Le guerre hanno degli strani aspetti laterali. I paesi in conflitto possono combattere soltanto mobilitando sia grandi masse di soldati, sia grandissime masse di materiali che vanno dai metalli delle armi, dei carri armati, degli aerei, dei veicoli, ai carburanti per i mezzi di trasporto, a munizioni, alimenti conservati, indumenti, componenti per l’elettricità e le telecomunicazioni, eccetera. Quando la guerra finisce, questi materiali risultano in gran parte inutili e vengono abbandonati nel territorio nemico, spesso impoverito, e risultano attraenti e utili per risolvere molti problemi elementari di sopravvivenza.
Lo si è visto in Italia dopo la seconda guerra mondiale, nel 1945; gli eserciti inglese, americano, tedesco, che si erano scontrati sul nostro territorio, hanno abbandonato intere montagne di residui e rottami. Il materiale bellico lasciato dall’esercito americano è diventato importante, anzi essenziale, per un paese che aveva disperato bisogno di tutto e il governo italiano si è trovato davanti alla necessità di amministrare questi depositi e di proteggerli dai furti.
Fu così creato, nell’ottobre 1945 (la guerra era finita ai primi di maggio) un apposito ente statale denominato “Azienda rilievo alienazione residuati” (Arar) alla cui presidenza fu nominato Ernesto Rossi. Alla maggior parte degli Italiani contemporanei questo nome dice poco ed è un peccato perché Ernesto Rossi è stato uno straordinario personaggio: nato nel 1897, laureato in legge, volontario e mutilato nella prima guerra mondiale, docente di materie economiche all’Istituto tecnico di Firenze, si era avvicinato giovanissimo al gruppo di antifascisti che comprendeva Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, Riccardo Bauer. Insieme a loro pubblicava le riviste clandestine “Giustizia e Libertà” e “Non mollare” che attrassero ben presto l’attenzione della polizia fascista.
Ernesto Rossi fu arrestato nel 1930 e condannato a venti anni di carcere dal “Tribunale speciale” nel corso del “processo agli intellettuali” antifascisti. Rimase in carcere a Regina Coeli a Roma fino al 1939 quando fu assegnato al confino di polizia nell’isola di Ventotene. In carcere continuò gli studi di economia, e al confino, insieme ad Altiero Spinelli, redasse quel “manifesto di Ventotene” che gettava le basi della struttura federalista europea. Giuseppe Fiori, lo storico e giornalista scomparso proprio nei giorni scorsi, ha scritto una bella “Vita di Ernesto Rossi” pubblicata nel 1997 da Einaudi.
Nominato, dopo la Liberazione, sottosegretario alla ricostruzione, membro del Partito d’Azione, Ernesto Rossi fu scelto come presidente dell’Arar perché occorreva una persona che desse assolute garanzie di indipendenza e di onestà. Troppi appetiti, infatti, destavano quei milioni di tonnellate di residuati bellici che si trovavano in 152 campi sparsi per l’Italia, in gran parte intorno a Napoli e Bari, ma anche a Livorno, in Lombardia, nel Veneto. La storia di questo ente, che rimase in vita fino al 1958, è stata di recente raccontata nel libro di Luciano Segreto, “Arar. Un’azienda statale tra mercato e dirigismo”, pubblicato da Franco Angeli per conto del Centro di ricerche sull’economia pubblica.
Ci volevano il coraggio e la fermezza di Ernesto Rossi per districarsi fra il governo americano, che pretese 160 milioni di dollari (del 1945) per i residuati bellici venduti all’Italia, e l’avidità di industrie, privati, nonché speculatori e ladri che cercavano di prendere al minimo prezzo (i ladri gratis) materiali preziosi che andavano dalla gomma, ai metalli (acciaio, nichelio, rame, stagno) ad autoveicoli (trecentomila, in un momento in cui il parco automobilistico circolante italiano era di poche decine di migliaia di unità). Si può certamente dire che la ricostruzione dell’Italia sconfitta è stata possibile col riutilizzo – col riciclo, trent’anni prima della nascita dell’ecologia – dei residuati bellici. Sta di fatto che nei tredici anni della sua gestione, l’Arar di Ernesto Rossi è riuscita non solo ad assicurare i materiali necessari per la rinascita italiana, ma anche un utile allo stato di molti miliardi di lire (degli anni cinquanta del secolo scorso).
L’efficienza e la correttezza della gestione dell’Arar indussero il governo ad affidare a questo ente l’amministrazione dei materiali forniti all’Italia nell’ambito degli aiuti delle Nazioni unite per la ricostruzione (Unrra) e di quelli americani del Piano Marshall (Erp); con gli aiuti gestiti dall’Arar arrivarono in Italia, già pochi anni dopo la fine della guerra, apparecchiature scientifiche, i primi calcolatori, riviste, strumenti per i laboratori universitari, che permisero la ripresa della ricerca e degli studi universitari.
Il libro sull’Arar offre un quadro di difficoltà politiche ed economiche ormai dimenticate, dei dibattiti fra potenti interessi contrastanti; un quadro, insomma della storia economica dei primi quindici anni della Repubblica. Ma soprattutto mostra come Ernesto Rossi sia stato capace di superare le difficoltà con lo stesso rigore morale che aveva dimostrato nella sua opposizione al fascismo, un esempio che è possibile, anche in epoche tempestose, porre al di sopra di tutto l’interesse pubblico e dello stato.