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Willoughby Smith (1828-1891)

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Vi ricordate quando Edmond Dantès, il Conte di Montecristo del celebre romanzo di Alessandro Dumas, fa arrivare per telegrafo un’informazione sbagliata al malvagio e avido banchiere Danglars, che lo aveva ingiustamente fatto arrestare e finire per anni nel tetro carcere del castello d’If a Marsiglia? E così Danglars è punito con una ingente perdita di denaro? Siamo nel 1838 e il Conte di Montecristo si mette di persona a muovere le tre braccia del telegrafo ottico che collegava tutta l’Europa, trasmettendo i segnali da una torre di osservazione ad un’altra. Il telegrafo ottico era stato inventato alla fine del Settecento dai fratelli Chappe ed era sembrato una macchina talmente importante che l’Assemblea rivoluzionaria francese l’aveva ufficialmente adottato nel 1792.

Il racconto di Dumas si riferisce comunque ad uno degli ultimi periodi di vita del telegrafo ottico. Nella lontana America Samuel Morse aveva realizzato un sistema per trasmettere lettere e messaggi utilizzando la corrente elettrica e un alfabeto da lui inventato, composto di linee e punti; il 24 maggio 1844. Morse trasmise il primo messaggio telegrafico da Washington a Baltimora e da quel momento il telegrafo elettrico passò da un successo all’altro.

Il passo successivo consisteva nel superare mari e oceani e qui interviene il personaggio di cui volevo parlare, l’inglese Willoughby Smith (1828-1891), impiegato in una fabbrica chimica che lavorava la guttaperca, una gomma elastica naturale estratta da piante dell’Indonesia e che presentava buone proprietà isolanti dell’elettricità e buona resistenza all’acqua. Coprendo dei fili di rame con questa guttaperca la società di Smith fabbricò i primi cavi elettrici che potevano essere immersi nel mare, adatti quindi alle trasmissioni telegrafiche sottomarine; il primo, lungo 50 chilometri, collegò nel 1850 Dover in Inghilterra con Calais in Francia

L’importante passo successivo fu fatto un secolo e mezzo fa quando un cavo telegrafico ben più lungo fu steso fra la città di La Spezia, ancora nel Regno di Sardegna, con la Corsica e poi con la Sardegna e l’Africa settentrionale, unendo per la prima volta direttamente due continenti.

I collegamenti intercontinentali continuarono nel 1858 con la posa del cavo telegrafico sottomarino che univa l’Irlanda con l’isola di Terranova nel Nord America. Nasceva la società moderna e la globalizzazione, mezzo secolo prima delle trasmissioni “senza fili” della radio di Marconi e un secolo prima delle trasmissioni con satelliti artificiali.

Ma i satelliti artificiali non sarebbero mai stati realizzati se Willoughby Smith non avesse fatto anche un’altra scoperta. Per le prove di isolamento, durante l’immersione dei cavi telegrafici sottomarini, Smith usò delle barrette di selenio metallico, considerato un cattivo conduttore dell’elettricità. Smith scoprì però che le proprietà elettriche del selenio variavano quando era tenuto al buio, rispetto a quando era esposto al Sole. Al buio le barrette di selenio non lasciavano passare l’elettricità e alla luce diventavano, sia pure limitatamente, conduttrici di elettricità. Colpiti da questa strana proprietà altri due inglesi, Adams e Day, condussero altri esperimenti e scoprirono che nel selenio esposto alla luce addirittura si generava una corrente elettrica che cessava quando la superficie di selenio era tenuta al buio e chiamarono questo fenomeno “fotoelettricità”. Fra tutti questi stranieri non dimentichiamo che anche gli italiani hanno avuto un ruolo nell’utilizzazione dell’energia solare; al professore pisano Antonio Pacinotti (1841-1912) si devono alcuni fondamentali studi sulle proprietà fotoelettriche del selenio, pubblicati nel 1863-64.

Ormai erano aperte le porte per la produzione di elettricità direttamente dalla luce del Sole. Al fianco di alcune applicazioni commerciali come le celle fotoelettriche per l’apertura e chiusura automatica delle porte o per gli esposimetri delle macchine fotografiche, il selenio fu impiegato per la costruzione delle prime cellule fotovoltaiche solari in senso moderno. L’americano Charles Fritts realizzò un pannello fotovoltaico stendendo un sottile strato di selenio su una lastra di metallo e costatò che il pannello produceva una corrente elettrica quando era esposto sia alla luce solare, sia alla luce artificiale.

Fritts mandò uno dei suoi pannelli fotovoltaici al grande fisico tedesco Werner von Siemens (1816-1892) che ne riferì all’Accademia reale di Prussia e pubblicò nel 1885 un articolo “sulla forza elettrica generata dal selenio esposto alla luce, scoperta dal sig. Fritts di New York”. Il lungo cammino per la comprensione del fenomeno delle fotoelettricità – ci sarebbe voluto addirittura Albert Einstein per spiegare che la luce “contiene” dei fotoni dotati di energia, i quali mettono in moto gli elettroni all’interno di alcuni materiali come il selenio e, si vide in seguito, il silicio e altri ancora – è stato raccontato nel libro Righini-Nebbia, “L’energia solare”, pubblicato da Feltrinelli nel 1966 e ormai introvabile, e nel più recente libro di Perlin “Dal Sole”, pubblicato nel 2000 dalle Edizioni Ambiente.

Per farla breve il primo pannello solare fotovoltaico in senso moderno, a strato di selenio, fu costruito nel 1931, ma il suo rendimento era molto basso; solo meno dell’uno per cento della energia solare veniva trasformata in energia elettrica. Soltanto nel 1953 fu scoperto, nei laboratori americani della società elettrica Bell, che il selenio poteva essere sostituito dal silicio opportunamente trattato; in pochi anni le celle fotovoltaiche al silicio sarebbero diventate commerciali e avrebbero raggiunto, oggi, la capacità di trasformare circa il 12 per cento dell’energia solare in energia elettrica.

Sono i pannelli solari che forniscono continuamente l’elettricità ai satelliti artificiali che trasmettono notizie, film, le partite di calcio, le informazioni meteorologiche, eccetera. I pannelli solari, che si stanno diffondendo in tutto il mondo, producono, alle nostre latitudini, circa 100 chilowattore di elettricità all’anno per ogni metro quadrato di superficie esposta al Sole; in molti – e anche io stesso – considerano i pannelli solari come gli strumenti per mettere il Sole al servizio degli esseri umani nei paesi industrializzati, ma soprattutto nei paesi del Sud del mondo.

Pannelli solari, senza parti in movimento, di semplice funzionamento, possono portare l’elettricità per far funzionare frigoriferi per la conservazione dei medicinali, per portare conoscenze e per illuminare le case in milioni di villaggi nei deserti, nelle foreste, sulle montagne, grazie al Sole. Il cammino che vi ho proposto ha il fine di ricordare che niente di quello che abbiamo oggi è possibile senza il contributo talvolta glorificato, ma spesso dimenticato e ignorato, di tante persone che ci hanno preceduto. Almeno un grazie!

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