Nella raccolta di scritti “Ceti medi senza futuro?” parlavi della tua esperienza di consulente per il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica. Questo tuo nuovo libro, “Le multinazionali del mare. Letture sul sistema marittimo-portuale”, ha a che fare con quella esperienza?
Direi di no, la parte dedicata ai porti italiani è una parte marginale. Per ritrovare dei collegamenti con la mia attività di ricerca si dovrebbe risalire piuttosto agli Anni 70, alle inchieste sul settore trasporto merci di “Primo Maggio” – la rivista che dirigevo allora e la cui collezione completa tra poco sarà disponibile su CD presso Derive&Approdi. In un numero del 1976 già si tentava di abbozzare una “Storia del container”. Un altro mio saggio di quei tempi, la cui impostazione in un certo senso anticipa quella delle multinazionali del mare, è “Petrolio e mercato mondiale”, pubblicato su “Quaderni Piacentini” nel 1974 sull’onda del primo shock petrolifero.
Nel senso che tra la crisi attuale e la crisi petrolifera del 1973 tu trovi delle analogie?
Nel senso che si tratta di fenomeni globali, la cui portata si avverte in ogni angolo del mondo. Il settore dello shipping è per sua natura un settore globale, anzi è una delle forze motrici della globalizzazione. La novità, che io cerco di analizzare in questo libro, è che questa caratteristica si è estesa anche all’attività portuale, che per sua natura invece ha un carattere municipale. Oggi esistono grandi organizzazioni che controllano terminal portuali in tutto il mondo. E’ un fenomeno assai recente, esploso negli Anni Novanta. Non c’è un solo porto italiano di rilievo che non sia controllato da queste organizzazioni, da Gioia Tauro a Genova, da Trieste a Taranto, da La Spezia a Napoli. Sono cinesi, tedesche, di Singapore, di Dubai, vere e proprie multinazionali che impiegano le tecnologie più avanzate e portano quindi un livellamento degli standard di servizio e delle pratiche organizzative in qualunque parte del globo. L’area maggiormente interessata da questi investimenti oggi è l’Africa Occidentale. L’altra novità, anch’essa assai recente, è che le compagnie marittime, tradizionali clienti dei porti, hanno cominciato ad investire anche loro in terminal portuali, quindi è saltata la secolare divisione del lavoro tra chi trasporta la merce (il vettore marittimo) e chi fa il carico e lo scarico nei porti. La nave e il porto sono sempre stati in un certo senso antagonisti: la nave voleva fare in fretta, il porto cercava di rallentare. Oggi i porti, soprattutto nei terminal container, lavorano secondo tempi ed esigenze della nave, là dove il porto e la compagnia marittima fanno parte dello stesso gruppo c’è una perfetta integrazione tra le due fasi principali del ciclo.
Ma quando dici che queste organizzazioni multinazionali, queste società, controllano un porto o un terminal portuale, vuoi dire che ne sono proprietarie, come funziona la cosa?
Nella grande maggioranza dei casi sono concessionarie, ottengono cioè la possibilità di gestire in esclusiva per un lungo numero di anni una determinata banchina in cambio di un canone annuo. L’infrastruttura però rimane di proprietà dello Stato o della municipalità, le quali consegnano al concessionario delle infrastrutture che corrispondono agli standard richiesti e spesso ne sostengono i costi della manutenzione. Man mano però, visto che gli Stati, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, non avevano risorse, le multinazionali si sono impegnate anche a sostenere una parte dei costi per portare a standard l’infrastruttura portuale, cioè per fare una banchina in grado di sopportare certi pesi, per approfondire i fondali, per consolidare le opere marittime. In genere lo fanno secondo il sistema pubblico-privato del project financing, che coinvolge quindi istituzioni finanziarie private e organismi internazionali come la Banca Mondiale che forniscono i capitali o le garanzie bancarie allo Stato povero di risorse. In questo caso il canone può essere ridotto a una cifra simbolica, si tratta di vedere chi sopporta i costi della manutenzione, alla fine della concessione tutto ritorna allo Stato. Ma ci sono anche casi, la Gran Bretagna è quello più famoso, dove la multinazionale diviene proprietaria dell’infrastruttura portuale.
Il ruolo della finanza, i modi di operare dell’investitore, pubblico o privato, mi sembrano aspetti importanti del tuo libro. Come mai questa forte attenzione al fenomeno finanziario?
Sono contento che tu l’abbia colto, questo aspetto, perché lo considero il filo conduttore del mio libro, non solo nel capitolo dedicato esplicitamente alla finanza dello shipping. Intanto distinguiamo la finanza che si occupa di navi e quella che si occupa di porti. La prima raccoglie e convoglia i capitali necessari alla costruzione delle navi. Capitale mondiale di questo settore della finanza è la Germania. Quindi mi è parso opportuno dedicare un intero capitolo allo straordinario sviluppo di questo settore, ma anche alle follìe che ha commesso durante l’ultima fase del ciclo economico mondiale, quella che precede la crisi, con dei comportamenti che sono stati molto simili a quelli sui derivati e con conseguenti crolli che hanno dato un severo colpo alla stabilità del mondo bancario tedesco nel suo insieme, pubblico e privato. La massima parte di questi investimenti sono stati realizzati per costruire navi portacontainer di dimensioni sempre maggiori. Con la crisi, una parte di queste navi sono state bloccate nei cantieri, un’altra, appena varata, è stata messa in disarmo. Si valuta che l’11,6% della flotta mondiale di navi portacontainer sia ferma per mancanza di carico. “Le navi come titoli tossici”, recita infatti uno slogan di noti analisti finanziari.
Quindi questo mercato finanziario si è fermato? Le banche sono state risanate dagli Stati, sono fallite? Oppure gli investimenti si sono diversificati?
Esattamente. Assistiamo a un fenomeno interessante di diversificazione, che ho cercato di analizzare nel capitolo “non si vive di solo container”. Le navi portacontainer sono una delle tante tipologie di navi in circolazione e non sono state le uniche ad essere colpite severamente dalla crisi, per esempio le car carrier, specializzate nel trasporto di veicoli, sono state investite dalla crisi del settore dell’auto in maniera ancora più pesante, così come le bulk carrier per il trasporto di rinfuse solide (carbone, altri minerali). Invece gli investimenti oggi si orientano verso le navi multipurpose che possono trasportare prodotti di ogni genere, ma anche container, stivati su ponti diversi, oppure sulle navi per il trasporto di pesi eccezionali, le cosiddette heavy lift autoaffondanti. Dal punto di vista del mercato della logistica si dice che questo è il segmento del project cargo, molto remunerativo. Lo spostamento dell’interesse dell’armamento e della finanza verso questo settore è simboleggiato dalla costituzione, nella primavera del 2009, del cosiddetto Heavy Lift Club, un’Associazione, a fini di lobbying evidentemente, cui partecipa una dozzina di compagnie marittime specializzate in questo tipo di traffici. Analoga diversificazione si verifica anche negli investimenti portuali ed io ho dedicato un’analisi particolare a un caso specifico, quello del fondo d’investimenti Babcock&Brown, giunto sull’orlo del fallimento, che ha dovuto cedere i suoi asset portuali a una grande società finanziaria canadese, la Brookfield Asset Management, specializzata nelle energie alternative e nella costruzione di pubbliche utilities. Il criterio dell’investimento è stato quello di scegliere terminal portuali non di container, ma bensì terminal specializzati nelle rinfuse o nel cargo tradizionale, nella filiera della carta e così via. In conclusione, sia la finanza specializzata nella costruzione di navi, sia l’armamento, sia la finanza specializzata negli investimenti in utilities sta abbandonando il settore del container e si orienta decisamente verso il settore del general cargo cosiddetto “tradizionale”, che nel frattempo però ha avuto uno straordinario sviluppo d’innovazione tecnologica nel disegno delle navi, per cui chiamarlo “tradizionale” è un modo con cui si rischia di falsificare la realtà. I porti italiani, che invece sono ossessionati dal container e progettano tutti investimenti faraonici in banchine dedicate al container, dovrebbero tener conto di questa tendenza e non percorrere la strada suicida della monocultura del container.
Mi sembra che nel tuo libro ci sia anche il tentativo di dare una spiegazione a questo fenomeno della diversificazione. In particolare tu parli di un possibile spostamento dei flussi di traffico dalle rotte est-ovest verso le rotte nord-sud a seguito della crisi. La relazione tra questi due fenomeni non è chiara immediatamente, per chi non è addentro nel settore. Potresti provare a spiegarla in modo che sia percepibile anche al lettore non specializzato?
La sequenza del ragionamento a me pare assai limpida, mi dispiace di non esser riuscito nel libro, evidentemente, ad essere chiaro. Primo passaggio: lo sviluppo del traffico container è stato trainato dai consumi delle società avanzate (Nordamerica ed Europa) di prodotti fabbricati in Cina o in altri Paesi del Far East. I volumi sulle direttrici est-ovest hanno avuto una crescita spettacolare tra il 2002 e il 2007, il cosiddetto “super ciclo”. La crisi è stata determinata dalla caduta dei consumi nel Nordamerica e ingigantita dall’avventurismo della finanza. Secondo passaggio: i Paesi avanzati (Nordamerica ed Europa) forse non raggiungeranno mai più i livelli di consumo di questi anni, la Cina ha cambiato il suo modello di sviluppo, non più export oriented ma tutto concentrato sullo stimolo della domanda interna. Quindi il mercato del container sulle rotte est-ovest è destinato a restare stagnante per molti anni a venire, Drewry valuta che nel Sudeuropa solo nel 2013 si raggiungeranno di nuovo i volumi del 2008, per crescere poi a tassi molto meno elevati che nel periodo 2002-2007. Terzo passaggio: quali sono invece le prospettive positive dei traffici? Quelle generate dalla domanda dei Paesi dell’Asia (India in primo luogo), dell’America Latina (Brasile soprattutto) e dell’Africa, una domanda non tanto di beni di consumo ma soprattutto di beni d’investimento nella ingegneria civile, nella ricerca di fonti energetiche, nell’impiantistica, tutte merci che vengono trasportate su navi multipurpose o heavy lift su rotte nord-sud. A questo si aggiungono nicchie di mercato che sono tutt’altro che secondarie, la sostituzione delle piattaforme off shore divenute obsolete, per esempio. Intendiamoci, questo mercato non avrà la forza sostitutiva per riempire il buco del container, però sarà una grande occasione di business per operatori logistici, compagnie marittime e investitori. L’armamento italiano tra l’altro dispone di due specialisti del settore: Grimaldi per le multipurpose e Messina per le rotte nord-sud, mentre nel settore heavy lift l’industria italiana dispone di un grande operatore logistico come Fagioli. Mancherebbero all’appello solo i porti italiani, che non vedono altro che container e crociere.
Conoscendoti, i tuoi lettori si sarebbero aspettati un libro focalizzato più sul lavoro portuale che sulla finanza.
E’ vero, è un libro che guarda al capitale più che al lavoro. Tuttavia mi pare di aver lanciato qua e là degli spunti di riflessione. Innanzitutto nel porre l’interrogativo se un terminal portuale può essere ridotto alla logica della catena di montaggio. Ho risposto di no, il lavoro in un terminal portuale è sottoposto a tante incognite che non sarà mai possibile averne la certezza del funzionamento quanto in una catena di montaggio. Attenzione: questa imprevedibilità, che richiede quindi decisioni prese al momento da parte del fattore lavoro, persiste anche in presenza di una forte automazione del ciclo di sbarco e imbarco. Amburgo e Rotterdam oggi presentano dei terminal container con il massimo di automazione possibile allo stato attuale della tecnologia eppure l’incognita quotidiana richiede sempre un intervento umano decisivo. L’altro spunto che ho offerto riguarda proprio il settore multipurpose e dei carichi eccezionali. Nel presentarsi alla stampa, il Club Heavy Lift appena costituito, ha lamentato apertamente che nei porti, a causa della monocultura del container, siano andate perdute molte professionalità specializzate nello stivaggio di navi “tradizionali”. Anche i capitani delle navi ormai hanno perduto questa capacità, abituati al fatto che nel container tutto è programmato da un piano di carico fatto al computer. Infine uno spunto è stato proposto nella parte riguardante i costi operativi delle navi portacontainer. Il costo dell’equipaggio è ancora la voce più importante (sul 35% in media del totale) ma la voce di costo che è andata aumentando di più negli ultimi anni è quella maintenance and repair. Perché il prezzo dell’olio lubrificante è andato alle stelle? Non prendiamoci in giro: perché la forza lavoro sulle navi è sempre meno qualificata e non sa effettuare operazioni anche elementari di manutenzione e riparazione, ma soprattutto perché le tabelle d’armamento sono ridotte all’osso, il numero di marinai presente sulla nave è il minimo richiesto, non ha nemmeno il tempo di effettuare operazioni di manutenzione e riparazione. Negli anni del “super ciclo” lo sfruttamento in termini di ritmi di lavoro è stato davvero pesante e altrettanto la sollecitazione cui sono stati sottoposti i motori e le apparecchiature ausiliarie. Tra l’altro, le tecnologie impiegate sulle navi sono sempre più sofisticate e quindi la forza lavoro dovrebbe essere all’altezza di questi progressi. Purtroppo spesso accade il contrario.
Nel primo capitolo, memore della tua passata attività di storico, ti sei concesso un divertimento sul passato di Trieste, oppure è solo un omaggio alla tua città natale?
Né l’uno, né l’altro. Ho voluto sottolineare l’importanza della finanza nello sviluppo delle grandi infrastrutture di trasporto. Bene o male sia Genova che Trieste sono nate come porti moderni grazie a due uomini di finanza. Il Canale di Suez e le linee ferroviarie dell’Ottocento sono state finanziate grazie a delle operazioni bancarie azzardate ma innovative. La banca d’affari moderna nasce dal Crédit Mobilier dei fratelli Péreire, le società per azioni nascono in quel contesto. Anche qui c’è un collegamento con la mia attività di ricerca degli Anni 70 ed in particolare con il mio saggio sugli articoli di Marx per la “New York Daily Tribune”, fondamentali per comprendere la sua teoria del credito e illuminanti sulla natura delle crisi finanziarie moderne. Marx è uno straordinario pensatore, a saperlo leggere, peccato che sia stato rovinato dai marxisti.
Intervista a cura di Christian Lobbinghaus (Milano, 26 febbraio 2010), trad. di Mia Pastori-Solani.