Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Orgoglio del lavoro

image_pdfScaricaimage_printStampa

Sono rimasto colpito ascoltando uno degli operai dei cantieri navali di Sestri Ponente, in Liguria, di quelli che sono minacciati dal licenziamento: il suo dolore non era soltanto per il mancato guadagno ma anche per la ferita al suo “orgoglio”, ha usato proprio questa parola, di operaio capace di fabbricare cose importanti, come le navi. “Orgoglio” del proprio lavoro, non soltanto condanna biblica alla fatica, non soltanto fonte di guadagno per mantenere una famiglia, ma fonte di soddisfazione, constatazione che col lavoro si fa una cosa buona e utile e bella.

Un tema che ricorre talvolta nelle opere letterarie e anche nei film, soprattutto americani; mi è venuto in mente il film “Pretty woman” (1990), nel quale una prostituta, interpretata da Julia Roberts, fa innamorare un grande finanziere di successo che si vanta di arricchirsi comprando imprese in difficoltà e svendendole pezzi e licenziando i lavoratori. Ad un certo punto la ragazza chiede al finanziere: “Ma tu non hai mai costruito niente?”. La risposta è “no”. Alla fine, per amore, il finanziere compra un cantiere navale in crisi non per svenderlo, facendo soldi, ma per costruire anche lui ”molte belle e grandi navi”.

Un mese o l’altro la crisi finirà: fin da ora non sarebbe male chiedersi che cosa faremo quando questo frenetico circolare di soldi finirà, quando i pochi arricchiti si troveranno a fare i conti con le falangi, cresciute di numero, di poveri nei paesi ricchi e in quelli già oggi poveri. Quando ci si renderà conto che il mondo va avanti non con i soldi, ma con il ferro e le patate, cioè con la produzione di merci reali, capaci di soddisfare bisogni umani. Quando la crisi sarà finita il mondo risulterà diverso da quello degli anni precedenti, nel mondo, in Europa, in Italia. Vi sarà una diversa distribuzione del benessere, alcuni paesi ricchi e potenti lo saranno di meno, nuove popolazioni e domande si affacceranno all’orizzonte.

A questo punto che cosa potremo fare come italiani, come cittadini del Mezzogiorno? I posti di lavoro possono venire soltanto dalla ripresa della produzione nelle fabbriche e nei campi, cioè in quei settori che sono stati abbandonati perché non abbastanza remunerativi. Bisognerà ricominciare a diffondere la cultura del fare, del fabbricare, cose diverse da quelle che sono state prodotte finora. Negli anni delle crescita non solo economica, ma anche civile del paese la colata di acciaio rovente era un segno della capacità di piegare le risorse della natura ai bisogni delle città e delle persone.

È una desolazione vedere che le fabbriche che sono state l’orgoglio del paese sono ridotte a ruderi con gli spazi assaltati per costruire edifici di cui non c’è bisogno, solo per soddisfare l’avidità della speculazione finanziaria. La televisione, per settimane, ha fatto vedere i muri e i serbatoi abbandonati della Falck di Sesto San Giovanni, storica acciaieria oggetto di liti fra speculazioni e tangenti; andando in giro nel Mezzogiorno quante torri di acciaio arrugginite e muri sgretolati di fabbriche abbandonate sono il segno della delusione di un sogno di lavoro e di intrapresa.

Non so immaginare quali opere e prodotti saranno necessari per la ripresa dalla crisi, non so se ancora automobili o motori solari, divani o pomodori, opere di difesa del suolo o prefabbricati per dare una casa agli immigrati e distruggere le baracche. Occorre probabilmente organizzare dei pubblici servizi di programmazione e di previsione alla luce dell’invecchiamento della popolazione italiana e dell’accoglimento del nuovo sangue giovane che arriva dai deserti africani o dall’Europa povera. Immigrazione che talvolta è portatrice di nuovo ingegno; si pensi alla “abilità” degli immigrati indiani nel campo della zootecnia nella valle padana, di quelli che nel Sud ci aiutano a raccogliere prodotti agricoli che, altrimenti, resterebbero a marcire.

Al di là delle chiacchiere, infatti, possiamo vivere, mangiare e muoverci soltanto grazie al lavoro di innumerevoli persone nelle fabbriche, nei campi, nei negozi, sui treni. Ha fatto bene il presidente Napolitano, qualche tempo fa, a ricordare che “spesso ci dimentichiamo che esiste la classe operaia”. Nella scena finale del film “Wall Street” (1987) di Oliver Stone, l’operaio di una fabbrica di aeroplani che stava per essere smantellata dalle speculazioni finanziarie a cui partecipava il figlio, giovane rampante poi pentito, dice al figlio: “Costruisci, produci qualcosa, invece di vivere sulla compravendita di altri”.

Nella nuova alba dell’economia italiana e mondiale le occasioni di lavoro, e di “orgoglio”, potranno venire dalle iniziative per la difesa dell’ambiente, dalla ricerca di nuove fonti di energia, dalla soluzione di problemi come la lotta all’inquinamento, lo smaltimento dei rifiuti, la bonifica di terre contaminate. Nuovi giganti, popolosi e intraprendenti e abili, in Asia e in Africa si affacciano come produttori dei beni che affollano gli scaffali dei negozi: possiamo guardare ad un futuro italiano basato soltanto sui beni di lusso e sul turismo?

image_pdfScaricaimage_printStampa
Total
0
Shares
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articolo Precedente

La città come ecosistema

Articolo Successivo

Mezzo secolo di “ecologia”

Articoli Collegati
Total
0
Share