Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Cugina o sorella?

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Quelle di cui stiamo cercando la parentela sono la merceologia e la chimica, due discipline, ma, direi, due modi di vedere il mondo, abbastanza imparentate anche se l’allontanamento si è fatto più visibile nel mondo accademico e col passare del tempo.
 Fin dai tempi più antichi gli esseri umani hanno sentito la necessità di soddisfare i propri bisogni – cibo, acqua, difesa del corpo contro il freddo, abitazione, movimento – con oggetti materiali tratti dalla natura. Si trattava di vegetali o animali, di fibre tessili, di pietre, di sale ricavato dal mare; a mano a mano che le società umane si sono organizzate e che sono aumentati i bisogni, l’estrazione e trasformazione dei corpi della natura si sono fatte sempre più raffinate. D’altra parte ciascuna persona non poteva sapere tutto del mondo delle cose, però ciascuna ha raccontato ad altre quanto sapeva e ha appreso da altre le conoscenze sulla natura; forse è stato proprio questo scambio continuo che ha caratterizzato l’evoluzione degli esseri umani verso forme sempre più simili a quelle che conosciamo oggi.
In gran parte le conoscenze riguardavano le proprietà dei corpi della natura. Nello stesso tempo un numero crescente di persone doveva approvvigionarsi di alcuni oggetti o materiali da altre persone o da altri luoghi ed è nata una società basata sugli scambi. Dapprima scambi basati sul baratto – cibo in cambio di sale, pelli in cambio di schiavi, eccetera – poi mediati da un nuovo ente, il denaro.
Qualsiasi società di cui ci sono arrivate testimonianze conosceva e registrava scambi di materia in cambio di materia o di denaro, o inventari dei beni materiali che una persona o una comunità possedeva.
La scienza e la filosofia si occupavano di molte altre cose importanti – l’esistenza di una divinità, il moto dei pianeti, i diritti delle persone – ma il mondo è sempre andato avanti con il progredire e col diffondersi delle conoscenze degli oggetti e con i loro scambi. Per semplicità chiamerò “merci” i beni fisici, materiali, tratti dalla natura e trasformati col lavoro umano in oggetti utili, tralasciando il modo in cui venivano scambiati.
Chiamerò merceologia la conoscenza dei corpi materiali, fisici, tratti dalla natura, trasformati e usati dagli esseri umani. Tale conoscenza poteva essere cercata e perfezionata per fini di pura curiosità, per fini pratici, per fini di scambi e di arricchimento, poteva essere rivolta a beni essenziali, come il cibo o i materiali da costruzione di una abitazione, o poteva essere rivolta a oggetti del tutto inutili o frivoli, come pietre preziose o profumi o droghe o tessuti o pelli di lusso che parlavano un linguaggio non di necessità, ma di prestigio o piacere, erano segnali di potenza e di ricchezza.
Sta di fatto che, dai tempi più antichi, le conoscenze delle cose pratiche e utili si trovano in tutte le società organizzate. Qui di seguito eviterò qualsiasi giudizio sul grado di “civiltà” delle comunità che incontreremo. Le opere “scientifiche”, geografiche, mediche, giuridiche, sono anch’esse costrette ad utilizzare e sono fonti di conoscenze merceologiche perché le malattie si curano con erbe o radici, perché le controversie giudiziarie si riferiscono in gran parte a scambi merceologici.
 Si potrebbe fare una utile ricerca per trovare nelle fonti storiche le conoscenze del tempo in cui sono state scritte. Ci sono alcuni testi che rappresentano per il merceologo una fonte di continue sorprese: la “storia naturale” di Plinio si può considerare una vera e propria enciclopedia merceologica; la “Materia medica” di Dioscoride è una raccolta delle conoscenze di piante e animali che sono stati riconosciuti utili a curare malattie: praticamente di tutti i corpi offerti dalla natura.
Oggetti materiali sono stati usati nei riti religiosi come offerte alle divinità, come ornamenti dei sacerdoti; ce ne sono innumerevoli prove nella Bibbia e nei relativi commenti, soprattutto nella cultura ebraica; quali tipi di incenso erano adatti per le cerimonie, quali tipi di mirra erano adatte per la conservazione dei cadaveri, eccetera.
Già in questa prima fase nasce una delle attività di maggiore interesse, anche se trascurata negli studi seri: quella delle falsificazioni e frodi nello scambio delle merci. Il trasporto delle merci in zone lontane era faticoso e costoso e ben presto qualcuno ha scoperto che era possibile guadagnare di più miscelando merci pregiate con altre meno pregiate e che un acquirente poco esperto poteva essere facilmente ingannato.
Le frodi potevano essere svelate con saggi empirici, ma qualche volta richiedevano metodi più sofisticati. Si cita sempre il caso di Archimede che svela l’inganno dell’orefice del suo ospite Gerone che aveva confezionato con metalli più vili una corona che avrebbe dovuto essere d’oro; Archimede svelò l’inganno misurando il peso specifico della corona con quella di una equivalente massa di oro puro, scoprendo, così si dice, uno dei principi fondamentali della fisica.
Notizie sulle falsificazioni e frodi si trovano in Plinio, Dioscoride, nella Bibbia e probabilmente in molti altri testi antichi che meriterebbero di essere esplorati alla ricerca di testimonianze di una delle più antiche attività delittuose.
Una nuova ondata di conoscenze merceologiche si ha con la diffusione del mondo e della cultura islamica la cui religione non scoraggiava le attività commerciali, ma ne regolava la moralità; nel loro movimento dalle coste atlantiche dell’Africa alle isole dell’Oceano Pacifico, dall’Europa all’Africa centrale, avendo la Mecca in Arabia come doveroso punto di attrazione religiosa, i “fedeli” conoscevano un maggiore numero di oggetti e avevano crescenti occasioni di commerci e dovevano regolare la qualità di quanto compravano.
Le frodi nell’Islam era considerate una forma di peccato e lo stato aveva quindi dei propri uffici e funzionari addetti alla repressione delle frodi; i funzionari utilizzavano dei metodi fisici – il confronto fra pesi specifici – ma anche dei saggi che erano già “chimici” per distinguere le merci genuine da quelle sofisticate. Fortunatamente ci sono pervenuti numerosi trattati e manuali che permettono di dare uno sguardo su questa mondo in cui la merceologia incontra una chimica ancora ai suoi primi passi.
Ma è intorno al Cinquecento che le conoscenze merceologiche si fanno più raffinate e che un crescente numero di scienziati e tecnici cercano di capire come le materie della natura vengono trasformate e secondo quali “leggi” che cominciano ad essere leggi “chimiche”. La massa di informazioni chimico-merceologiche aumenta rapidamente di anno in anno, principalmente nel campo della metallurgia, sia sotto la spinta di ottenere metalli tecnici più adatti per armature, cannoni, spade, sia sotto la spinta di ottenere metalli preziosi possibilmente evitando le complicate operazioni di estrazione. dei metalli genuini.
La conquista delle “Americhe” fece affluire in Europa non solo le merci tradizionali delle lontane Indie, scoperte ora nelle nuove terre, ma anche merci del tutto nuove, come la patata, il pomodoro, il tabacco, e una gran massa di metalli preziosi. È dal Cinquecento in avanti che anche le conoscenze chimiche si raffinano, essenzialmente a fini merceologici per migliorare i processi di trasformazione dei prodotti naturali e per sventare le sofisticazioni e le frodi.
Fino al Seicento non compare la parola chimica in senso moderno e neanche la parola merceologia come disciplina scientifica, anche se i primi due secoli della chimica vedono la nuova scienza impegnata a risolvere problemi pratici, merceologici, a capire come è possibile perfezionare processi di produzione delle merci.
Nel corso del Settecento l’interesse degli intellettuali è rivolto alla comprensione dei processi di trasformazione delle materie naturali in merci: il più importante esempio è offerto dall’“Enciclopedia” che intende parlare di arti e mestieri, cioè di processi di produzione e trasformazione delle materie naturali e delle merci. L’opera a cui si attribuisce la spinta per le trasformazioni culturali più importanti della società e la nascita della società moderna e democratica è un’opera tecnico-merceologica.
Nel Settecento si moltiplicano i dizionari e le enciclopedie merceologiche, comincia a comparire, negli scritti tedeschi, la parola Warenkunde, o scienza delle cose, delle merci, la merceologia, insomma, e la stessa parola compare per la prima volta nel titolo di un libro scritto dall’economista, intellettuale e studioso tedesco Johann Beckmann (1739-1811) nel 1793.
È interessante notare che i primi scrittori di merci erano economisti e storici e non chimici e da qui merceologia e chimica sembrano camminare su due piani poco comunicanti, benché i chimici continuino ad occuparsi di prodotti di commercio e i merceologi abbiamo sempre più bisogno di strumenti e conoscenze chimiche per descrivere e conoscere le merci e per svelare le frodi.
Altrettanto curioso è il fatto che, quando diventano insegnamento nelle scuole superiori o nell’Università, la chimica venga accolta fra le discipline “naturalistiche” e la merceologia finisca fra gli insegnamenti economici; come insegnamento la merceologia compare nelle scuole commerciali europee – Germania, Austria, Italia anche Russia – spesso insegnata da chimici. Ugualmente curioso è il fatto che la merceologia non figura, neanche come nome proprio, nelle lingue francese e anglosassoni, tanto che per parlarne occorre ricorre a perifrasi – commodity science, science des merchandises – che non rendono giustizia del contenuto culturale della merceologia, tanto più che in inglese commodities, goods e merchandises hanno diversi significati pur rientrando tutte e tre le parole nel termine italiane “merci”, che si tratti di petrolio, zucchero, semi oleosi, oggetti utili, benzina, conserva di pomodoro o scarpe.
Mentre è facile riconoscere la storia, tutta in salita, delle discipline chimiche nelle scuole e nelle università, la storia della merceologia fra le discipline economiche ha avuto alterne e non felici vicende.
La merceologia è oggetto di insegnamento nelle prime scuole superiori di commercio ad Anversa nel 1852, e a Parigi nel 1861. Ad Anversa si insegnava storia naturale dei prodotti commerciali e merceologia ed esisteva un laboratorio chimico e un museo merceologico. A Parigi venivano impartiti corsi di chimica applicata, fisica applicata, materie prime e prodotti commerciali, meccanica industriale.
Cominciano a comparire i primi libri riconducibili a interessi merceologici. Il prof. Karl Hassak (1861-1929) a partire dal 1886 insegnò merceologia nell’Accademia commerciale di Vienna dove fondò un centro per la raccolta e lo scambio del materiale geografico-merceologico. È interessante notare gli intrecci della merceologia con la geografia, oltre che con la chimica. Nel 1896 Hassak passò ad insegnare nell’Accademia commerciale di Graz di cui divenne direttore nel 1907. Vari trattati di merceologia di Hassak furono tradotti anche in italiano e divennero testi standard a partire dai primi anni del Novecento. Ancora nell’Ottocento appaiono i primi trattati di merceologia e si ha la creazione delle prime cattedre di questa disciplina in Russia.
Del resto tutti i trattati di economia, dalla fine del Settecento in avanti, cominciano con un capitolo intitolato “Le merci”; è così anche per “Il Capitale” di Kal Marx (1818-1883) che fin dall’edizione del primo libro del 1867, proprio nel primo capitolo parla della merceologia sottolineando che le merci hanno un valore d’uso e un valore di scambio. Del valore d’uso, scrive Marx, si occupa “ein eigener Disziplin, der Warenkunde”, la merceologia, appunto, del valore di scambio si occupa lui stesso nella lunga critica dell’economia e del valore nella società capitalistica.
Il primo ingresso della merceologia in Italia come materia di insegnamento si ebbe nelle scuole medie superiori ad opera di Arnaudon, professore presso l’Istituto Tecnico di Torino. Egli ottenne che nel 1869 la merceologia venisse introdotta come materia obbligatoria nei programmi degli Istituti tecnici, ma la mancanza di musei merceologici e di laboratori chimici fece sì che l’insegnamento scadesse e che la materia fosse eliminata dai programmi delle scuole medie; soltanto con la fine dell’Ottocento la disciplina è stata di nuovo introdotto negli Istituti tecnici e nelle Scuole commerciali.
Nel frattempo alle prime Scuole superiori di commercio straniere seguirono, nella seconda metà dell’Ottocento, varie simili scuole in Italia. La Scuola superiore di commercio di Venezia fu fondata nel 1868, quella di Genova nel 1884, quella di Bari nel 1886. Le scuole superiori di commercio si proponevano di preparare degli operatori economici e commerciali in grado di affrontare la società del tempo: è il periodo in cui in Italia, con alcuni decenni di ritardo rispetto ai paesi stranieri, nasce la società capitalistica e operaia e l’intraprendere ha ancora il carattere di improvvisazione e di avventura.
Non fa meraviglia, quindi, che le discipline “pratiche” avessero un ruolo importante; le conoscenze naturalistiche necessarie per riconoscere le merci, per svelare le frodi, rispondevano alle esigenze della nuova classe mercantile. In queste prime scuole superiori di commercio la merceologia era insegnata per due o tre anni; per lo più ispirata al modello tedesco, aveva carattere essenzialmente strumentale e descrittivo; di ciascuna merce venivano descritti gli aspetti botanici e mineralogici e venivano messe in rilievo le proprietà atte alla classificazione a fini doganali, le falsificazioni e frodi. Spesso le cattedre erano dotate di laboratori chimici che talvolta venivano messi a disposizione degli operatori economici per controlli e analisi.
Nel 1885 il prof. Giuseppe Novi (820-1906) scrisse a Napoli un lungo saggio che raccomanda l’istituzione di una scuola superiore per lo studio dei prodotti commerciali e delle risorse naturali destinata ad insegnare ad una nuova classe di operatori economici e di commercianti come far fronte ad un mondo in continua evoluzione. Novi suggeriva anche l’istituzione di un museo merceologico sotto la responsabilità di un professore di merceologia, coadiuvato da professori di geografia, storia ed economia dei prodotti di commercio.
Comunque per tutto il XIX secolo, nei paesi in cui è stata praticata e insegnata, la Merceologia non si è discostata dalla originale impostazione descrittiva: una specie di botanica, zoologia o mineralogia delle merci. I musei merceologici erano delle collezioni di campioni di prodotti commerciali, essenzialmente di origine naturale; i laboratori si occupavano della caratterizzazione delle merci e di svelarne le frodi attraverso i metodi resi disponibili dalla chimica e dalla fisica.
In Italia, per esempio, il Laboratorio Centrale e quelli periferici dell’amministrazione delle Dogane sono stati importanti centri di ricerca merceologica e molti loro funzionari – a cominciare dal primo direttore Vittorio Villavecchia (1859-1937) del Laboratorio centrale di Roma – sono poi passati a insegnare Merceologia nelle Università.
Una importante svolta negli studi economici si è avuta all’inizio del Novecento quando il termine “economico” si è andato ad affiancare a quello “commerciale” per caratterizzare gli studi superiori in Italia. Alle materie pratiche, fra cui dominava la merceologia, si sono affiancate quelle teoriche economiche; venivano fondate in questo periodo la Libera Università commerciale Luigi Bocconi di Milano nel 1902, e le Scuole superiori di commercio di Torino (1905), di Roma (1906), Palermo (1918), Catania (1919), Napoli (1920), Trieste (1923, ma preesistente come scuola con ordinamento speciale fin dal periodo austroungarico), Firenze (1926) Bologna (1929), eccetera.
Col prevalere delle discipline economiche e aziendalistiche l’insegnamento della merceologia veniva ridotto da biennale ad annuale. A mano a mano che le Scuole superiori di commercio, agli inizi del XX secolo, si sono trasformate in Facoltà universitarie economiche, alla merceologia sono stati lasciati spazi sempre più ristretti e la disciplina è stata spesso considerata marginale nei nuovi indirizzi di studio. La durata dell’insegnamento diminuì da tre, a due, a un solo anno di corso, proprio in un periodo in cui la merceologia era (sarebbe stata) destinata ad assumere nuova crescente importanza, di fronte alla grande rivoluzione merceologica del XX secolo: l’invenzione dei processi di fabbricazione dei concimi per via artificiale dalla calce e dal carbone (calciocianammide); con la sintesi dell’ammoniaca e la produzione dei suoi derivati partendo dall’idrogeno dell’acqua e dall’ossigeno dell’aria; con l’invenzione delle prime fibre tessili artificiali (cellulosa modificata) e poi sintetiche, e dei primi tipi di gomma sintetica; con i nuovi metalli; con i nuovi carburanti derivati dal petrolio, eccetera.
A differenza delle altre discipline che si sono adeguate alle nuove esigenze e ai nuovi tempi, la merceologia restava legata alla sua impostazione originale; questo era dovuti anche al fatto che le merceologia dell’epoca era dominata da una figura di grande rilievo e prestigio, quella già ricordata di Vittorio Villavecchia al quale si deve fra l’altro un celebre “Dizionario di merceologia” la cui prima edizione risale al 1896 e l’ultima, in quattro volume, al 1929-1932. Villavecchia tenne, come si è accennato, per vari decenni contemporaneamente la cattedra universitaria di merceologia nell’Università di Roma e la direzione del Laboratorio chimico centrale delle Dogane e restò legato – e legò i suoi allievi e successori – ad una tradizione tipicamente descrittiva, come se la merceologia avesse come principale scopo quello di insegnare a risolvere problemi di classificazione delle merci.
La seconda svolta negli studi economici si ebbe fra la prima e la seconda guerra mondiale; la grande crisi degli anni trenta del Novecento portò gli studiosi di problemi economici a occuparsi prevalentemente degli aspetti monetari e finanziari e si fece più profonda la crisi della merceologia, ormai ridotta comunque nelle università italiane ad insegnamento annuale ed ebbe spazi sempre più ristretti nelle Facoltà di Economia e Commercio, secondo la nuova denominazione assunta, a partire dal 1935, dalle antiche Scuole superiori di commercio.
La merceologia rimase, fino alla recente riforma, come insegnamento negli Istituti tecnici commerciali, triennale, con laboratori chimici, negli Istituti ad “indirizzo mercantile”, sempre di meno, e come materia annuale negli Istituti a indirizzo “amministrativo”.
La vera grande svolta negli studi merceologici si è però avuta dopo la seconda guerra mondiale: alle merci ottenute dai prodotti naturali, o attraverso limitate trasformazioni dei prodotti naturali, si sono affiancate, in numero crescente, delle merci artificiali o sintetiche, anche del tutto nuove, fabbricate attraverso profonde modificazioni fisiche o chimiche delle risorse naturali.
La merceologia non poteva più accontentarsi della descrizione dei prodotti naturali e delle merci da essi derivati, ma doveva affrontare lo studio della fabbricazione, dei caratteri e delle proprietà dei nuovi materiali e del loro valore commerciale. La ricerca del “valore” delle nuove merci presupponeva l’esame e la conoscenza dell’intero ciclo produttivo di trasformazione delle materie prime nei prodotti intermedi e nei numerosi manufatti commerciali.
Dalla raffinazione del petrolio si formano, per esempio, delle frazioni di “virgin nafta” che vengono poi trasformate industrialmente, per cracking, in varie altre sostanze, alcune adatte per la produzione di olefine (materie prime per le materie plastiche); altre adatte per la produzione della gomma sintetica; altre dotate di proprietà solventi o utilizzate come materie di base per detersivi, eccetera. Oltre al petrolio – merce naturale – anche queste numerose materie intermedie sono “merci”, così come sono merci le materie plastiche, i detersivi sintetici, i solventi, ciascuna delle quali merci richiede nuove tecniche di analisi e di indagine.
Con l’aumento del numero delle merci è aumentata anche la complessità dei prodotti oggetti di studio. Un manufatto di gomma naturale era, alla fine del XIX secolo, una merce relativamente “semplice”; un copertone di gomma odierno è una merce “complessa” costituita da diversi tipi di gomma naturale e sintetica miscelati fra loro, da additivi, da materiali di rinforzo, eccetera.
È diventato così sempre più difficile presentare agli studenti o al pubblico un quadro complessivo della scienza merceologica, o attrezzare dei laboratori merceologici. Nell’insegnamento ci si è dovuti per lo più limitare a trattare la trasformazione di alcune materie prime in alcune merci semplici intermedie, escludendo la gran parte delle merci “complesse” che raggiungono e interessano l’operatore economico e il consumatore.
La maggior parte dei corsi universitari di merceologia, per esempio, è costretta a trattare, della siderurgia, i processi che partono dai minerali e arrivano ad alcuni manufatti di acciaio di prima trasformazione o intermedi, trascurando del tutto lo studio o la descrizione delle lamiere, della banda stagnata, delle carrozzerie di automobili, delle pentole, e dei mobili, che pure sono tutte merci “complesse”, costituite da numerosi differenti parti, di grande importanza.
Fino alla fine degli anni sessanta del Novecento gli insegnanti di merceologia erano prevalentemente chimici, così come chimici erano in gran parte i docenti di merceologia nelle scuole secondarie superiori. In queste ultime i chimici hanno trovato sempre meno gratificazione, con corsi di dimensioni ridotte con “libri di testo” spesso scadenti e superati, e molti docenti hanno cercato di migrare verso insegnamenti di chimica in Istituti in cui avere maggiori soddisfazioni culturali.
In molti Istituti tecnici sono scomparsi i laboratori chimici, costosi e poco apprezzati dai presidi, e a poco a poco sono anche diminuiti i docenti di educazione chimica, sostituiti nell’insegnamento da laureati in scienze naturali che di chimica e merceologia sapevano ben poco. Non solo: nei corsi di laurea in chimica non è quasi mai stata insegnata merceologia per cui i chimici che hanno insegnato merceologia, negli Istituti tecnici o nelle Università, hanno dovuto imparare per proprio conto, talvolta bene, talvolta male, quel tanto o poco di merceologia che dovevano insegnare.
Nello stesso tempo lo spazio della merceologia nelle Facoltà di studi economici si è sempre ristretto; per molti docenti della Facoltà la merceologia era “chimica”, era “troppo chimica” per gli studenti e i laboratori chimici di ricerca erano inutili spese sottratte ad altri impieghi più utili ai fini degli studi economici.
Al punto che dal 1970 è stato sempre più difficile trovare laureati in chimica che avessero voglia di affrontare la carriera universitaria in merceologia e l’insegnamento è stato affidato ad un numero crescente di laureati in economia che di merceologia sapevano quel poco che avevano imparato all’università e che mancavano delle basi culturali, che necessariamente sono chimiche e naturalistiche, indispensabili per insegnare merceologia.
L’ultimo colpo al divorzio definitivo fra chimica e merceologia si è avuta con la riforma della scuola superiore del 1996 e con la totale eliminazione dell’insegnamento della merceologia dagli Istituti tecnici commerciali riformati e la segregazione della merceologia in poche scuole professionali o in pochi indirizzi degli Istituti tecnici femminili. Ironicamente anche la cugine o sorella chimica spariva come nome, relegata in una equivoca “Scienza della materia” con programmi che pure dovrebbero avere un contenuto “tecnico” e merceologico. Un gran pasticcio in questa gran moda di cambiare nomi consolidati con altri che non si sa che cosa significhino esattamente.
Eppure si stanno realizzando le condizioni culturali e tecnico-scientifiche che mostrano che la stretta integrazione fra discipline chimiche e merceologiche sarebbe essenziale per risolvere molti dei problemi della società contemporanea..
I segni della svolta, per chi li avesse voluti intendere, c’erano già fin dagli anni cinquanta del Novecento quando il prof. Walter Ciusa (1906-1990) dell’Università di Bologna ha suggerito che il vero ruolo della merceologia consisteva nello studio e nell’analisi dei cicli produttivi con cui le materie prime vengono trasformate in materie intermedie e nelle merci finali, dei rendimenti di trasformazione, della destinazione dei vari prodotti.
A titolo di esempio lo studio tradizionale della merce “cereali” consisteva nell’esaminare i vari tipi di frumento, il processo di macinazione, la qualità degli sfarinati e delle merci finali derivate: pane e pasta alimentare. L’analisi dell’intero ciclo produttivo mette in evidenza l’intero ciclo di formazione dei vegetali, il bilancio fisico e chimico di materia richiesta per la coltivazione, e poi i caratteri e le utilizzazioni dei sottoprodotti e co-prodotti della trasformazione dei cereali: i vari tipi di amido e derivati, materie prime per molte merci che vanno dalle colle, all’alcol etilico impiegato come carburante in miscela con la benzina. A fianco dell’amido si ottengono concentrati proteici utilizzabili come mangimi o come materie prime per sostanze plastiche.
Il ragionamento può essere facilmente esteso con l’analisi dei numerosi cicli produttivi di interesse economico, dai minerali all’acciaio e all’alluminio, dal petrolio a tutti i derivati prima ricordati e del destino di ciascuno di essi nella grande circolazione di materia che attraversa l’economia di ogni paese.
A partire dal 1964 hanno cominciato ad essere istituite delle cattedre universitarie autonome di “Tecnologia dei cicli produttivi” o dei “processi produttivi”. Lo studio dei processi di produzione e di uso delle merci ha permesso di affrontare alcuni interessanti problemi. Per esempio per ciascun processo produttivo viene (dovrebbe essere) analizzato il “bilancio” o la contabilità in unità fisiche di massa e di energia. Vari processi produttivi sono così confrontati sulla base della quantità di materia e di energia che consente di ottenere la stessa unità della stessa merce, o di merci differenti (per es.: tessuti, detersivi, adesivi) in grado di svolgere le stesse funzioni.
È evidente che questo cammino può essere fatto soltanto sulla base di accurate conoscenze chimiche, l’unica scienza che si occupa di bilanci materiali, che rappresenta una specie di “ragioneria” o contabilità dei processi e della natura. Eppure proprio negli insegnamenti di chimica è cresciuto il fastidio per il carattere materiale e utile dei processi e si è accentuata la distanza fra merceologia e chimica, proprio quando aumentavano le occasioni di incontri e di fusione.
L’analisi del bilancio materiale dei processi e dei cicli produttivi, di trasformazione della natura, consente di sviluppare delle scale di “valori” indipendenti dal costo o dal prezzo monetari considerati dall’economia tradizionale. “Vale” di più, per esempio, una merce che svolge la stessa funzione con minore consumo di energia o con minore consumo di petrolio o di altre materie prime. In un certo senso viene così ricuperato quel concetto di “valore d’uso” che Marx nel “Capitale” aveva riconosciuto come fine dell’indagine della merceologia.
Considerazioni simili sono state proposte per correlare il prezzo monetario degli alimenti col loro “contenuto” di valore energetico o di proteine, col che è possibile stabilire quali alimenti forniscono energia e proteine al minimo prezzo monetario.
L’importanza della nuova impostazione della merceologia appare ancora maggiore alla luce della crescente attenzione per i problemi ambientali. L’inquinamento dell’aria, dell’acqua o del suolo, sono per lo più dovuti all’immissione, in tali corpi riceventi naturali, dei sottoprodotti o delle scorie della produzione e dell’uso delle merci. Per conoscere gli effetti negativi di tali scorie sull’ambiente e per affrontare i relativi rimedi (depurazione, riciclo, eccetera), occorre avere delle informazioni dettagliate sulle quantità di materia e di energia che complessivamente “attraversano” ciascun ciclo produttivo.
La merceologia, in quanto scienza degli oggetti destinati al commercio, all’uso umano, si occupa principalmente della quantità di materia e di energia che porta all’unità di peso di merce considerata; è però facile estendere l’analisi comprendendo anche la quantità e la composizione sia delle materie che si “acquistano” dalla natura senza pagare alcun prezzo monetario, sia dei sottoprodotti che non vengono “venduti” per denaro a nessuno e che vengono reimmessi senza alcuna spesa nell’ambiente.
Estendendo correttamente il concetto di “merce” a tutto quello che viene scambiato, indipendentemente dal fatto che sia scambiato con l’intermediazione del denaro, si può ben dire che la merceologia si può (si deve) occupare anche degli scambi di “merci” o beni fisici non associati allo scambio di denaro e può redigere una contabilità fisica, naturale, di tali scambi e pertanto della circolazione complessiva della materia e dell’energia dalla natura, ai processi di produzione e di consumo, fino al loro ritorno nella natura sotto forma di merci usate, residui, scorie, rifiuti: della circolazione, cioè, natura-merci-natura.
Ad esempio nella fabbricazione dell’acciaio occorre certamente del minerale di ferro, del carbone o del petrolio, e del calcare; quattro merci che il produttore acquista in cambio di denaro. Ma il funzionamento dell’altoforno (l’impianto che trasforma il ferro del minerale nella ghisa) e il funzionamento del “convertitore” (il dispositivo che trasforma la ghisa in acciaio) sono possibili soltanto se l’impianto “acquista” anche, pur non pagando per esso alcun prezzo, l’ossigeno dall’aria atmosferica. Nel corso del processo inoltre si formano sottoprodotti e scorie solide, liquide e gassose che vengono immesse nell’ambiente circostante peggiorandone la qualità.
Più in generale, le scorie e i rifiuti di ogni attività di produzione e di consumo sono sostanze costituite di materia e potenzialmente portatrici anche di energia. Esse possono essere vere “merci negative” in quanto fonti di alterazione dei corpi riceventi naturali in cui vengono gettate, fonti, cioè, di inquinamento. Oppure una parte delle scorie e dei rifiuti può essere ricuperata e può diventare “materia seconda” con cui fabbricare nuove merci, uguali o praticamente uguali a quelle che si ottengono con le “materie prime” tradizionali.
Non a caso ormai nel parlare comune – e anche in alcune disposizioni legislative – si parla di qualità o di composizione “merceologica” dei rifiuti. I processi di riciclo, cioè di trasformazione della carta usata in carta nuova, del vetro usato o degli imballaggi di ferro o di alluminio in nuova carta, vetro, ferro, alluminio, sono dei veri processi produttivi come quelli che partono dal legno o dalla sabbia o dai minerali.
Ma, ripeto ancora una volta, nessuna “valutazione”, cioè espressione del “valore”, di una merce o di un processo può essere fatta senza una adeguata conoscenza degli aspetti chimici delle materie, tutte, sia dotate sia prive di valore monetario, ma tutte dotate di valore fisico, materiale.
La merceologia ha un ruolo importante anche nell’informazione e nell’educazione dei consumatori. Nelle abitazioni e nella vita quotidiana entrano innumerevoli merci, ciascuna con un nome e con caratteristiche stabilite da leggi; tali leggi, da alcuni anni a questa parte, sono in genere uguali per tutti i paesi dell’Unione europea.
Col crescere del mondo delle merci diventa sempre più difficile per il commerciante conoscere che cosa vende; a maggior ragione per il consumatore non specializzato diventa sempre più difficile capire e “leggere” le etichette degli oggetti che trova nei negozi. In un certo senso si può dire che le merci “parlano”, con le loro etichette, ma che il consumatore fa sempre più fatica a comprendere il messaggio che riceve.
Da qui l’importanza di una informazione ed educazione merceologica dei consumatori, che sono poi tutta la popolazione di un paese. Con la riforma del 1977 nella scuola secondaria inferiore è stato introdotto l’insegnamento di “Educazione tecnica”, triennale obbligatorio, che prevedeva nei suoi programmi una vasta parte di informazioni sugli oggetti e sulle merci con cui lo studente viene e verrà a contatto. Tale educazione avrebbe dovuto aiutare i cittadini a comprendere meglio e a distinguere fra i numerosi messaggi pubblicitari che lo raggiungono attraverso i grandi mezzi di comunicazione.
Sfortunatamente, benché un numero crescenti di riviste a larga tiratura e anche di enciclopedie popolari si occupino di problemi di alimentazione, tessuti, detersivi, cosmetici, eccetera, manca una rivista dedicata proprio alla divulgazione nel campo merceologico (la “Rivista di merceologia” ha carattere scientifico e limitata tiratura) e manca una “enciclopedia merceologica” (se si eccettua un rifacimento, molto tecnico, pubblicato da Hoepli in 7 volumi, apparsi negli anni 1971-1977, del “Dizionario di merceologia”, di V. Villavecchia, la cui quinta e ultima edizione risale agli anni trenta del Novecento).
Da qualche anno a questa parte si è anche sviluppato un filone di interesse per gli aspetti più sociali delle operazioni di produzione e di uso delle merci; in qualche Università sono stati istituiti degli insegnamenti di “Tecnologia sociale” (un termine usato anche con un secondo significato, completamente diverso, di uso di strumenti tecnici nell’indagine sociologica). Nell’ambito degli studi merceologici il termine “Tecnologia sociale” è stato usato nel senso indicato nel 1934 da Lewis Mumford (1895-1990) nel libro: “Tecnica e cultura”, cioè come studio degli effetti sociali dei processi di produzione e consumo delle merci e delle relative innovazioni, ma poi anche questo termine è stato abbandonato nelle Università italiane.
Rientra in questa linea l’esame degli effetti ambientali, già ricordati, dell’irrazionale smaltimento dei rifiuti, degli effetti del pericolo di esaurimento delle riserve di risorse naturali (petrolio, carbone, acqua, foreste, animali), rinnovabili o non rinnovabili, in seguito all’eccessiva produzione delle merci, dei rapporti fra disponibilità di alimenti e popolazione, eccetera.
La merceologia, quando è stata insegnata e studiata soprattutto nelle Scuole secondarie e nelle Facoltà di carattere economico e commerciale, è strettamente legata a, e fornisce la base per, altre discipline come la geografia economica e la stessa storia economica, la tecnica commerciale e industriale e delle ricerche di mercato, la chimica analitica applicata, la chimica industriale e anche certi campi delle scienze ingegneristiche. Benché ormai praticamente espulsa dalle scuole secondarie superiori e in via di estinzione anche nelle Università, la scienza merceologica avrebbe ancora molte cose da studiare e da insegnare.
I problemi dell’energia presuppongono la descrizione e la valutazione sperimentale dei caratteri dei principali combustibili fossili come carbone, petrolio, gas naturale, e dei loro derivati. Questa parte comprende i processi di estrazione, di trasporto e i relativi problemi ambientali, e la destinazione dei vari prodotti nei diversi settori dell’attività umana: energia per l’industria e per la siderurgia, settore dei trasporti, produzione di elettricità, riscaldamento urbano e effetti ambientali dei diversi settori.
Le fonti di energia fossili sono scarse e non rinnovabili, come mostra l’esame delle loro riserve note. È sempre più importante usarle razionalmente e ricorrere alle fonti di energia rinnovabili, come l’energia solare, quella del vento e del moto ondoso, l’energia potenziale delle acque in movimento. Le merci derivate sono il calore a bassa temperatura ottenuto dal Sole o l’energia meccanica e elettrica ottenuta da macchine idrauliche o da impianti fotovoltaici. Fra le fonti di energia va inclusa l’energia nucleare e il dibattito sui suoi limiti merceologici.
Nello studio merceologico dei metalli e dei loro cicli produttivi, a fianco dei metalli principali come ferro, alluminio, rame, eccetera, assumono crescente importanza i metalli che assolvono funzioni speciali con le nuove tecniche, dal germanio e al silicio usati nei semiconduttori, al titanio e alle terre rare, ai metalli preziosi – oro, argento, platino, palladio, rodio – i cui usi tecnici, soprattutto nell’industria elettrica ed elettronica e nei catalizzatori, superano come quantità gli usi negli ornamenti.
I materiali da costruzione tradizionali comprendono calce, cemento, ceramiche, ma anche nuovi materiali come manufatti di fibrocemento, materiali isolanti. Il solo problema delle ceramiche coinvolge delicati problemi di qualità, di commercio internazionale e di inquinamento.
Un importante capitolo degli studi merceologici riguarda l’industria chimica, di cui cambiano rapidamente le materie prime, i prodotti intermedi e quelli finali. Da poche materie di base – petrolio, gas naturale, azoto dell’aria, zolfo, calcare – vengono fabbricate le numerose importanti merci dell’industria chimica “primaria”, successivamente trasformati in intermedi dalla “chimica secondaria” fino ai prodotti che arrivano nelle nostre case come fibre artificiali e sintetiche, detersivi, cosmetici, arredi domestici, mobili, imballaggi, eccetera.
Mentre i precedenti argomenti riguardano merci ottenute dallo “sfruttamento” di risorse naturali non rinnovabili, minerali e rocce e materiali fossili le cui riserve sono più o meno vaste, un grande capitolo della ricerca merceologica riguarda le merci ottenute dalla trasformazione delle materie del regno vegetale e animale, cioè basate su materie rinnovabili dipendenti dal ciclo naturale del carbonio.
Fra i vegetali un posto primario occupano i cereali di cui la merceologia studia e analizza i caratteri, la provenienza, i derivati destinati all’alimentazione, umana e degli animali da allevamento, ma anche ad usi industriali, rivolgendo la propria attenzione anche alle disuguaglianze nella disponibilità di alimenti nelle varie parti del mondo.
I prodotti forestali alimentano un importante commercio internazionale e le industrie della carta, dei pannelli e dei mobili; i danni dell’eccessivo sfruttamento delle risorse forestali, che si rinnovano soltanto lentamente, possono essere ridotti con la produzione di carta nuova dalla carta straccia o ricorrendo a materiali cellulosici a rapida crescita.
Nell’analisi dei prodotti di origine vegetale rientrano importanti casi di materie industriali “naturali” per esempio le fibre tessili e la gomma, che subiscono la concorrenza dei corrispondenti prodotti sintetici. L’evoluzione di tale concorrenza appare meglio se si esaminano comparativamente le somiglianze e le diversità dei caratteri merceologici dei prodotti naturali e sintetici.
I prodotti alimentari vegetali stanno alla base, a loro volta, della “produzione” di alimenti di origine animale; l’allevamento del bestiame presuppone la disponibilità di pascoli o di mangimi e fornisce alimenti carnei, ma anche prodotti industriali, come i pellami (la materia prima per l’industria del cuoio, delle pelli, delle scarpe, ecc.) e vari sottoprodotti della macellazione.
Infine un importante capitolo riguarda la “merce” acqua, considerata generalmente un bene disponibile in quantità illimitata, ma che si rivela, in molte zone, scarsa, soprattutto se ci si riferisce alla disponibilità di acqua potabile di buona qualità igienica e “merceologica”. L’acqua dissalata, ormai prodotta su larga scala nel mondo, è una vera e propria merce “fabbricata” dal mare con processi che consentono di eliminare i sali e di ricuperare acqua dolce.
L’integrazione economica europea impone che le merci prodotte in un paese possano liberamente essere vendute negli altri paesi dell’Unione Europea, per cui sono sempre più numerose le leggi e le norme che stabiliscono o modificano la qualità, i caratteri, i limiti analitici delle merci. Le conoscenze merceologiche sono quindi ancora più indispensabili nelle operazioni commerciali, in tempi in cui, ironicamente, la disciplina sta scomparendo dai corsi di insegnamento.
Un campo di crescente interesse riguarda, infine, la storia delle merci e dei processi tecnici di produzione; se ne possono trarre molte utili indicazioni per evitare errori nelle scelte merceologiche.
La risoluzione di molti problemi – caratterizzazione commerciale, lotta alle frodi, eccetera – relativi ai settori sopra elencati richiede anche ricerche sperimentali sulle merci basate sull’uso di metodi chimici e fisici di indagine. È difficile pensare che un laboratorio di ricerca e indagine merceologica sia in grado di risolvere qualsiasi problema analitico, per cui in genere si hanno laboratori universitari di merceologia, ciascuno specializzato in particolari settori. Laboratori merceologici di ricerca sperimentale o di controllo esistono, con varie denominazioni, nella pubblica amministrazione, in molte industrie e in grandi imprese di distribuzione commerciale.
Nell’ambito della pubblica amministrazione la ricerca e i controlli merceologici sono condotti nei laboratori del Ministero della sanità (o come oggi si chiama), o delle strutture sanitarie pubbliche per le merci (alimenti, cosmetici, ecc.) il cui uso può arrecare danno alla salute; del Ministero dell’agricoltura (o come oggi si chiama), per la repressione delle frodi su prodotti agricoli, concimi, sementi, ecc.; del Ministero dell’industria (o come oggi si chiama) per i controlli su fibre tessili, carta, metalli, ecc.; dal Ministero delle finanze (o come oggi si chiama) per i controlli sulle merci oggetti di esportazione e importazione o soggette a imposte.
Finora ho parlato della merceologia e di vari suoi guai, dell’incomprensione pubblica verso questa disciplina e di come ha bisogno, per svolgere bene il suo lavoro, del sostegno e degli strumenti della chimica. Ma anche la chimica, nell’università e soprattutto nell’opinione pubblica, ha anche lei i suoi guai. Parlare di chimica è come presentare in società una sorella dai passati burrascosi. “Chimica” è parola sgradevole per molti orecchi, soprattutto poco informati, per vari motivi apparentemente contrastanti.
Il primo è rappresentato dal modo in cui i grandi mezzi di informazione parlano di cose nelle quali la chimica è coinvolta; non ci mancavano altro che gli attentati con “armi chimiche”, in aggiunta agli incidenti “chimici”, all’uso sconsiderato della “chimica” in agricoltura, eccetera, per enfatizzare qualsiasi cosa sgradevole associandola all’aggettivo “chimico”. Non c’è dubbio che incidenti industriali, intossicazione di lavoratori nelle fabbriche, inquinamenti dell’ambiente hanno luogo spesso in fabbriche chimiche o che trattano prodotti chimici e ad opera di sostanze chimiche. Non c’è dubbio che molte fabbriche producono sostanze chimiche pericolose, talvolta inutili, talvolta oscene come gli agenti di guerra, dai gas asfissianti a quelli lacrimogeni e paralizzanti.
Non c’è dubbio che la scoperta di frodi, di sostanze tossiche anche nelle acque e nei cibi, di erbicidi nei pozzi sono la conseguenza di un uso improprio e violento di sostanze chimiche e che giustamente un vasto movimento popolare chiede più severe regolamentazioni nella produzione, nella circolazione e nell’uso di prodotti chimici industriali e commerciali.
Il secondo motivo della dubbia fama della chimica sta nella maniera in cui la corporazione dei produttori chimici reagisce alle critiche di quelli che sono sbrigativamente liquidati come “ecologisti” o “verdi”. La risposta messa in circolazione attraverso male orchestrate campagne di stampa è melensa e poco convincente e suscita una reazione di rigetto nell’opinione pubblica. Non basta mobilitare grandi compagnie di pubblicità e pubbliche relazioni per essere credibili e convincenti quando si presenta l’immagine che la chimica è per definizione buona e benefica per l’umanità e che pertanto i fabbricanti di prodotti chimici devono essere apprezzati e lodati come coloro che diffondono il bene insito nella chimica.
Anche qui l’eccesso di zelo degli apologeti cade spesso nel ridicolo. Non c’è dubbio che le sostanze presenti nel sangue sono costituite da molecole chimiche – e che altro dovrebbero essere ? – e che il cibo necessario per la sopravvivenza, i farmaci che salvano la vita dei malati, i coloranti che abbelliscono i tessuti, i cosmetici che rendono gradevole e pulito l’aspetto, sono fatti di sostanze chimiche. Non c’è dubbio che sono chimiche – anche se in genere maneggiate da non-chimici – le analisi che consentono di riconoscere le malattie.
Ma è altrettanto vero che la storia degli anni recenti è piena di episodi di danni alla salute e all’ambiente provocati da industrie e sostanze chimiche non perché tali sostanze sono “chimiche” ma perché sono stati imprudenti e incapaci i produttori, i trasportatori, gli utilizzatori. E non giovano né alla “chimica”, né agli imprenditori le difese di ufficio fatte da volonterosi “scienziati” e accademici i quali ridicolizzano i critici e la loro ignoranza. Tali difese hanno il sapore di cose già ascoltate: anche gli industriali inglesi del 1800 rispondevano alla contestazione di coloro che volevano che fossero migliorate le condizioni di lavoro nelle fabbriche, mobilitando “gli scienziati”.
È rimasto celebre il dottor Andrew Ure (1778-1857), chimico e merceologo, che, pieno di zelo, ha scritto un intero libro, “La filosofia delle manifatture” (una traduzione parziale in italiano è stata pubblicata nella “Biblioteca dell’economista”, seconda serie, volume 3, dall’Unione Tipografico-editrice di Torino nel 1863), per dimostrare come il lavoro nelle filande e nelle miniere fosse giovevole alla salute dei fanciulli, tolti dalla strada e dai suoi vizi.
Il terzo motivo, legato ai due precedenti, del poco buon nome della chimica nell’immaginario popolare, sta nella diffusa ignoranza della chimica. Persone colte e intelligenti, che sanno parlare con competenza di letteratura e musica e arte, “intellettuali”, come si suol dire, si azzardano, forti della loro ignoranza chimica, ad esprimere giudizi spesso insensati sui guasti e sui vizi della “chimica”.
Non c’è dubbio che la chimica si insegna poco e spesso male nelle scuole secondarie superiori – dove pure circa 400 mila studenti ogni anno sono “costretti” a seguire un qualche corso di chimica – sulla base di testi che talvolta (spesso) sono modesti e noiosi. Quel poco di nozioni appiccicate alla mente, talvolta senza andare al di là di poche frasi fatte, ripetute come litanie, sono il terreno ideale per fare nascere idee distorte e luoghi comuni e vere sciocchezze.
Ancora peggiore è la situazione dopo la riforma della scuola superiore del 1996, con la chimica, come si è prima accennato, privata perfino del suo nome e inclusa nella “Scienza della materia”.
Non c’è perciò da meravigliarsi se i giornalisti, i parlamentari, gli amministratori, spesso persone colte e attente, straparlano quando si tratta di esprimere dei giudizi sulla chimica, sull’effetto serra, sulle marmitte catalitiche, sulle virtù di cosmetici o sui danni dell’ozono (poco conta se troposferico o stratosferico).
Si aggiunga che la situazione è scoraggiante benché in Italia esistono decine di migliaia di laureati in chimica, centinaia di professori universitari di discipline chimiche: la loro voce si sente troppo poco e quasi niente, come se ci fosse un pudore nell’intervenire e nel parlare della loro scienza. Una volta Linus Pauling (1901-1994, premio Nobel per la chimica e poi premio Nobel per la pace) scrisse che bisogna invece imparare a parlare a qualcuno che non siano le proprie provette. La stessa massima società italiana dei chimici, la Società Chimica Italiana, con poche migliaia di soci, per lo più membri del mondo accademico, con prestigiose riviste, peraltro a limitatissima circolazione, per l’opinione pubblica è sconosciuta, come se non esistesse.
A differenza di altre società chimiche nazionali e in particolare di quella americana, la American Chemical Society, che pubblica un settimanale, il notissimo Chemical and Engineering News, che “tira” oltre un milione di copie (la metà della tiratura, da primato, di Famiglia Cristiana), che mobilita i suoi soci perché parlino nelle televisioni locali, che organizza giornate nazionali della chimica, Olimpiadi della chimica, che induce il governo a stampare francobolli commemorativi della chimica e dei chimici, eccetera.
Questo stato di cose fa sì che in Italia esistano pochissime riviste di chimica, con limitata circolazione, nessuna a carattere veramente divulgativo e popolare, che siano soltanto pochi o pochissimi i libri divulgativi di chimica, le cui conoscenze per il grande pubblico sono affidate al breve incontro, al liceo, con i testi di scuola.
Mi vengono in mente le “Lettere sulla chimica” che Liebig (1803-1873) pubblicava a puntate sull’Augsburger Allgemeine Zeitung e che raggiunsero, nel corso degli anni, il numero di cinquanta, raccolte in vari volumi, tradotte in tutte le lingue e anche in italiano, a mano a mano che apparivano in tedesco, e che ebbero un grandissimo successo popolare. Non sarà male ricordare che il 200° anniversario della nascita di Liebig è stato proclamato in Germania “Jahr der Chemie”, mentre l’importante evento è passato praticamente inosservato in Italia.
A proposito della divulgazione della chimica raccomando la lettura del recente libro, “Communicating chemistry. History of textbooks in Europe between 1789 and 1930”, di Bernadette Bensaude-Vincent, e Anders Lundgren, Cambridge, 1999.
Proprio come non esiste in Italia un buon dizionario di merceologia, in Italia non c’è neanche un buon dizionario o una buona enciclopedia popolare di chimica. È abbastanza naturale che perfino i traduttori degli articoli di giornali stranieri storpino i nomi chimici, con silicio che diventa silicone e viceversa, iodio che diventa iodino, carboidrati che diventano idrocarburi, anidride carbonica che diventa ossido di carbonio, e così via.
Eppure mai come in questo momento una cultura chimica è essenziale per difendere la salute dei cittadini e anche per ridare fiato ad un asfittico settore industriale. Mai come in questo momento i problemi chimici sono centrali per l’economia e per il progresso. Basta leggere la Gazzetta ufficiale delle Comunità europee o quella della Repubblica italiana per vedere che sempre più spesso ci sono interi fascicoli, dei veri volumetti, pieni di informazioni chimiche, di formule, di sinonimi, di proposte di unificazione, pieni di metodi di analisi standardizzati per riconoscere la purezza delle sostanze, per sconfiggere le frodi, per svelare gli inquinamenti. La sigla CAS del Chemical Abstracts Service è usata anche nei testi di legge dove accompagna ormai il numero, la sigla e il nome delle sostanze che entrano nei medicinali, nei cosmetici, nei pesticidi, eccetera, cioè nella produzione, nel commercio e nell’uso delle merci.
Mai come in questo momento la sopravvivenza civile dei paesi industriali dipende dal potenziamento dei servizi pubblici di controllo dei prodotti e dell’ambiente, servizi che richiedono metodi chimici di indagine praticati da chimici. Con tutto il parlare che si fa di unità europea, bisogna renderci conto che potremo essere veramente europei soltanto se dimostreremo di avere strutture pubbliche e imprese private avanzate e moderne e in tale progresso un ruolo determinante ha la chimica e hanno i chimici, proprio come ha la merceologia e hanno i merceologi.
Proprio in questo momento ci sarebbe bisogno di laureati in chimica preparati, orgogliosi della loro cultura e della loro competenza e capacità, consci del ruolo che possono avere nella collettività civile, così come proprio in questo momenti sarebbero necessari dei buoni conoscitori e insegnanti dei processi di uso delle risorse naturali e di produzione delle merci
Con tutto il rispetto per le altre scienze della natura e sperimentali, la chimica è forse l’unica che offre la saldatura fra le leggi fondamentali della materia e l’applicazione di tali leggi alla vita quotidiana, dal metabolismo del cibo alla bellezza dei colori delle ali delle farfalle o dei petali dei fiori, ai grandi flussi di materia che stanno alla base dell’economia.
La chimica è infatti la scienza della contabilità della natura. Il bilancio delle reazioni chimiche è un bilancio “economico”: esso, per definizione, deve essere in pareggio, tutto quello che c’è a sinistra di una formula si deve ritrovare a destra: la materia si deve sempre ritrovare tutta. E qui troviamo subito la diversità fra la contabilità della natura e quella “economica monetaria”. Anche gli economisti dei soldi fanno della contabilità: i soldi spesi devono essere uguali a quelli guadagnati. Ma le “cose” materiali che sono descritte con gli scambi monetari sono soltanto una piccola parte di quelle che interessano la vita reale.
Nel bilancio di una fabbrica, per esempio, la contabilità monetaria tiene conto soltanto delle materie che si comprano e si vendono. Se pensiamo ad una fabbrica di acciaio contano il minerale di ferro e il carbone, che si ottengono in cambio di soldi, ma nella contabilità monetaria non figura l’ossigeno che si ottiene gratis nell’aria che serve per bruciare parzialmente il carbone trasformandolo in ossido di carbonio che riduce gli ossidi di ferro in ferro e ghisa. La ghisa e l’acciaio e l’energia entrano nella contabilità economica perché si comprano e si vendono, ma nella reazione si formano – una cosa ovvia e banale per un chimico – polveri e anidride carbonica e ossido di carbonio e scorie che non figurano nella contabilità economica perché vengono gettati nell’atmosfera o in una discarica. Salvo accorgersi un giorno che le popolazioni protestano per i fumi che sono “cose” materiali e di cui bisogna misurare quantità e composizione chimica, e che bisogna filtrare e abbattere o raccogliere per non inquinare l’aria o il suolo.
La contestazione ecologica è nata proprio dall’attenzione prestata agli effetti negativi di tutte le cose che la chimica conosce da sempre – quelle che si trovano a sinistra e a destra di ciascuna formula – ma che l’economia tradizionale e la pratica dell’operare hanno a lungo ignorato. Da qui l’importanza e la grande attualità del valore educativo della contabilità chimica.
Un minimo di attenzione chimica può suggerire a coloro – tutta l’intera popolazione – che utilizza la cucina, il lavandino, il secchiaio o il gabinetto – veri laboratori chimici – che tutta la massa dei materiali trattati, compresa l’aria che “si compra” gratis dall’atmosfera, si ritrova poco dopo nell’aria come gas, che i residui di cibo, le soluzioni saponose, gli escrementi che escono dalla nostra vita quotidiana non scompaiono ma vanno a finire nelle fogne e poi nei depuratori e nei fiumi e nel mare. La contabilità e l’ecologia dell’ecosistema domestico, sono altrettanto importanti come l’ecologia della fabbrica o della città.
Della buona chimica è indispensabile per fare delle buone leggi contro l’inquinamento e delle buone e sensate azioni per il riciclo dei materiali presenti nei rifiuti, per avviare indagini di bonifica dei territori contaminati da attività produttive precedenti. È anzi questo un campo in cui si saldano interessi di natura geografica e storica; quali processi si sono svolti nelle fabbriche che occupavano un territorio ? quali materie – tutte chimiche – venivano trattate e trasformate ? quali scorie venivano prodotte ? dove sono finite e come è possibile toglierle dai loro depositi o diminuirne le nocività ?
Buona chimica è necessaria per progettare prodotti e materiali e manufatti in vista del loro intero ciclo vitale che comprende, ripeto, materie dotate di valore monetario e materie che finiscono nei corpi riceventi della natura, rigettate senza alcuna spesa monetaria, ma con elevati costi sociali e sanitari e ambientali .
Buona chimica – e adeguati e buoni controlli chimici – sono necessari per le procedure per l’assegnazione di eco-etichette con analisi che vengono indicate “dalla-culla-alla-tomba”; altrimenti delle procedure che dovrebbero difendere i consumatori e l’ambiente si trasformano in pure operazioni pubblicitarie. E quanta chimica sarebbe necessaria per verificare le, e informare i cittadini sulle, tanto dichiarate affermazioni di virtù ecologiche di tante merci che entrano nel mercato con grandi richiami pubblicitari.
A questo proposito una società moderna avrebbe tutto l’interesse a potenziare, anzi a resuscitare, quelle strutture che erano i laboratori chimici “di igiene e profilassi”, che nelle intenzioni dei legislatori di cento anni fa furono creati riconoscendo che la prevenzione delle malattie sarebbe stata possibile soltanto attraverso le analisi chimiche degli alimenti, del cibo, delle acqua, dei prodotti usati in agricoltura, e poi, dagli anni cinquanta in avanti, attraverso un controllo chimico delle condizioni di lavoro, dell’inquinamento atmosferico, dello smaltimento dei rifiuti. Non a caso la direzione del primo laboratorio di igiene e profilassi francese fu affidata al chimico Pasteur (1822-1895).
La polverizzazione delle competenze nel settore sanitario e della lotta alle frodi alimentari, nel settore dei controlli ambientali, e di quelli in campo agricolo e delle stesse dogane, da cui tanti chimici sono poi passati sulle cattedre universitarie di merceologia, ha impoverito la capacità di indagine, di controllo e di analisi delle uniche strutture che possono davvero prevenire le malattie. Proprio quando l’unificazione, il coordinamento e il potenziamento della parte chimica avrebbero potuto rappresentare la vera soluzione.
Sorprende (o non dovrebbe sorprendere ?) che il mondo politico, economico e lo stesso mondo imprenditoriale prestino così poca attenzione agli strumenti conoscitivi chimici che sono essenziali per un genuino sviluppo economico.
La conoscenza chimica consente la spiegazione di come sono fatti e come possono essere prodotti le cose, gli oggetti, i materiali presenti in natura e nella vita quotidiana. La chimica è nata con l’obiettivo di spiegare e descrivere fenomeni naturali e, nello stesso tempo, di risolvere problemi pratici: la sbianca e la tintura dei tessuti, la conservazione dei cibi, la concia delle pelli, la fermentazione del pane. La ricerca scientifica chimica è stata originata e ha avuto i suoi massimi successi in relazione a problemi “pratici”: dal premio Nobel a Fritz Haber (1868-1914) per la scoperta delle condizioni che consentono la sintesi dell’ammoniaca, al premio Nobel a Giulio Natta (1903-1979) per le scoperte che hanno permesso di sintetizzare il polipropilene.
Mi viene ancora in mente il chimico Liebig che, nel suo laboratorio di Giessen, insieme agli esperimenti di analisi chimica, prestava attenzione ai problemi sociali della prima rivoluzione industriale, a come alleviare la scarsità di alimenti che colpiva le masse di proletari affamati d’Europa, che si occupò di aumentare le rese agricole, che stimolò l’utilizzazione del nitro del Cile come fonte di azoto e dell’acido solforico per rendere solubili i fosfati naturali, che spiegò al pubblico l’importanza della carne e che, per superare le difficoltà del trasporto della carne dai pascoli del sud America all’Europa con le lente navi a vela senza frigoriferi, “inventò” l’estratto di carne e stimolò la costruzione della fabbrica di Fray Bentos in Uruguay, contribuendo ad avviare l’industrializzazione del paese sudamericano. Quel Liebig che, a riprova dello stretto rapporto fra chimica e merceologia e economia, nella celebre “undicesima lettera” scrisse, sia pure con un po’ di ingenuità, che il consumo di acido solforico è un indice dello sviluppo economico di un paese e il consumo di sapone è un indice della sua civiltà.
Benché la chimica aiuti a capire e spiegare tanti aspetti fondamentali della vita – perché certe merci inquinano, quale è la composizione dei rifiuti – si ha l’impressione che la chimica della cucina e del gabinetto abbiano poco spazio e dignità nell’insegnamento chimico. I merceologi, per esempio, che sono i chimici che si occupano di questi aspetti volgari della chimica, sono in genere considerati chimici di seconda classe.
Una migliore cultura chimica aiuterebbe anche molte altre attività e discipline. Si pensi, per esempio, al vuoto culturale esistente in Italia nel campo della storia della chimica, della storia della farmacia, della storia della merceologia, e lo si confronti col fatto che lo storico di professione, o l’archeologo sempre più hanno a che fare con problemi chimici che affrontano talvolta male, superficialmente, talvolta balbettando cose inesatte, con una crescente difficoltà di incontro con i professionisti che sanno di chimica.
Probabilmente una intelligente spiegazione dell’importanza degli aspetti “pratici” della chimica aiuterebbe il pubblico a riconoscere in essa non solo una scienza vicina alla vita quotidiana, ma anzi la scienza prima della vita e delle cose che ci circondano.
C’è un altro aspetto meno noto della chimica. All’opinione pubblica, ma anche agli studenti medi, la chimica appare una scienza consolidata, piena di certezze; se qualcosa di nuovo appare all’orizzonte lo si deve cercare nei favolosi orizzonti delle biotecnologie o dei materiali avanzati, come si suol dire. Una impressione sbagliata: il mondo che ci circonda è ancora pieno di misteri chimici, anche nei campi più banali. Si parla, per esempio, di amido, di lignina e di cellulosa, le pietre fondamentali del mondo vegetale. La cellulosa attrae l’attenzione come ingrediente della carta, l’amido come ingrediente del pane e della pasta e, più recentemente, della finta “plastica” biodegradabile. E invece siamo di fronte ad un campo pieno di misteri. Ogni vegetale contiene amido, lignina, cellulosa, con caratteri differenti da altri; la composizione di queste macromolecole ha carattere statistico per cui si deve parlare al plurale di amidi, cellulose, eccetera.
Con un poco di attenzione e di curiosità si scopre, per esempio, che i diversi cereali hanno amidi di diverse qualità, tanto è vero che con alcuni (il grano) si riesce a fare il pane e con altri (come il mais) no. La stessa caratterizzazione dei cereali e dei relativi sfarinati sulla base dell’amido, delle proteine, dei grassi e delle ceneri è una grossolana approssimazione. Si intuisce, ma se ne sa ben poco, che amido, proteine e grassi sono uniti fra loro in “complessi” grassi-proteine, amido-grassi, amido-proteine; la loro esistenza potrebbe spiegare il fatto che il grano duro ha caratteri diversi dal grano tenero, benché all’analisi chimica grossolana i principali componenti siano in quantità quasi uguali. Fra i misteri chimici del pane c’è il fenomeno del rinvenimento, per cui nel pane raffermo, “vecchio” di due o tre giorni, riscaldato, la mollica ritorna elastica come nel pane appena sfornato, anche se questo carattere scompare dopo poche ore.
Una migliore cultura chimica permetterebbe di chiarire alcuni “grandi” misteri, come il buco dell’ozono stratosferico o l’effetto serra dovuto alle modificazioni chimiche dell’atmosfera, ma permetterebbe anche di capire e di conoscere meglio tantissime altre cose, negli alimenti, nei cosmetici, nelle tinture e nei preparati per ondulare i capelli, nelle precauzioni da prendere quando si deve lavare e stirare, nei meccanismi – chimici – con cui funzionano le fotocelle solari o le macchine per trasmissione in facsimile, più note come “fax”, o i “cuori” dei computers e dei telefoni cellulari, tutti oggetti che stanno alla base di produzioni e di consumi di massa. Se se ne sapesse di più, forse molti pericoli e inconvenienti ed errori sarebbero evitati.
Un altro importante aspetto del valore educativo della chimica sta nell’abitudine a pensare a tre dimensioni. Tutte le cose sono a tre dimensioni, ma noi siamo abituati a disegnarle su un foglio, su un piano. La conoscenza chimica offre continuamente l’occasione per aiutare a immaginare, a pensare e a “vedere” i corpi nello spazio. La molecola dell’acqua acca-due-o, H-O-H, deve tutte le sue stranezze, fondamentali per la vita, proprio al fatto che ciascuna molecola si lega nello spazio non solo alle altre molecole di acqua, ma a tutti i corpi a cui si avvicina e con cui viene a contatto.
La chimica del carbonio deve la sua bellezza e il suo fascino proprio al carattere tridimensionale degli atomi e delle molecole e, anche se ce ne siamo dimenticati, la scoperta di tale carattere fu una vera rivoluzione culturale. Purtroppo non possiamo fare a meno, per ragioni pratiche, di scrivere le formule su un piano, ma forse questo stesso limite è un’occasione per ricordare continuamente che le molecole sono sempre tante, tutte insieme e distribuite in tutte le direzioni.
Alla fine degli anni quaranta del secolo scorso il chimico americano Linus Pauling ebbe, come sopra ricordato, il premio Nobel per aver “pensato” che le molecole delle proteine fossero disposte ad elica, come si vide sperimentalmente meglio in seguito. Questa intuizione da sola permise di risolvere tutti i misteri del comportamento delle proteine, pietre costitutive fondamentali della vita. Una decina di anni dopo Watson e Crickett ottennero il premio Nobel per aver scoperto la struttura del DNA, una catena di molecole di zucchero, di acido fosforico e di alcune “basi” (adenina, timina, guanina, e citosina), disposte in “doppia elica” nello spazio. La disposizione spaziale delle migliaia di atomi di ciascuna molecola di DNA ha consentito di spiegare il funzionamento di queste molecole fondamentali per la “fabbricazione” di ciascuna proteina, sempre uguale, specifica per ciascuna parte di ciascun essere vivente. Una intuizione tridimensionale ha insomma risolto problemi di conoscenza fondamentale della vita.
Penso che si potrebbe, volendo, davvero dare della chimica una immagine gioiosa e avventurosa, una immagine anche di bellezza, e con essa una visione più coraggiosa della vita; si renderebbe un servizio alla società, all’economia, e all’ecologia – e alla stessa “chimica”, presentabile senza vergogna nella buona società.
Un esame dei cammini culturali della merceologia e della chimica mi pare che offra una risposta alla domanda iniziale: più che stizzose cugine esse sono davvero due sorelle, anzi sono quelle che, in casa degli scienziati e degli amministratori delle cose sociali e in casa degli scienziati e degli amministratori delle cose naturali, spiegano, sia pure con parole diverse, le stesse cose, il modo in cui la natura riesce, con i suoi beni fisici, a soddisfare bisogni umani, che sono poi le uniche cose che contano.
 
 
 
Note
 
 
Per una storia della merceologia cfr.: O. De Marco, “200 anni di Merceologia: passato, presente, futuro”, Rassegna Chimica, 45, (5/6), 135-142 (settembre-dicembre 1993)
 
La storia dell’insegnamento della merceologia nell’Università di Bari è trattata da G. Nebbia, “Merceologia”, in: A. Di Vittorio (a cura di), “Cento anni di studi nella Facoltà di Economia e Commercio di Bari (1886-1986)”, Bari, Cacucci Editore, 1987, p. 145-154……
 
Per la citazione della merceologia nel “Capitale” di Marx si può vedere:G. Nebbia, “La merceologia e un curioso problema filologico”, Quaderni di Merceologia (Bologna), 4, (2), 23-39 (luglio-dicembre 1965)
 
I due libri del prof. Walter Ciusa (1906-1990) “I cicli produttivi e le industrie chimiche  fondamentali”, Bologna, Zuffi, 1948; e “Aspetti tecnici ed economici di alcuni cicli produttivi”, Bologna, Zuffi, 1954, ormai rarissimi, contengono la base teorica e culturale della svolta moderna della Merceologia.
 
L’unico libro straniero che più si avvicina ai problemi della Merceologia è: E.W. Zimmermann (1888-1961), “World resources and industries. A functional appraisal of the availability of agricultural and industrial materials”, Revised edition, New York, Harper & Bros, 1951
 
La “Rivista di Merceologia”, vol. 1, 1962 (dal 1962 al 1977 apparsa col titolo “Quaderni di Merceologia”), tratta argomenti scientifici della disciplina. Pubblicata dagli Istituti di Merceologia delle Università, prima di Bari, poi di Bologna, dal 1989 è pubblicata dall’Istituto di Merceologia dell’Università di Pescara; dal 1996 col titolo “Journal of Commodity Science”, vol. 49, 2010
 
L’unico grande dizionario-enciclopedia di merceologia è dovuto a Vittorio Villavecchia, “Dizionario di merceologia”, Milano, Heopli, prima edizione, 1895, in un solo volume; seconda edizione, 1908; terza edizione: I volume, 1911, II volume, 1913; quarta edizione in quattro volumi, 1923-1926; quinta e ultima edizione in 4 volumi, 1929-1932. Una edizione successiva, molto meno soddisfacente, è stata curata da Gino Eigenmann e Ivo Ubaldini, “Villavecchia-Eigenmann. Nuovo dizionario di merceologia e chimica applicata”, Milano, Editore Heopli, volumi 1-3, 1973; vol. 4, 1974; vol. 5, 1975; vol. 6, 1976; vol. 7, 1977
 
Qualche notizia sull’evoluzione degli studi merceologici in Italia si può trovare in:
G. Nebbia, “Risorse naturali e merci. Un contributo alla tecnologia sociale”, Bari, Cacucci, 1968; G. Nebbia, “Lezioni di Merceologia”, Bari, Laterza, 1996; G. Nebbia, “Risorse merci ambiente”, Bari, Progedit, 2001.

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