crisi e percepivano l’importanza di un avvicinamento delle differenti organizzazioni a livello di azione comune per affrontare i temi della condizione di lavoro. 

Tornare uniti nelle fabbriche per occuparsi dei problemi concreti, della quotidianità del lavoratore fu pertanto la nuova parola d’ordine. E l’ambiente di lavoro divenne uno dei terreni privilegiati su cui portare la sfida della ricostruzione di un sindacato forte ed incisivo. 

In questo contesto ebbe presto un significato esemplare l’esperienza di Torino sull’ambiente di lavoro e la salute nella fabbrica7Regione Piemonte, Dal gruppo operaio omogeneo alla prevenzione, Torino, 1976 avviata da Ivar Oddone, Gastone Marri e alcuni gruppi di operai della Farmitalia e della Fiat. 

Essi ribaltarono, con un lavoro rigoroso di ricerca e di intervento sul campo, quel paradigma risarcitorio fino ad allora egemone, sviluppando una nuova metodologia di intervento negli ambienti di lavoro e una pratica conseguente che trovò una sistematica definizione nel cosiddetto “modello operaio” 8I. Oddone, G. Marri, S. Gloria, G. Briante, M. Chiattella. A. Re,  Ambiente di lavoro. La fabbrica nel territorio, Roma, Esi, 1977 e I. Oddone,  A. Re,  G. Briante, Esperienza operaia, coscienza di classe e psicologia del lavoro, Torino, Einaudi, 1977., divulgato attraverso una dispensa che sarebbe diventata una sorta di “libretto rosso dei delegati”9La definizione è di Valerio Castronovo. Cfr. V. Castronovo, Fiat. 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano, Rizzoli, 1999, p. 1214.. Questa metodologia metteva gli stessi operai nelle condizioni di prendere coscienza della nocività e del rischio di cui soffrivano, dei possibili danni alla salute, delle misure da adottare; ma, innanzitutto, si trattava di un’impostazione che valorizzava la partecipazione e la lotta dei lavoratori e quindi la capacità di organizzarsi e di contrattare all’interno della fabbrica. 

Come si è detto, la situazione dei lavoratori alla fine degli anni ’50, per quanto riguardava la tutela della salute, era caratterizzata da un livello elevato di infortuni sul lavoro e dalla diffusione di patologie professionali tradizionali, come la silicosi, l’asbestosi, la sordità, il saturnismo.   

Nelle grandi fabbriche esistevano soltanto alcuni comitati paritetici con pochi poteri e nella realtà subalterni agli imprenditori. Gli istituti sindacali di assistenza sviluppavano principalmente un lavoro per il riconoscimento della causa professionale delle malattie e per la richiesta del relativo indennizzo. Il sistema istituzionale di assistenza ai lavoratori era centralizzato e frammentato in varie entità tra il Ministero della Sanità e del Lavoro e della Previdenza Sociale: l’Ispettorato del Lavoro per i controlli, l’Enpi per gli infortuni, l’Inail per gli indennizzi, le mutue aziendali e gli ospedali convenzionati per la cura delle malattie 10G. Berlinguer, La macchina uomo, Roma, Editori Riuniti, 1961,  pp. 141-199.. In conclusione un sistema, a volte corrotto, inefficace e, soprattutto, che ignorava la questione prioritaria, cioè la prevenzione. 

Ad Oddone, Marri e compagni fu subito chiaro che per ottenere un mutamento radicale, per rompere la pratica della monetizzazone e affermare il principio che “la salute non si vende”, era indispensabile una mobilitazione e una partecipazione consapevole di chi era direttamente colpito da questa situazione, quindi, degli operai. 

Per questo, però, la predicazione ideologica non era sufficiente come neppure serviva delegare ai tecnici il compito di studiare il problema e trovare soluzioni. I lavoratori avrebbero mantenuto un atteggiamento passivo mentre sarebbe stato necessario che essi stessi divenissero i diretti protagonisti dell’iniziativa contro la nocività e per la prevenzione nei luoghi di lavoro. 

Negli anni Sessanta a Torino nasce il “modello operaio” 

Ma per attivare questo circuito virtuoso, era innanzitutto necessario rendere omogenea e facilmente realizzabile l’analisi dell’ambiente di lavoro come causa di malattia, usando una griglia ed un linguaggio comuni a tutti gli operai. In questo senso si trattava di individuare delle categorie conosciute da ogni operaio per classificare i fattori di nocività, categorie presenti nella loro mente, nella loro esperienza e nel loro linguaggio. Il primo gruppo di fattori fu identificato, quindi, come l’insieme degli elementi a cui si pensa quando si valuta la salubrità di una casa: illuminazione, umidità, ventilazione, rumore. Il secondo gruppo fu definito come l’insieme degli elementi che vengono alla mente a chiunque pensi alla fabbrica: gas, fumi, vapori, polveri. Un terzo gruppo di elementi era rintracciabile nelle denunce degli operai in relazione al tipo di attività lavorativa ed ai suoi effetti sul fisico umano: stanchezza, fatica derivata dal sollevamento e dall’impegno muscolare. Infine un quarto gruppo si riferiva al logoramento psichico causato dall’organizzazione del lavoro, vale a dire, secondo la terminologia in uso nella contrattazione sindacale, gli “effetti stressanti”: ritmi eccessivi, monotonia, ripetitività, ansia 11Questa procedura si tradusse in una dispensa pubblicata nel 1969 dalla Fiom e poi assunta unitariamente dalla Federazione dei Lavoratori metalmeccanici nel 1971. Cfr I. Oddone…, op. cit., pp. 5-59..  

Con questa metodologia gli stessi operai avevano la possibilità di analizzare il proprio ambiente di lavoro, attraverso l’esperienza soggettiva, e di elaborare una “mappa grezza dei rischi” presenti nella fabbrica. L’esperienza degli operai assumeva così valore scientifico, sia per la conoscenza del processo produttivo, sia per la valutazione della nocività 12La medicina del lavoro, dossier di “Sapere”, Bari,  n.775,  febbraio 1975

Operai e tecnici: un nuovo rapporto. 

In questo contesto, come la tecnologia non era più un idolo al quale immolare la salute dei lavoratori, anche il ruolo dei tecnici non risultava più assoluto ed esclusivo, ma di appoggio e consulenza all’azione degli operai e del sindacato. 

Centrali e decisive erano sempre la soggettività operaia e la validazione consensuale dei lavoratori.   

Ad esempio la valutazione della compatibilità della stanchezza fisica o degli effetti stressanti presupponeva necessariamente il giudizio degli uomini che erano sottoposti a quelle condizioni.  Come conseguenza, la centralità dei tecnici fu sostituita dalla centralità operaia che concretamente metteva così in discussione la presunta oggettività della scienza. D’altra parte molti tecnici si impegnarono in questa esperienza apportandovi conoscenze importanti da utilizzare proficuamente, senza però pretendere di risolvere da soli il problema del risanamento degli ambienti di lavoro. 

Per questo obbiettivo, per rimuovere alla radice i rischi, occorreva un rapporto di forze dentro la fabbrica che soltanto la partecipazione cosciente e la mobilitazione dei lavoratori potevano conseguire. 

Conoscere per contrattare i miglioramenti ambientali. 

Questo metodo, pertanto, prevedeva che le conoscenze servissero al cambiamento, con un rapporto stretto tra teoria e pratica: a partire dalla mappa dei rischi elaborata dai lavoratori si effettuavano le indagini dei tecnici con strumenti adeguati per misurare esattamente, dove possibile, il livello dei rischi e per definire un piano di risanamento con l’obbiettivo di  risolvere i problemi che pregiudicavano la salute dei lavoratori nella fabbrica: tutto ciò, infine si traduceva in una vera e propria piattaforma di rivendicazioni che, sostenuta dalla lotta dei lavoratori, diventava la base della contrattazione con gli imprenditori. 

Quindi la contrattazione collettiva nell’impresa rappresentava lo sbocco di tutta l’iniziativa sulle condizioni ambientali, era la via per conseguire l’eliminazione o comunque la riduzione Gli anni ’70 furono il periodo di maggior sviluppo della contrattazione articolata nelle imprese ad un livello qualitativo molto elevato, innanzitutto sulle condizioni di lavoro (orari, carichi, ritmi, ambiente…)13L’incidenza di queste lotte traspare con evidenza dalle parole di Giovanni Agnelli: “La contestazione dal basso, che inizialmente aveva impugnato i principi e le modalità di esercizio del potere in fabbrica, stava investendo anche le strategie aziendali: le scelte produttive, le innovazioni tecnologiche, la destinazione degli investimenti”. Cfr. V. Castronovo, op. cit, p. 1222. Sull’esperienza alla Fiat si veda: A. Milanaccio, L. Ricolfi, Lotte operaie e ambiente di lavoro. Mirafiori 1968-’74, Torino, Einaudi, 1976.. Furono firmati migliaia di accordi che introducevano apprezzabili miglioramenti nella prestazione del lavoro dipendente. 

Contemporaneamente il movimento sindacale si mobilitò per ottenere la riforma del sistema sanitario.  La riforma approvata nel 1978 si fondava su alcuni assunti di base: la salute intesa come condizione di benessere è un diritto di tutti i cittadini garantito dallo Stato e il livello di assistenza deve essere uguale in tutto il paese e assicurato a tutti. Il “modello operaio” veniva esplicitamente riconosciuto per la tutela della salute nei luoghi di lavoro ed alcuni principi da esso elaborati erano recepiti come fondamenta di tutto l’impianto del nuovo sistema sanitario: l’importanza della prevenzione e della partecipazione 14G. Carnevale, C. Perucci, Guida pratica ai nuovi servizi sanitari, Roma, NIS, 1980

Il “modello operaio” ebbe in quegli anni anche una risonanza internazionale: fu studiato e praticato, con gli opportuni adattamenti, da vari sindacati europei e anche oltreoceano ebbe notevole seguito, dall’America Latina al Giappone. 

Brescia. In fabbrica come alla guerra: gli omicidi sul lavoro 

Come si ripercuoteva questa rivoluzione nell’affrontare il tema dell’ambiente di lavoro a Brescia, realtà industriale fra le più importanti del paese, dove, come si è visto in apertura, le condizioni di lavoro erano particolarmente arretrate? 

Da sempre questa provincia, soprattutto negli anni Sessanta, era tristemente assurta agli onori della cronaca, non solo cittadina, per le spaventose statistiche riguardanti le cosiddette “morti bianche”, quelle cioè provocate dagli infortuni sul lavoro e dalle malattie professionali che assegnavano a Brescia un drammatico secondo posto tra tutte le altre province italiane. Nel ’66, nell’industria, si erano avuti complessivamente 31. 830 infortuni denunciati di cui 51 mortali, con un aumento di 1.500 infortuni e di 11casi mortali rispetto al ’65; a questi, poi, si dovevano aggiungere 4.500 cosiddetti “piccoli infortuni”. Nei primi nove mesi del ’67 i casi registrati erano stati 27.904 mila (cioè 4.654 casi in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), mentre i “piccoli infortuni” salivano a 8.000.  

A questi andavano aggiunti, per quanto riguarda le denunce di malattie professionali, 282 casi, mentre quelle di silicosi ed asbestosi erano state 888 15Cfr. Bisogna organizzare  il lavoro per prevenire gli infortuni, in “Giornale di Brescia”, 13 giugno 1967.. Quali le ragioni di questo spaventoso fenomeno? 

“Suoneranno le sirene delle fabbriche per onorare i Caduti del lavoro”: così titolava il “Giornale di Brescia” nel giugno del ’67 dando la notizia che l’Associazione industriale aveva deciso di promuovere in questo modo la “seconda Giornata per la sicurezza antinfortunistica”16Cfr. il “Giornale di Brescia” del 10 giugno 1967.. Naturalmente per il quotidiano cittadino, così vicino al mondo imprenditoriale locale, le ragioni ultime di questa autentica strage risiedevano fondamentalmente in quei “soggetti diretti della prevenzione per lo più poco sensibili ai problemi ad essa inerenti e fatalisticamente rassegnati o irresponsabilmente indifferenti al verificarsi dell’evento lesivo”17Ivi.. Nella sostanza, se i lavoratori morivano o rimanevano invalidi, la colpa era la loro perché l’Enpi, l’ente preposto alla prevenzione, “svolge un’opera intensa, penetrante, capillare nel mondo del lavoro. Il bilancio di questa attività è senza dubbio positivo [e lo sarebbe di più se] in tutti si fosse formata […] la consapevolezza che l’infortunio può essere evitato in virtù di una maggiore conoscenza ed osservanza delle norme prescritte, in virtù di un maggiore senso di responsabilità e di vigile attenzione”18Ivi.. Infatti il direttore provinciale dell’Ente, Luigi Marchisio, avrebbe sostenuto che le cause dell’aumento delle morti e degli infortuni andavano ricercate soprattutto nella scarsa osservanza delle norme e nella mancanza di formazione professionale delle maestranze, mentre i rimedi dovevano essere trovati nell’azione di educazione e “nel rinnovato impegno di tutti perché il lavoro non sia più fonte di dolore e di lutti, ma strumento di benessere e progresso”19Cfr. Bisogna organizzare  il lavoro…,cit.. Comunque se colpe c’erano, queste andavano equamente divise tra lavoratori ed imprenditori 20Questo il parere dell’ing. Forlani, dirigente dell’Ispettorato provinciale del lavoro, in S. Furlan,  Aziende e lavoratori debbono collaborare per il rispetto delle norme antinfortunistiche, in “Giornale di Brescia”, 16 settembre 1967.

La Camera del lavoro di Brescia discute per la prima volta di prevenzione 

Per il sindacato le ragioni erano di ben altra natura. Non per niente, a rimarcare in un qualche modo la gravità di questo drammatico fenomeno bresciano, la Fiom nazionale indisse dal 10 al 12 novembre del 67, a Desenzano del Garda, un Convegno nazionale sull’ambiente di lavoro 21Cfr. il comunicato stampa della Fiom  provinciale  dell’ 8 novembre 1967,  in Fondo Fiom. Circa due settimane dopo, il 25, la Camera del lavoro di Brescia avrebbe a sua volta dato una continuità a quell’assise promovendone un altro sulla “Sicurezza del lavoro e tutela della salute nelle aziende industriali”. Al di là di questi momenti pubblici, la stessa Fiom provinciale aveva iniziato da un po’ di tempo ad introdurre nei programmi dei propri Corsi sindacali indirizzati ai membri dei Direttivi delle Sezioni sindacali, delle Commissioni interne e agli attivisti di fabbrica, il tema dell’ambiente di lavoro 22Cfr. il programma di un corso da tenersi nella zona di Palazzolo nella circolare della Fiom del 22 novembre 1967, in Fondo Fiom

In occasione del Convegno provinciale, il Direttore dell’ Inca-Cgil, Antonio Pedretti, aveva puntualizzato e  indirettamente risposto alle tesi sostenute dal padronato e dall’Enpi in particolare in materia di infortuni più o meno mortali o invalidanti: “La causa più diretta dell’incremento degli infortuni, delle malattie professionali e delle malattie da lavoro – avrebbe ricordato Pedretti -, è da ricercarsi nei tempi e nei ritmi di lavoro ai quali sono soggetti i lavoratori, nella prolungata esposizione al rischio e in genere nell’ambiente in cui operano e vivono i nostri operai”. A ciò andava aggiunto il fatto che “non esiste nel nostro paese un sistema di sicurezza; nella tutela della salute di chi lavora si tutela il danno quando già si è verificato e non si cerca di evitare il fatto con tutte le misure possibili” 23Cfr. l’intervento di Pedretti, ora in CCdL di Brescia (a cura di), Sicurezza sociale e tutela della salute dei lavoratori. Atti del Convegno di studio promosso dalla CCdL e dell’INCA di Brescia nel novembre 1967, Brescia, Commissione stampa della CCdL di Brescia, 1968,  p. 10. Da queste valutazioni faceva discendere queste conclusioni: in primo luogo andavano combattute le teorie secondo le quali gli infortuni sarebbero causati dal comportamento dei lavoratori, cioè dalla loro sostanziale disattenzione. Inoltre si doveva sostituire al concetto riduttivo di rischio legato alla singola lavorazione una concezione più dinamica ed ampia per cui ogni evento che aveva luogo in occasione della prestazione lavorativa doveva essere considerato come potenziale causa di danno. Ma, soprattutto, alla base di ogni azione efficace sull’ambiente di lavoro veniva posta come priorità assoluta la prevenzione dei rischi. Nella sostanza doveva cambiare radicalmente la concezione stessa dell’ambiente di lavoro: per valutarne i rischi si dovevano sommare le condizioni ambientali stabili (la cubatura dei locali, gli spazi disponibili, l’aerazione, il grado di umidità, gli indici di rumorosità, quelli di luminosità, il grado di temperatura e di pressione, ecc.), le condizioni ambientali dinamiche (la nocività e pericolosità delle materie manipolate presenti nei prodotti finali e comprensivi dei rifiuti), la tecnologia e l’organizzazione del lavoro. Questi due ultimi aspetti dovevano “riassumere il rapporto uomo-macchina nel suo significato più completo, con tutte le sue implicazio0ni, postura, movimenti, ritmi, orari, pause, organici di squadre ecc.; ed infine con quelle sociali, cioè con quelle che si stabiliscono in rapporti tra uomini all’interno dell’azienda, tra capi ed operai, tra operai e Direzione aziendale” 24Ivi,  p. 12. Riecheggiavano qui le riflessioni che andavano compiendo in quegli anni Ivar Oddone e Gastone Marri, direttore generale dell’Inca, e che di lì a poco si sarebbero condensate nella famosa dispensa “Ambiente di lavoro”. Cfr. AA. VV, Ambiente di lavoro, cit.

Da ciò nasceva l’esigenza anche per il sindacato di porsi in modo nuovo davanti alla realtà della fabbrica, soprattutto in termini di conoscenza; il registro dei dati ambientali in ogni azienda ed il libretto sanitario per ogni lavoratore allo scopo di realizzare un’efficace prevenzione dovevano essere gli strumenti adatti a questa nuova politica che riecheggiava esplicitamente quanto Oddone ed il suo gruppo andavano sperimentando con successo a Torino. 

Incertezze della Fiom provinciale 

Sacerdoti, della Fiom provinciale, unico dei Segretari di categoria intervenuti al Convegno, criticò il fatto che sino ad allora, anche da parte del sindacato, nella sostanza la difesa della salute dei lavoratori fosse stata delegata ad altri: ai padroni, agli Enti specializzati od a quelli di sorveglianza. Una posizione, la sua, che a dire il vero non traeva però sino in fondo le conclusioni politiche dal nuovo modo di approccio sindacale al tema, pure correttamente ribadito: “Non delega già significa infatti esigere, ad esempio dalla controparte contrattuale, una contrattazione non solo del salario, non solo dei ritmi, non solo delle condizioni generali in cui si svolge la prestazione lavorativa, ma anche dell’ambiente di lavoro e della difesa della salute del lavoratore. Non delega significa anche, ad esempio, essere investiti direttamente di responsabilità nella direzione e nella conduzione delle organizzazioni di prevenzione, nelle organizzazioni di cura e assicuratrici” 25Ivi, p. 38.

Egli respingeva, quindi, la soluzione della monetizzazione del rischio, ma poi si limitava ad indicare quale obiettivo prioritario in quella fase la trasformazione degli Enti, la conduzione di inchieste particolari in alcuni ambienti di lavoro campione, la costituzione di Commissioni antinfortunistiche “che siano un luogo di incontro, di contrattazione e di discussione, in cui il potere contrattuale dei lavoratori e del Sindacato trovi una sua collocazione”. Per rivolgere alla fine un significativo invito ai tecnici ed ai medici ai quali l’organizzazione sindacale avrebbe messo a disposizione “tutte le nostre strutture, dalle Ci alle Ssa [Ci: Commissioni interne; Ssa: Sezioni sindacali aziendali. NdA]” 26Ivi, p. 42.. Come si può notare, mancava del tutto, nell’intervento del dirigente provinciale della Fiom, quell’ approfondimento che la stessa impostazione data da Pedretti avrebbe reso utile e necessario: come la nuova idea di “ambiente di lavoro” e della “non delega” coniugate fondamentalmente all’organizzazione del lavoro avrebbero potuto inserirsi nella strategia che il sindacato dei metalmeccanici stava elaborando e sperimentando in quella fase, e cioè la contrattazione su ogni aspetto della condizione operaia 27Tale impostazione “culturale” si può evincere anche da alcune posizioni espresse dall’allora Segretario della CCdL Giovani Foppoli,  personaggio per tanti versi di indiscusso valore politico e dirittura morale. Cfr. G. Foppoli, Condizione disumana, in “Battaglie Sociali”, 31 gennaio 1968.

La sola denuncia degli infortuni non basta 

Esemplare di questa difficoltà politica a trarre dal ripetersi di gravi infortuni tutte le conseguenze sul piano specificatamente rivendicativo fu il comunicato emesso congiuntamente dalla Camera del lavoro e dalla Fiom in occasione di tre nuovi “morti bianche” avvenute alla Atb, alla Tlm ed alla Eredi Gnutti nel settembre del ’67 28Cfr. Troppi gli infortuni  mortali sul lavoro, in “Giornale di Brescia” , 7 settembre 1967.. In esso si denunciava come “la razionalizzazione del lavoro e le modifiche al processo produttivo siano fonte di supersfruttamento della manodopera (anche attraverso una ingiustificata contrazione degli organici) che troppo spesso trascurano elementari norme di sicurezza sul lavoro. Gli omicidi bianchi sono a parere della nostra organizzazione – così continuava il documento -, il frutto di una disumana condizione di lavoro che spinge la intensificazione dei ritmi oltre i limiti della tollerabilità”. La Fiom e la Ccdl chiedevano quindi “una rigorosa inchiesta sulle cause [degli infortuni al fine di] punire esemplarmente gli imprenditori responsabili”, ed invitavano nel contempo i lavoratori “a sensibilizzare la loro attenzione in direzione del problema della prevenzione degli infortuni e di segnalare ogni situazione di lavoro che non presenti le sufficienti garanzie di sicurezza” 29Cfr. Colpire i responsabili degli “omicidi bianche”, in “Sindacato Moderno”,  n. 1, ottobre 1967,  p. 1.

Con ben altro vigore polemico si sarebbero espresse le Acli bresciane: “C’è un rivolo di sangue che scorre inesorabile ogni anno sui beni e i servizi che vengono prodotti nella nostra società”. Così iniziava un lungo articolo dal titolo eloquente: “Il sudore si fa sangue” pubblicato dal periodico “Battaglie Sociali” nel gennaio del ’68 30Cfr. Un problema al mese: troppi gli infortuni sul lavoro!, in “Battaglie Sociali”,  31 gennaio 1968,  p. 6.. Rifiutando nettamente l’idea corrente che”la causa più frequente e responsabilità prevalente [dell’infortunio stia nel fatto] che il lavoratore disattenda le misure prevenzionali”, si ricordava: nell’azienda non è l’uomo che conta, è la produzione. Perciò i capannoni, le macchine, le mansioni tutto è studiato e risponde unicamente a concetti ed esigenze produttivistiche. […] La seconda causa è legata alla stanchezza del lavoratore. Nell’ azienda il tempo è denaro. Così per esigenze di produttività i ritmi di lavoro sono portati al limite massimo della sopportabilità, la riduzione pseudo-scientifica dei tempi morti […] è parte di continua e logorante tensione. I turni di lavoro, specie quelli notturni, il lavoro straordinario e non ultima la necessità di arrotondare lo stipendio con lavori extraaziendali, il tempo dei trasporti, sono fonti di stanchezza. […] La terza causa deve essere individuata nella mancanza di un qualificato ed efficace orientamento professionale […]; è vero che non c’è possibilità di scelta tra un posto di lavoro e la disoccupazione, per cui diventa sterile esercizio accademico il discorso delle attitudini […].   

È questa una condizione che i lavoratori pagano due volte” 31A. Boniotti, Il sudore si fa sangue,cit.. E concludeva: “Il problema degli infortuni sul lavoro non è una questione di maschere, di occhiali, di guanti, di caschi o calzature, ma è una questione che riguarda tutto l’ambiente della fabbrica, l’organizzazione del lavoro, la stessa condizione del lavoratore.  La sua soluzione esige che […] l’azienda [diventi] un ambiente a misura d’uomo non il regno del dio guadagno a cui finalizzare tutto e tutto sacrificare 32Ivi.

Il bilancio degli infortuni avvenuti nel ’68 avrebbe dato ragione a questa fosca previsione: nella sola industria erano stati 38.316 (su un totale di 44.270) dei quali 66 mortali. Il rappresentante dell’ Enpi provinciale, in uno stile burocraticamente dottorale, dopo aver snocciolato le cifre, avrebbe ricordato la necessità di “creare un’armonica interazione fra l’uomo e l’ambiente di lavoro. È questo che l’Ente nazionale […] si propone” 33Cfr. Si sono raddoppiati in un anno gli infortuni mortali sul lavoro, in “Giornale di Brescia”, 28 marzo 1969.. Non un cenno autocritico, niente. Nell’ agosto del ’69 le Confederazioni provinciali Cgil, Cisl e Uil, insieme alla Acli, davanti all’aggravarsi del fenomeno ed alla sostanziale latitanza degli enti preposti e delle pubbliche autorità, assumevano una dura presa di posizione in cui si denunciava ancora una volta che “tali infortuni non sono dovuti alla casualità, bensì alla logica che sottende ad ogni rapporto di lavoro: la logica del profitto”. L’atto d’accusa contro il padronato era esplicito: 

La ricerca del profitto, perseguito con ogni mezzo dalla classe imprenditoriale […], ha portato i ritmi di lavoro a livelli insostenibili causando una condizione di lavoro tale da porre continuamente il lavoratore in uno stato fisico e psichico che facilita il verificarsi degli incidenti; a questo va aggiunta la frequente inadempienza dell’applicazione delle norme antinfortunistiche e la incuria dell’azienda nel mantenere efficienti le protezioni prescritte. 

Il documento unitario non risparmiava infine altre critiche; infatti da un lato invitava la Magistratura “perché intervenga con maggiore tempestività e severità in tutti i casi di omicidio bianco”, dall’altro chiedeva alle autorità preposte di predisporre “misure adeguate a bloccare il fenomeno degli infortuni in provincia”. Se ciò non fosse accaduto, i sindacati e le Acli minacciavano ora esplicitamente di mobilitare e “se necessario chiamare alla lotta gli stessi lavoratori per salvaguardare l’incolumità fisica, bene da anteporre a qualsiasi logica di produzione o di profitto” 34Cfr. il documento Dura  presa di posizione  delle Acli -Cgil-Cisl-Uil, in “Battaglie Sociali”,  agosto 1969.. Nei mesi seguenti ci furono interrogazioni parlamentari ed altre prese di posizione 35Cfr. Interrogazioni parlamentari sugli infortuni del lavoro; Esaminato dai sindacati il problema degli infortuni; Infortuni sul lavoro: un documento Acli. Gli articoli sono apparsi sul “Giornale di Brescia”  rispettivamente il 7 agosto,  l’11 settembre ed il 18 ottobre 1969., ma senza che si creasse un reale movimento sociale su tale gravissimo problema. Anche davanti all’inquinamento delle acque causato dalla presenza di circa 2.000 scarichi industriali abusivi in provincia di Brescia 36Cfr. Sono oltrre duemila in provincia gli scarichi industriali abusivi, in “Giornale di Brescia”, 12 novembre 1969. non si ha notizia di una particolare reazione da parte delle forze sociali che andasse al di là della solita denuncia. 

La tradizione politica della Cgil ostacola il rinnovamento 

Da dove derivavano queste difficoltà? Esse vanno ricercate, almeno per quanto riguarda la Cgil, negli ultimi cascami di una elaborazione politica che aveva accompagnato questa organizzazione per tutti gli anni ’50 e buona parte del decennio successivo, almeno fino alla svolta del Sessantanove.  Secondo quella cultura, come già si è visto, la condizione a cui veniva assoggettata la prestazione operaia non era la preoccupazione principale di questo sindacato: certamente giocavano i processi di ristrutturazione dell’apparato industriale in atto, la cospicua disoccupazione, la scarsa o nulla agibilità sindacale all’interno delle aziende.  Soprattutto questo ultimo aspetto, e cioè la difesa o la riconquista delle libertà confiscate dentro le fabbriche, pareva essere la preoccupazione principale di questa organizzazione e rappresentava per essa la precondizione di tutto il resto 37Cfr. L. Ganapini,  L’evoluzione delle strategie sindacali negli anni Cinquanta, in V.Rieser, L. Ganapini (a cura di), Libri bianchi sulla condizione operaia negli anni ’50, Bari, De Donato 1981,  pp. XXVII ss.. C’era una propensione anche da parte degli stessi quadri ed attivisti di fabbrica a coltivare speranze extrasindacali, più propriamente partitiche; ne derivava che il luogo del conflitto di interessi e gli stessi soggetti del cambiamento erano tutti esterni alla condizione materiale di lavoro e lo “spazio-fabbrica” diventava una sorta di palestra dentro cui misurare, soprattutto in occasione delle elezioni delle Commissioni interne, i rapporti di forza materiali tra le classi. In questa concezione, la classe operaia, ideologicamente e politicamente così centrale nella elaborazione teorica delle organizzazioni della sinistra, nei fatti appariva come un movimento che doveva limitarsi ad assecondare con la forza dei numeri la strategia del Partito. Da tutto questo non poteva che derivare una subcultura “salarialista” attraverso cui si tendeva a ricostruire il potere di rappresentanza dei lavoratori che lo strapotere padronale aveva profondamente incrinato 38Cfr. G. P. Cella, Sindacato e politica organizzativa negli anni ’50,  in Il sindacato in Italia. 1944-1976, “Quaderni di Rassegna sindacale,  n.59-60, 1976,  p. 115.. L’idea del lavoro operaio e della sua organizzazione gerarchica, la stessa concezione del progresso tecnico, erano considerati dei dati oggettivi imposti dall’imperio padronale e dal sistema sociale, quindi sostanzialmente non modificabili attraverso una critica “di parte” 39Vedi F. Butera, Le ricerche “non disciplinari” per la trasformazione del lavoro industriale in Italia: 1969-1979, in “Sociologia del lavoro”,  n.10-11, 1980.. A questa realtà l’operaio si doveva piegare o tutt’al più denunciarne gli aspetti più esasperatamente vessatori, in attesa di un cambiamento radicale delle strutture sociali. La realtà della fabbrica, come modello tecnologico ed organizzativo, era ritenuta nei fatti immodificabile, per cui l’unica cosa da fare era quella di redistribuire per lo meno parte dei risultati produttivi ottenuti dal sistema adeguando il salario agli incrementi di produttività. Si era, spesso inconsciamente, consolidato un paradigma concettuale deterministico, secondo il quale la tecnologia – nella sostanza la macchina – determinava l’organizzazione del lavoro e la condizione operaia. Si riteneva che l’organizzazione del lavoro fosse in sé un fattore di progresso da sostenere, neutrale ed intoccabile. Anche nel caso in cui il processo di industrializzazione avesse previsto un possibile miglioramento della condizione operaia, l’organizzazione del lavoro, in quanto prerogativa del potere manageriale, non poteva essere trasformata se non dall’imprenditore stesso e non di certo dall’intervento critico della classe in quanto tale 40Cfr. F. Carnevali, G. Mariani, Storia della salute dei lavoratori. Medici, medicina del lavoro e prevenzione, Verona, Libreria Cortina, 1986.

 Questa idea della redistribuzione parziale dei risultati e quindi del “risarcimento” non poteva non comprendere anche il rapporto con le nocività ambientali; essa non era altro che l’altra faccia della cultura “produttivistica” secondo la quale l’esposizione a fattori di rischio non era che un aspetto doloroso, ma a suo modo inevitabile, del progresso tecnologico e delle esigenze produttive dell’impresa a cui il sindacato finiva per contrapporre la richiesta di un risarcimento della fatica e dei rischi (la cosiddetta “monetizzazione”) ai quali i lavoratori erano esposti. Le organizzazioni sindacali, per molto tempo, non sarebbero state in grado di intervenire sul peggioramento delle condizioni di lavoro se non come denuncia del rapporto “supersfruttamento-infortuni”. Ci sarebbero voluti ancora due anni, a Brescia, prima di passare da questa “cultura della denuncia”ad una iniziativa sindacale che finalmente assumesse la classe operaia come il soggetto che direttamente poteva affrontare questa lotta per la salute come parte integrante di una strategia di controllo sulla propria condizione e nel contempo di cambiamento dell’organizzazione capitalistica del lavoro. 

La ventata innovativa dell’autunno caldo 

In particolare l’autunno caldo produsse anche a Brescia un notevole cambiamento del “clima” politico e sociale. Chi per lungo tempo aveva fatto orecchie da mercante alle diverse denunce (l’Ispettorato del lavoro) o saputo solo snocciolare aride cifre di morti ed infortunati, come l’ENPI stesso, ora doveva dimostrare di essere ancora uno strumento di una qualche utilità sociale. Verso il mese di giugno del ’71, su incarico del Ministero del lavoro, l’Enpi iniziò a svolgere un’inchiesta in tutte le aziende metalmeccaniche della provincia, circa 4.000. Avrebbe rilevato un inviato de “Il Giorno”: 

I risultati dell’indagine sono sconcertanti. Con l’eccezione di due-tre fabbriche nate da poco, praticamente tutte le altre risultano deficitarie sul piano della sicurezza (con le situazioni peggiori, ovviamente, più nelle fabbriche medio-piccole che in quelle grandi). Il quadro è degli albori della civiltà industriale […]: un quadro da “omicidio” più che da “morte” bianca, il denaro dei pochi fatti in modo sorprendente sulla pelle dei più che lavorano, violazioni alle Leggi contro gli infortuni dell’ordine di decine di miliardi di lire”. ” Brescia si è rivelata – così concludeva l’articolista – il portabandiera del pericolo industriale, una grande isola di inciviltà (nel rapporto uomo-fabbrica), in questa Italia degli anni settanta 41R. Uboldi, A Brescia il primato degli infortuni, in “Il Giorno”, 8 novembre 1971.

Che la situazione fosse drammatica i sindacati lo sapevano da lungo tempo, senza che fosse necessaria una certificazione ministeriale. Quelle condizioni erano state più volte denunciate dalle organizzazioni dei lavoratori: oltre questo però non si era mai andati. La ragione stava sia nell’insipienza burocratica dei loro interlocutori pubblici disposti a chiudere entrambi gli occhi davanti a tutto ciò, sia in una debolezza politico-culturale, che fino all’arrivo di Gastone Sclavi alla direzione della Fiom 42Gastone Sclavi, nato a Siena,  giunge a Brescia alla direzione della Fiom nella primavera del 1970 e vi rimarrà per quattro anni dando un contributo decisivo al rinnovamento della cultura politica del sindacato bresciano. Cfr. . R. Cucchini, M. Ruzzenenti, Gastone Sclavi e la stagione dei Consigli, “Studi bresciani”  n. 12, Brescia, Micheletti, 2000, era diffusa nel sindacato bresciano. Solo la “scoperta ” che il “pericolo” era insito nell’organizzazione del lavoro avrebbe fatto compiere un salto di qualità enorme: prima come presa di coscienza, – a cui il nuovo segretario diede notevole impulso – poi, sull’onda del movimento rivendicativo che nei primi anni Settanta cominciava a porsi nuovi obbiettivi di qualità attraverso una strategia che metteva al centro la condizione della vita operaia nel suo complesso. 

Negli stessi mesi in cui l’Enpi stava svolgendo la sua inchiesta, la Camera del lavoro, i sindacati di categoria e l’Inca di Brescia avevano deciso di iniziare un loro autonomo lavoro di indagine assumendo però un altro punto di vista: quello dei diretti interessati, i lavoratori, i gruppi omogenei, i Consigli di fabbrica 43Per la parte che segue faremo ampio riferimento al saggio di  Beniamino Galesi,  Esperienze della classe operaia bresciana sull’ambiente di lavoro, in “Rassegna di Medicina dei lavoratori”, suppl. a “L’Assistenza Sociale”,  n. 2, 1972,  pp. 104-113.. Il Sindacato, come ammetteva lo stesso responsabile dell’Inca-Cgil provinciale, si era reso conto che “era necessario passare dalla fase di denuncia dei problemi dell’ambiente di lavoro a quella di elaborazione teorica e azione pratica per dare una risposta efficace a tutta questa problematica, in termini di conoscenza e di intervento sulle condizioni di lavoro”. Infatti, un’iniziativa ridotta a pura propaganda, qualche indagine delegata alla Clinica del lavoro di Milano e all’ Ente preposto alla prevenzione, non avevano dato alcun risultato. 

Già i nuovi contratti nazionali delle categorie industriali siglati tra il ’69 ed il ’70, come molti degli accordi raggiunti nelle principali aziende della provincia, prevedevano l’istituzione dei libretti di rischio e sanitari ed i registri dei dati ambientali e biostatistici. La gestione di questi strumenti aveva bisogno di un ulteriore salto di qualità: mettere in campo i gruppi operai omogenei perché divenissero non più l’oggetto, ma il soggetto dell’indagine secondo i principi della “non delega” e della “validazione consensuale” dei risultati. Si doveva partire allora dai Consigli di fabbrica che, avvalendosi dell’esperienza soggettiva dei lavoratori sulla propria condizione all’interno del processo produttivo, avrebbero potuto individuare i fattori nocivi e gli effetti da essi prodotti: da questa indagine si sarebbe quindi risaliti al “chi sono, dove sono, quanti sono i lavoratori esposti al rischio”.  Per fare questo occorreva individuare uno strumento adatto: si optò per delle schede per la raccolta delle esperienze di gruppo nelle varianti di questionario individuale, di libretto di rischio e di tesserino definitivo “dei quali spesso si era parlato ma che nessuno conosceva a livello d’azienda e nemmeno a livello di Sindacato provinciale”. Si aprì allora una grossa discussione sui gruppi omogenei, sul come individuarli, mobilitarli, sul tipo di questionario da adottare e su come diffonderlo. Emerse l’esigenza di indire dei brevi corsi di formazione sindacale per preparare i delegati dei Consigli coinvolti ai passi successivi. 44Come già si è detto  nel 1969 era uscita, pubblicata dalla Fiom, la famosa dispensa curata da Gastone Marri, Ivar Oddone e altri, L’ambiente di lavoro,  dispensa ampiamente diffusa ed utilizzata anche a Brescia. Questi incontri si svolsero nelle stesse aziende interessate all’inchiesta durante l’orario di lavoro, utilizzando i nuovi spazi di partecipazione aperti dalle precedenti conquiste contrattuali e dai patti di fabbrica. 

Il modello operaio applicato nell’industria bresciana: l’esperienza pilota dell’Ideal Standard 

Il primo esperimento iniziò alla Ceramica Standard di Brescia (500 dipendenti) nell’estate del 1971, con 17 dei 30 delegati del Consiglio di fabbrica. Quanto fosse urgente intervenire lo si desume dalla descrizione impietosa di Galesi, il responsabile dell’Inca di Brescia: “La Ceramica Standard fabbrica articoli sanitari per uso bagno, di lusso, ma fabbrica anche silicotici in misura impressionante. E la silicosi, è noto, non perdona. L’operaio che ne è colpito muore 15 anni prima e anche più dell’età media di sopravvivenza dell’uomo e alla Standard molti uomini, non ancora cinquantenni, sono morti o muoiono” 45B. Galesi, op. cit., p. 105.

L’iniziativa partì facendo leva innanzitutto sulla sensibilità dei lavoratori dei reparti più direttamente colpiti, con qualche difficoltà iniziale nel coinvolgere invece l’insieme del Consiglio di fabbrica. Si tenne un corso di base di quattro di tre ore e più di studio, di discussione, di approfondimento dei temi calati nella viva realtà aziendale.  

Tuttavia non si riuscì ancora ad ottenere l’adesione dell’insieme dei delegati all’iniziativa.  

Solo il delegato del reparto “Slip” (preparazione della pasta per la colatura dei pezzi), quello con più elevata nocività, diventò assertore convinto dell’indagine tra i gruppi operai omogenei. Il questionario d’indagine, discusso e compilato collettivamente, fornì una serie di dati dettagliati che davano una visione d’insieme dei rischi, delle sostanze nocive presenti, dei disturbi e delle malattie che essi provocavano e delle soluzioni necessarie per modificare l’ambiente ed eliminare le fonti di rischio. Indicazioni che il Consiglio di fabbrica non poté non assumere all’interno di una piattaforma rivendicativa da sottoporre all’azienda. 

Così i lavoratori del reparto Slip ottennero l’installazione di due grossi convertitori d’aria per abbattere le elevate temperature, un sistema di azionamento meccanico invece di quello manuale alla filtropressa e l’impegno a procedere alla meccanizzazione di tutta l’attività di caricamento dei materiali terrosi (sabbie) la cui movimentazione manuale era la principale causa di silicosi. L’iniziativa del reparto “Slip” divenne così l’esempio che l’indagine si poteva e doveva fare anche per sostanziare di argomenti concreti, forniti dall’osservazione e dall’esperienza operaia, la trattativa con la direzione aziendale e raggiungere così risultati importanti nella rimozione dei rischi alla fonte. 

La Caffaro, industria chimica inquinante di 1° classe, rimane estranea al movimento 

Alla Caffaro, la gestione del contratto del 1969 puntò essenzialmente su rivendicazioni economiche, in linea con l’accordo definito poco prima dello scontro contrattuale, il 13 marzo 1969, che portava il monte premi complessivo a £. 188.000, 46ASCL, Fondo chimici, b. 7,  fasc.  Caffaro 1969. una cifra davvero ragguardevole se si tiene conto che all’epoca lo stipendio mensile di un operaio qualificato metalmeccanico si aggirava attorno alle 120.000 lire.   

Comunque, rispetto alla vertenza aziendale che si stava aprendo nell’estate del 1970, la Direzione aziendale anticipò le mosse del sindacato cercando di spiazzarlo con l’offerta alle rappresentanze sindacali aziendali dei contenuti dell’accordo precedentemente stipulato a Porto Marghera sull’istituzione della 14° mensilità, sull’aumento del premio di produzione e sulla conferma dell’indennità mensa. 47ASCL, Fondo Chimici, b. 3, volantini Caffaro, 3 settembre 1970. Offerta che i lavoratori, a quanto risulta, prontamente accolsero.  

Nel frattempo la Caffaro aveva superato i 600 dipendenti: qui il sindacato era riuscito, nel corso di una nuova vertenza nel 1971, a strappare “importanti accordi che prevedono il miglioramento del premio di produzione, che ha ormai superato le 200 mila lire l’anno per ogni lavoratore; l’istituzione di superminimi individuali; l’istituzione della 14° mensilità; oltre 300 passaggi di categoria; il riconoscimento del Consiglio di fabbrica, con circa 3000 ore retribuite; il diritto di contrattazione dell’ambiente di lavoro, nonché il riconoscimento dell’intervento per le indagini ed i rilievi dell’ambiente da parte di istituti specializzati quali la Clinica del Lavoro di Milano; l’istituzione dei libretti sanitari e di rischio e dei tabelloni per i dati ambientali e biostatistici” 48ASCL, Fondo chimici, b. 12, congresso Filcea, 6 aprile 1973,relazione del segretario provinciale.       

   Ma proprio sull’ambiente di lavoro emergeva un’ambiguità di impostazione che non verrà risolta finché la “tranquillità” regnante in Caffaro verrà bruscamente scossa, dopo la tragedia di Seveso, dall’iniziativa allarmata e convergente dell’opinione pubblica, della Magistratura e degli abitanti del quartiere. Da parte dei lavoratori e del sindacato non si produceva nulla di analogo a quanto si stava attuando all’Ideal Standard per risanare l’ambiente di lavoro, ma si delegava il compito ai tecnici esterni, la Clinica del Lavoro di Milano (la cui azione, come si vedrà sarà sottoposta a critica stringente da parte dei metalmeccanici). Nonostante le condizioni di lavoro ed i livelli di nocività e pericolo fossero di una gravità assolutamente unica per la realtà bresciana 49Ciò emergerà successivamente da diverse denunce ed indagini sia della Magistratura che di Enti pubblici. Si  Vedano in particolare: denuncia alla Pretura di Brescia di Elidio De Paoli del 21 e 23 febbraio 1974, in AFLM, Carte De Paoli; Laboratorio d’igiene e di profilassi – reparto chimico; relazione preliminare su alcune lavorazioni principali che si svolgono presso la “Caffaro S. P. A.” , settembre 1976; relazione della Commissione Ambiente di. Lavoro del Consiglio di fabbrica sul Piano di risanamento, dicembre 1976 e relazione di perizia dei professori  F. Siniscalco e G. Taponeco, della dottoressa C. Vannucchi, dell’ingegner R. Carrara, Brescia, 23 novembre 1977 in ASCL, Fondo M. Ruzzenenti, busta ristrutturazioni e crisi industriali: Caffaro, TG Sebino e Polistil.

Questa sottovalutazione da parte dei lavoratori e del sindacato emerse clamorosamente alla fine di quello stesso anno, 1973, quando iniziò una nuova vertenza aziendale che evidenziò ancor più i ritardi seri dell’iniziativa del sindacato alla Caffaro rispetto al contesto nazionale e locale. Nel mese di ottobre l’azienda aveva ulteriormente esasperato la pratica, peraltro consueta, della concessione discrezionale di aumenti individuali a diversi operai di ogni reparto. Su questa spinta, ma forse anche perché si percepì la disponibilità dell’azienda a concedere aumenti salariali consistenti, a novembre fu definita dal Consiglio di fabbrica l’ipotesi di piattaforma aziendale che venne sottoposta all’approvazione delle assemblee il 6 dicembre del 1973: discussione annuale preventiva sugli investimenti; interventi per rilevare e controllare più efficacemente l’ambiente di lavoro; superamento degli appalti, compresa la mensa; aumento uguale per tutti di £. 31.500 mensili del premio di produzione 50Per avere un’idea più precisa dell’entità dell’aumento va tenuto presente, ad esempio, che la retribuzione media giornaliera di un operaio di Brescia nel 1971 era di £. 4.476. Cfr. Retribuzioni medie giornaliere nell’anno 1971 in ASCL, Fondo chimici, b. 22.

Ma fu proprio su questa richiesta che si aprì uno scontro all’interno della Filcea Cgil fra il segretario provinciale Dino Valseriati ed il Consiglio di fabbrica. Ciò emerge da una nota manoscritta dello stesso Valseriati al segretario della Camera del Lavoro, Franco Torri, che sarebbe intervenuto all’assemblea di fabbrica.  Allegandogli la piattaforma ricordava come questa fosse stata predisposta “non senza difficoltà in quanto la tendenza generale del Consiglio e dell’esecutivo era di rivendicare solamente l’aumento del premio e non parlare assolutamente di investimenti per il consolidamento dei livelli di occupazione, di proposte concrete per rendere operante quanto acquisito dal contratto sull’ambiente di lavoro [sottolineatura nostra]”. E proseguiva: “Noterai che la richiesta di aumento del premio è di £. 31.500 mensili [circa £. 300.000 rapportate ai valori del 1995]. Nonostante gli sforzi e se vuoi i “begoni” non mi è stato possibile convincerli che ciò è sbagliato; tutti nel consiglio, eccetto 1-2, si sono schierati per questo aumento. Da tenere conto che l’attuale premio è di 220.000 lire annue che con l’attuale richiesta di aumento passerebbe a £. 629.550 [circa 6.000.000 in lire 1995, che si aggiungevano alla 14° mensilità e ad innumerevoli aumenti individuali ed indennità. NdA.]. Ovviamente l’accordo siglato il 28 febbraio recepì fino all’ultima lira l’aumento tanto vivacemente contestato dal segretario, mentre le questioni relative all’ambiente di lavoro erano ancora una volta sostanzialmente rimosse. Non è questo il luogo per sviluppare una riflessione approfondita su questa vicenda, singolare anche se si tiene conto che si trattava di una fabbrica Cgil, con una forte presenza di lavoratori comunisti. Ai fini del nostro discorso, ci pare di poter osservare che in questo caso pesò in maniera determinante quel culto quasi idolatrico della tecnologia da cui, all’Ideal Standard prima, nell’industria metalmeccanica poi, i lavoratori erano riusciti a liberarsi. Brescia era una città di provincia, povera culturalmente, dove l’Università solo in quegli anni stava sorgendo e dove l’industri chimica, ritenuta al top dell’evoluzione tecnologica, non era di casa; unica eccezione la Caffaro, per questo “coccolata” e mitizzata da tutti: i lavoratori, che si ritenevano privilegiati anche, ma non solo, per gli alti salari, il sindacato e gli enti locali orgogliosi di ospitare sul proprio territorio un’industria di punta, i cittadini che guardavano con ammirato e misterioso rispetto a quella “strana” fabbrica, del tutto diversa dai consueti apparati produttivi legati al ferro. 

Scendono in campo i metalmeccanici 

L’impostazione innovativa, sperimentata con successo all’Ideal Standard, se non fu seguita dalla Caffaro coinvolse invece numerose fabbriche metalmeccaniche, il settore peraltro di gran lunga prevalente in questa provincia 51Nel secondo dopoguerra, il peso delle industrie metalmeccaniche in provincia di Brescia andò assumendo una rilevanza sempre più marcata, rappresentando una vera e propria specializzazione dell’apparato industriale bresciano in particolare in alcuni settori: elettrosiderurgia, armi leggere, macchine utensili e tessili, autoveicoli, rubinetteria,  posateria e casalinghi… Gli addetti di queste industrie, che già nel 1951 rappresentavano il 41,4% dell’insieme del  manifatturiero, raggiunsero nel 1961 il 54,7% del totale per stabilizzarsi  nel 1971 e 1981 sempre al di sopra del 50% degli occupati nel settore manifatturiero. Cfr. F. Malerba, La trasformazione strutturale dell’industria bresciana dal 1951 al 1984, in AIB, Brescia 2000: L’industria bresciana tra presente e futuro, Brescia, La Scuola, 1985,  p. 14.. Alla Tlm di Villa Carcina (1.000 dipendenti) già l’accordo aziendale sottoscritto il 16 febbraio del ’71 prevedeva un’indagine sull’ambiente di lavoro. In questa fabbrica 45 gruppi omogenei avrebbero condotto l’inchiesta utilizzando il questionario Standard. Ad indurre il Sindacato provinciale ad orientare gli operai verso la pratica della “non delega” era stata una precedente negativa esperienza condotta alla Glisenti-Caster di Carcina (700 dipendenti) che nel gennaio dello stesso anno aveva invece affidato alla Clinica “L. Devoto” di Milano un “sopralluogo”. In questa realtà, dove pure vi era un accordo aziendale sull’istituzione dei libretti di rischio e sanitario, l’assenza di un’indagine corretta che partisse dai 4 gruppi di fattori di rischio e di nocività ambientale condotta direttamente dagli operai aveva portato alla decisione di affidarsi ad un contributo tecnico esterno: la relazione stesa dai periti della Clinica si mostrò da subito come un documento astruso e politicamente inutilizzabile proprio perché non era stato il risultato di quell’impegno diretto delle maestranze attraverso il quale poteva passare una più profonda presa di coscienza sulla loro condizione di sfruttamento ed oppressione. Alla Tlm le cose erano invece andate diversamente: in questa fabbrica, dopo un breve corso di 4 giorni a cui parteciparono 21 dei 31 delegati del Consiglio, la Commissione ambiente di lavoro si riunì per individuare i gruppi omogenei, per riunirli, per dibattere e compilare il questionario. Essendo in atto in quei mesi una vertenza per la modifica del sistema di calcolo del premio di produzione, il Consiglio aveva deciso che sia durante gli scioperi articolati di un’ora e mezza al giorno, che utilizzando le ore retribuite conquistate per le assemblee, si svolgessero le riunioni dei gruppi omogenei per discutere, sulla base del questionario, le loro condizioni di salute “individuando – avrebbe precisato Galesi – dati di grande valore scientifico”. Dalla lettura critica dell’ambiente nascevano specifiche richieste per ottenere alcune modifiche strutturali tali da abbattere la rumorosità (reparto trafila filo sottile) ed i fumi (reparto laminazione), modificare la disposizione spaziale delle macchine e ridurre la fatica fisica. Tutto questo rappresentava un salto culturale enorme: infatti “il sarcasmo, le battute sui ‘medici-operai’ che circolavano tra i lavoratori all’inizio della indagine sono scomparsi; il discorso sulla nocività ha fatto strada nelle coscienze dei lavoratori”. 

Un’altra esperienza si svolgeva intanto alla Beretta di Gardone VT (1.400 dipendenti). Qui ad essere coinvolti nel corso di formazione furono solo i 13 delegati della Commissione Ambiente. L’indagine assunse un taglio diverso da quello sperimentato alla Tlm; infatti si preferì non passare per i gruppi omogenei, ma piuttosto distribuire un questionario da far compilare individualmente ad ogni lavoratore secondo l’esperienza Zoppas. Ciò impedì un confronto tra gli operai del gruppo, con la perdita di quel carattere di identità collettiva che doveva portare con sé il riconoscimento, maturato nella discussione, delle nocività all’interno di un segmento del processo produttivo. Così la Commissione ambiente “non è stata in grado di distinguere tra il valore e il significato di un modello […] costruito con la partecipazione collettiva del gruppo e tra un modello individuale, la cui compilazione, lasciata alla spontaneità dell’operaio singolo, non teneva conto delle capacità di risposta dei lavoratori”. Nasceva quindi la necessità di riproporre l’indagine in modo corretto coinvolgendo cioè direttamente i gruppi omogenei in quanto tali nella compilazione del questionario e del tesserino provvisorio per arrivare poi al libretto di rischio. Intanto erano state avanzate alla direzione aziendale alcune rivendicazioni: l’istituzione dei registri dei dati ambientali e biostatistici (un accordo del maggio ’71 prevedeva l’istituzione dei libretti di rischio e sanitari a cura dell’azienda); il riconoscimento del diritto di svolgere attività di patronato durante l’orario di lavoro e usufruendo di un monte ore retribuito a tre delegati sindacali; il diritto infine a consultare il registro aziendale degli infortuni e delle malattie professionali. 

Anche alla Sant’Eustacchio (1.400 dipendenti) era stato iniziato il corso di base, subito interrotto, però, per il sostanziale disimpegno dei membri del Consiglio coinvolti in una difficile vertenza sui problemi di inquadramento e di orario. Alla Pietra (1.500 dipendenti) la sensibilizzazione dei lavoratori sul tema della salvaguardia della salute in fabbrica era stata possibile come reazione emotiva a due infortuni mortali capitati nello stabilimento siderurgico. La rabbiosa risposta delle maestranze permise al Consiglio di fabbrica ed ai dirigenti del Patronato di impostare immediatamente un corso aziendale sui rischi a cui avrebbero partecipato 31 dei 35 delegati con l’impegno di individuare i gruppi omogenei, di avviare immediatamente l’inchiesta e di predisporre un quaderno di rivendicazioni. In quegli stessi mesi richieste di informazioni e sollecitazioni a organizzare dei brevi corsi sarebbero arrivate da numerose altre fabbriche metalmeccaniche: dalla Ideal-Radiatori di Brescia alla Rio di Sarnico, dalla Glisenti-Caster di Carcina alla Fonderia Perani di Brescia, ed altre ancora. 

La proposta del Centro per la lotta contro la nocività 

L’espandersi di questa domanda ormai chiedeva un salto di qualità politico: doveva essere in primo luogo il Sindacato in quanto tale, pur avvalendosi dell’esperienza del Patronato, ad assumere in proprio la direzione di tutte le fasi di questa azione rivendicativa volta a modificare l’ambiente di lavoro e a costruire, partendo dalla fabbrica e dall’intervento diretto dei lavoratori, i contenuti di una riforma sanitaria che avesse, quale sbocco conclusivo, la conquista di un Servizio sanitario nazionale ed il superamento del tradizionale sistema assicurativo ed assistenziale “burocratico-caritativo” affidato all’ Inps, all’Inail, all’Enpi ed all’ Inam. 

Da qui nasceva l’ipotesi di costituire tra le tre Confederazioni provinciali un “Centro Unitario Provinciale” per la lotta contro la nocività allo scopo di raccogliere ed elaborare tutti i dati provenienti dalle fabbriche, dai Centri di Medicina sociale e preventiva, dall’Inam, Inps e Inail, dagli stessi Patronati ecc. 

Il 9 febbraio del ’72 le Segreterie delle Confederazioni provinciali, quelle dei Sindacati dell’industria ed i rappresentanti dei Consigli della Tlm, Beretta, Pietra (metalmeccanici) e della Caffaro, Standard e Uci (chimici) discussero ed approvarono un importante documento che proponeva la costituzione del Centro Unitario Provinciale per la lotta contro la nocività 52In realtà non si giunse mai,  per intuibili difficoltà unitarie, alla costituzione effettiva del Centro, finché la Cgil decise di crearlo al proprio interno come struttura della Camera del Lavoro, affidandolo a Dino Valseriati, già segretario dei chimici.. Esso avrebbe dovuto essere, come specificava lo stesso Galesi, una “memoria cosciente” col compito di “conoscere i rischi, i danni e i metodi di misurazione dei dati ambientali e biostatistici, […] con funzioni di coordinamento (cioè di egemonia) nei confronti di tutte le forze scientifiche e tecniche presenti nella nostra provincia”. Non si trattava quindi di emarginare od escludere i tecnici degli Enti e delle varie Istituzioni che “hanno fallito perché li abbiamo delegati (Enpi, Ispettorato del lavoro, ecc.)”, tutt’altro. Ma “una cosa però deve essere chiara: se si prescinde dalla fabbrica, dai gruppi omogenei, dalla partecipazione dei lavoratori ai processi di conoscenza, sperimentazione e verifica della realtà, significa rinunciare in partenza alla verifica dello stato di efficienza degli strumenti che devono assolvere al mantenimento del più alto livello di salute, perché ciò che stiamo tentando di fare coi gruppi operai omogenei per utilizzare la loro capacità diagnostica ed epidemiologica (sviluppandola attraverso la socializzazione delle conoscenze e un nuovo rapporto coi tecnici della salute), rappresenta il modello di partecipazione su cui si basa la riforma sanitaria”. 

A pochi mesi di distanza da quella riunione, nell’aprile, il Centro unitario di formazione metalmeccanici Fim-Fiom-Uilm di Brescia fece uscire una dispensa dal titolo: “Per un intervento operaio contro la pericolosità della condizione di lavoro (elementi per una linea di attacco immediato)” 53Ora in “L’Assistenza Sociale”,  n. 3, 1972,  pp. 71-99, segno di un impegno che i metalmeccanici di Brescia intendevano assumere per un’iniziativa permanente sui temi dell’ambiente di lavoro. 

Dall’esperienza di fabbrica ad una nuova formazione dei medici 

Ma sarà dopo la firma del nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici, nel 1973, che i temi dell’ambiente di lavoro diventeranno centrali nell’iniziativa rivendicativa dei metalmeccanici di Brescia. Gastone Sclavi, aveva da tempo riproposto la centralità dell’intervento del sindacato in fabbrica sull’insieme delle problematiche della condizione operaia e dell’organizzazione del lavoro 54Cfr. R. Cucchini,  M. Ruzzenenti, op. cit, pp. 100-112.

Il nuovo contratto, inoltre offriva un nuovo strumento di crescita culturale collettiva, le 150 ore per il diritto allo studio. In questo quadro, furono subito attivati corsi sull’ambiente e sulla medicina del lavoro da effettuare presso la locale Facoltà di medicina – emersi dall’esperienza della Franchi, fabbrica d’armi da caccia – facendo leva sulla “disponibilità sia dei lavoratori della Franchi sia degli studenti con i quali, per altro, vanno discussi i contenuti e le metodologie per renderli utili a tutti coloro (studenti e lavoratori) che ne usufruiranno” 55FLMeccanici, Linee di orientamento per i delegati, Brescia, luglio 1973, in AFLM, Fondo Sclavi, b. 1973.

Su questa ipotesi “il Comitato Unitario di Base di Medicina ha organizzato quindi un convegno cui hanno partecipato dirigenti sindacali, lavoratori, studenti e medici in cui è emersa l’esigenza di legare gli insegnamenti alla realtà. Viene qui proposta in concreto un’attività di studio e di ricerca specifica nelle fabbriche e nei quartieri, nelle sedi cioè dove la malattia nasce e dove quindi può essere colpita alla radice […]. Questo corso iniziò concretamente a fine gennaio ’74, e fu gestito da studenti, lavoratori e docenti” 56A gennaio un’esperienza sull’ uso delle 150 ore: dalla fabbrica la salute diventa oggetto di studio e di crescita politica, in “Unità di classe”, cit., novembre 1973, p. 6.

Oltre ad una prima parte dedicata alle nocività “tradizionali” presenti in un ambiente di lavoro, in una seconda fase tale momento formativo toccò delle problematiche innovative, tradizionalmente trascurate dall’iniziativa sindacale, quelle che andavano allora sotto il titolo dei “fattori di rischio del 4° gruppo” (stress, monotonia, ritmi, ecc.) e che avevano molto a che vedere, per l’appunto, con i temi dell’organizzazione del lavoro, tanto cari alla riflessione di Sclavi. 

È interessante scorrere i titoli del programma dei sette incontri che si tennero nel maggio del ’74: introduzione al quarto gruppo dei fattori nocivi; la psicologia come scienza del comportamento; l’uomo come unità psicosomatica sociale; la psicologia sociale del lavoro; il rapporto uomo macchina e l’alienazione; esperienze di fabbrica di psicologi 57Centro Universitario Lombardia Orientale, Corsi di medicina di Brescia e Federazione Lavoratori Metalmeccanici, Corso interdisciplinare sull’ambiente di lavoro. Il contributo della psicologia, Brescia, maggio 1974, cicl. in  ASCL, Carte militanti, FMV, Piero Greotti.

Il Comitato Unitario di Base di medicina visse quella prima esperienza con grande impegno anche se non mancò di sottoporla a valutazione critica. L’apertura dell’Università alla società era il punto qualificante, per gli studenti del Cub: 

Da ciò l’importanza dei corsi 150 ore, svolti l’anno scorso, che, se pur pieni di limiti, hanno costituito un tentativo di aprire la scuola, di cercare un rapporto costruttivo con la classe operaia, di imporre alla scuola uno scontro con le esperienze reali della società […],  ma proprio queste esperienze ci hanno insegnato che l’unico modo perché diventino patrimonio degli studenti, e non di qualche studente politicizzato, è quello di riuscire a legarle strettamente alla Facoltà, trasformarle in terreno di intervento legato ai corsi, alle esercitazioni 58Convegno annuale del comitato unitario di base. Facoltà di medicina di Brescia27 – 28 ottobre 1974, cicl.,  ivi.

I contenuti di questo rinnovamento degli studi erano indicati nella ridefinizione del ruolo del medico nella società e della stessa scienza “asservita agli interessi delle classi dominanti”, nonché nella riforma sanitaria “attraverso la liquidazione delle mutue, la decentrazione [sic!] dell’assistenza sul territorio, il potenziamento della medicina preventiva, la gestione di classe della salute” 59Ivi.

Una vicenda di grande interesse, quest’ultima, perché dimostra come quel cambiamento di paradigma costruito nell’esperienza di fabbrica con il “modello operaio” ebbe la capacità di contaminare anche i luoghi della formazione e della ricerca medica, di affermare anche sul piano scientifico un approccio diverso fra salute e benessere degli uomini, ambiente di lavoro, tecnologia. 

 Un consuntivo provvisorio 

Come si è visto, anche nell’esperienza bresciana, non mancarono contraddizioni (particolarmente preoccupante il caso della Caffaro, al riguardo). Tuttavia nel complesso in quegli anni si ottennero risultati che modificarono profondamente gli ambienti di lavoro e soprattutto l’atteggiamento dei lavoratori verso i rischi e le nocività indotte dalle tecnologie produttive. Da questo punto di vista si può riconoscere un significato universale di alcuni aspetti del “modello operaio” che hanno valore ancor oggi e che anticiparono molti principi della stessa cultura ambientalista che si sarebbe sviluppata in particolare nel decennio successivo: 

– l’esperienza soggettiva e la partecipazione cosciente di chi è coinvolto direttamente come presupposti necessari per ottenere la prevenzione dei rischi e il risanamento ambientale. 

– la necessità di rimuovere alla fonte i fattori di rischio e di inquinamento, rifiutando la logica della monetizzazione e dell’indennizzo. 

– la “non delega” all’onnipotenza della scienza e quindi ai tecnici, il cui ruolo, tradizionalmente considerato assoluto e indiscutibile, diventò di consulenza e sostegno ai lavoratori, depositari, in ultima istanza, del diritto di verifica e di controllo, la cosiddetta “validazione consensuale”. 

Ma non vi fu soltanto una “rivoluzione culturale”: Notevoli furono anche i risultati concreti di questo movimento che portò poi, come già si è detto, alla Riforma sanitaria e, successivamente, nel 1994, al Decreto legislativo 626 60Su questo importante strumento legislativo per la prevenzione e la sicurezza nei luoghi di lavoro si veda: Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province Autonome, Linee guida per l’applicazione del D. Lgs 626/94, Ravenna, ASL, 1996. Sulla cultura e le esperienze che l’hanno preparato si veda: S. Garzi, Promozione della salute ed azioni innovative nei luoghi di lavoro, Milano, Angeli, 1993.: il fenomeno degli infortuni, pur ancora a livelli non tranquillizzanti, si è ridimensionato, come sono diminuiti nuovi casi di malattie professionali tradizionali (silicosi, asbestosi, saturnismo…)61A livello nazionale, a questo proposito, è significativo l’andamento nel corso degli anni.  “La riduzione maggiore si è verificata nel periodo compreso tra il 1970 ed il 1986, durante il quale si è potuta registrare una diminuzione degli infortuni di circa il 50%. Dal 1986, tuttavia si è dovuto registrare un nuovo incremento del dato infortunistico, stimato attorno al 22%. L’inversione di tendenza […] fu causata da diversi fattori: […] le grandi ristrutturazioni aziendali, che hanno influito negativamente sugli investimenti per la sicurezza, la forte caduta del controllo sindacale sulle condizioni di lavoro, la scarsità dei controlli pubblici, resi più difficili dal decentramento e dalla dispersione sul territorio delle attività produttive. Soltanto dal 1991 il numero degli infortuni ricomincia a diminuire”. Cfr. C. Smuraglia (relatore), Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla sicurezza e l’igiene del lavoro, Atti parlamentari, Senato della Repubblica, doc. XVII, n. 4, 28 luglio 1997,  pp. 15-16. A Brescia, rispetto ai  44.270 infortuni del 1968,  nel 1996  sono stati denunciati 23.135 infortuni (dati Inail).

Certo, rimangono ancora aperte diverse questioni. Perché, ad esempio, questa esperienza non riuscì ad incontrarsi con il movimento e la cultura ecologista che si andò affermando nel Paese di lì a poco 62Su questo si veda: M. Ruzzenenti, La radice verde del sindacato italiano, in “Capitalismo, Natura, Socialismo”, Anno IV, n. 2, maggio-agosto 1994, pp. 136-141.? Ed ancora, come mai oggi si fatica tanto a rimettere in campo, nel nuovo quadro normativo del DLg 626, la partecipazione e la soggettività dei lavoratori? Ed ancora: perché sembra così difficile intervenire sulle nuove nocività 63Una recente inchiesta svolta dalla Camera del Lavoro di Brescia denuncia come quasi la metà dei lavoratori intervistati soffrano di “insonnia, ansia, depressione, irritabilità” a causa di “lavori scanditi da operazioni brevi, ripetitive, dequalificate, con una frequenza che non supera una manciata di secondi” , senza poter intervenire sull’ordine o sul ritmo delle operazioni che svolge. Cfr. E. Montanari (a cura di) L’usura del lavoro nell’economia di fine secolo. Inchiesta sulle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori bresciani, Brescia, Camera del Lavoro, 1999, pp. 8-9., legate in particolare all’organizzazione del lavoro? 

Quesiti impegnativi, che qui non possono neppure essere sfiorati, ma che ancora una volta mettono in risalto la straordinaria valenza innovativa di quanto fu prodotto dentro i luoghi di lavoro, in particolare nei primi anni Settanta. 

Abbreviazioni nelle note: 

ASCL: Archivio storico della Camera del lavoro di Brescia 

AFLM: Archivio della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia 

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