Se uno volesse sintetizzare il 2005 in una parola, credo che gli verrebbe in mente “energia”. È stato infatti l’anno in cui si sono intrecciati gli aumenti dei prezzi del petrolio greggio e del gas naturale, l’aumento della consapevolezza dell’esistenza dell’”effetto serra”, una crescente rinnovata attenzione alle fonti energetiche rinnovabili, un tentativo di resurrezione dell’energia nucleare, un aumento dell’uso del carbone.
Vari eventi naturali, come i cataclismi climatici, e politici, come la turbolenza politica nel Medio oriente e in Asia, hanno fatto aumentare il prezzo del petrolio con sbalzi da 350 a oltre 400 euro alla tonnellata, con conseguente aumento del prezzo della benzina “alla pompa” (che è poi l’indicatore economico che i cittadini rilevano subito).
Finora le sollecitazioni ad un cambiamento verso fonti di energia “rinnovabili”, cioè derivate dall’agricoltura o direttamente dal Sole, venivano principalmente dall’Unione europea che da anni stanzia fondi per un crescente impiego di fonti energetiche e materie “solari”, sia per conservare occupazione e reddito nei settori agro-forestali, sia per prevenire le conseguenze di possibili crisi (approvvigionamento e prezzi) nel mercato del petrolio e del gas, crisi che si sono verificate.
La tendenza era già presente anche negli Stati Uniti, ma una svolta importante si è avuta con il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato dal presidente Bush il 31 gennaio 2006; quando il presidente del paese che consuma oltre il 20 % delle fonti energetiche mondiali (90 esajoule solo di petrolio, carbone e gas su circa 450 EJ di energia totale mondiale) ha affermato che l’America non può continuare ad essere drogata (ha usato il termine addicted) di petrolio e che stanzierà fondi per la produzione di carburanti dalla biomassa, oltre che per nuovi generatori fotovoltaici ed eolici: Ci si rende allora conto che anche noi europei, anche noi italiani, siamo di fronte ad una svolta che considero storica.
Consideriamo brevemente il problema dei carburanti per autotrazione derivati dalla biomassa, in particolare l’alcol etilico, ribattezzato bioetanolo (per compiacere alle mode ecologiste, dal momento che da anni non si produce più etanolo sintetico), e gli esteri metilici ed etilici degli acidi grassi, vegetali o animali, ribattezzati biodiesel.
La possibilità di impiego dell’alcol etilico come carburante e combustibile risale molto lontano, addirittura alla seconda metà dell’Ottocento; le interessanti e controverse vicende di questo carburante alternativo alla benzina sono state oggetto di numerose ricerche; cito per tutti gli scritti di vera e propria storia della merceologia dovuti allo storico americano Kovarik di cui si possono utilmente leggere: Hal Bernton, W. Kovarik e S. Sklar, “The forbidden fuel. Power alcohol in the twentieth century”, New York, Boyd Griffin, 1982, e William Kovarik, “The fuel of the future”, Automotive History Review, 32, 7-27 (Spring 1998), www.runet.edu/~wkovarik/papers.
Nel corso dei decenni sono stati coinvolti, per vari motivi politici, economici, autarchici, tutti i paesi, compresa l’Italia; l’Unione sovietica produceva butadiene dall’alcol durante la II guerra mondiale; il Brasile ha lanciato l’alcol carburante come sbocco alla produzione dello zucchero di canna.
Da qualunque carboidrato si parta, l’alcol etilico si presenta con due diverse qualità: con il 5% di acqua o come alcol “anidro”, ottenuto per successiva distillazione dall’alcol al 95%. L’alcol al 95% può essere miscelato con la benzina in quantità non superiore al 5% (per evitare separazione di fasi); anche in queste pur modeste proporzioni fa migliorare un poco il numero di ottano della benzina e comporta una piccola diminuzione dei gas di scarico inquinanti. Per la parte in cui viene usato, l’alcol carburante non contribuisce ad un aumento netto della concentrazione atmosferica di “gas serra”, perché l’anidride carbonica che si libera durante la fermentazione e la combustione è la stessa che è stata sottratta, pochi mesi o anni prima, durante la fotosintesi che ha prodotto le materie prime di partenza.
L’alcol etilico assoluto può essere miscelato alla benzina in quantità maggiori e ormai negli Stati uniti sono comuni distributori che vendono con la sigla “85” miscele dell’85% di alcol con il 15 % di benzina, la cui presenza occorre per migliorare la carburazione a freddo della miscela.
Le materie prime possono essere zuccheri, amidi, materie lignocellulosiche, tutte sperimentate nel secolo scorso. Il problema merceologico consiste nell’indicare le soluzioni più convenienti ai governi che sono direttamente coinvolti, perché la miscelazione di alcol etilico alla benzina può avvenire soltanto con sovvenzioni pubbliche (italiane o europee) alle materie prime. Per esempio in questo inizio del 2006 l’industria saccarifera italiana sta declinando perché l’Unione europea impone dei limiti alla produzione di zucchero di barbabietola europeo e italiano.
Proprio nei primi giorni di febbraio 2006 il governo italiano ha deciso la chiusura di alcuni zuccherifici, con gravi conseguenze per i lavoratori direttamente interessati e per quelli del settore bieticolo; tali zuccherifici potrebbero continuare il ciclo produttivo, assicurando la sopravvivenza di una parte della bieticoltura, se una parte dello zucchero venisse fatto fermentare ad alcol carburante; ma qui ci sono due vie: l’estrazione di zucchero e melasso e la fermentazione dello zucchero del melasso, o la produzione dell’alcol con un ciclo saccarifero corto, facendo fermentare lo zucchero presente nel sugo leggero. Con questa seconda soluzione è possibile alimentare un ciclo produttivo: bieticoltura – zuccherificio – fermentazione dello zucchero nel sugo leggero – distillazione – miscelazione dell’alcol con la benzina – distribuzione del carburante – informazione dei consumatori.
L’altra prospettiva consiste nella utilizzazione come materia prima di amidi di cereali, come sta avvenendo negli stati della “cintura del mais” del Nord-America (Stati Uniti e Canada) dove esistono forti eccedenze stagionali di mais e dove il carburante alcol-benzina è distribuito, con sovvenzioni dei singoli stati, negli stati agricoli. È probabilmente diversa la situazione in Europa, che importa cereali e che invece potrebbe diffondere coltivazioni come il sorgo zuccherino o altre, da valutare con criteri tipici del metodo di lavoro merceologico.
Di ancora maggiore interesse è la utilizzazione per la produzione di alcol carburante dei materiali lignocellulosici, la cui massa annuale è ancora più grande di quella delle materie zuccherine e amidacee. Molti tentativi sono stati fatti in passato per l’idrolisi della cellulosa, insieme alle, o separata dalle, lignine, mediante acidi. Da alcuni anni si stanno moltiplicando processi e impianti che riescono a scomporre, mediante enzimi, la cellulosa a zuccheri fermentescibili da trasformare in alcol.
Simili processi potrebbero essere applicati alla cellulosa di quella frazione di carta usata che non è conveniente riciclare e che in Italia ammonta ogni anno a circa 5 milioni di tonnellate dalle quali potrebbero, in via di principio, essere ottenuti oltre un milione di tonnellate all’anno di alcol carburante.
La produzione di esteri degli acidi grassi come surrogati dei carburanti per motori diesel apre un altro straordinario campo di lavoro. La soluzione “più facile” riguarda colture agricole di piante oleaginose come girasole, soia, colza, con qualche vantaggio perché insieme agli oli trasformabili in biodiesel si ottengono panelli ricchi di proteine interessanti come alimenti zootecnici.
Non va peraltro dimenticato che esiste una rilevante, ma non rilevata esattamente, massa di prodotti oleaginosi o grassi come sottoprodotti di operazioni agroindustriali o di attività di cucina di mense e comunità. L’inventario di tali materie grasse e la caratterizzazione delle proprietà in relazione alla successiva esterificazione rappresenterebbero un importante contributo al risparmio di prodotti petroliferi e al riutilizzo di rifiuti.
Sempre nel campo delle fonti di energia non va dimenticato il ruolo potenziale dei materiali vegetali, ma eventualmente anche animali, genericamente chiamati “biomasse” come combustibili solidi per la produzione di calore e di elettricità. Va precisato che col termine di “biomasse” vengono talvolta indicati combustibili solidi costituiti da frazioni di rifiuti solidi o dal combustibile derivato dai rifiuti, il cosiddetto CDR, una controversa interpretazione che è stata contestata a livello di comunità europea
Molti materiali costituiti da sottoprodotti agricoli e eventualmente residui di operazioni agroindustriali sono utilizzabili come combustibili solidi, con soluzioni già note e proposte – meglio sarebbe dire “riproposte” perché sono già apparse molte volte nel corso delle storia – e che riemergono ogni volta che si profilano crisi energetiche. Si tratta di bruciare direttamente o di gassificare materie solide, per lo più sottoprodotti e scarti di lavorazioni, le cui tecniche sono ormai oggetto anche di attenzione da parte dell’informazione di massa (cito, fra gli altri, l’articolo, apparso nel numero dell’8 agosto 2005 del settimanale americano “Newsweek”, col titolo “l’oro verde” o quelli apparsi nel quotidiano italiano “la Repubblica” del 16 ottobre 2005 e del 14 febbraio 2006); le proposte di utilizzazione di residui e scarti si intrecciano con lo smaltimento e la valorizzazione energetica di “rifiuti” agricoli e forestali.
Questi anni, prosecuzione del Novecento, sono insomma caratterizzati da nuove sfide: quella della scarsità di fonti energetiche, di modificazioni climatiche dovute alle fonti non rinnovabili, lo spettro dell’energia nucleare e delle sue code avvelenate, i bisogni crescenti di ormai 6300 milioni nel 2006) di persone malate, alcune perché opulente e quindi afflitte da insicurezza e crescente avidità, altre, la maggioranza, malate perché povere e desiderose di liberarsi dalla miseria. Solo se si curano, insieme le malattie dei ricchi e quelle dei poveri sarà possibile una decente sopravvivenza della comunità umana e a questa ricerca si propone di continuare a dedicarsi altronovecento.