L’umanità sta facendo grandi progressi verso un crescente uso delle fonti energetiche rinnovabili. I campi coperti di pannelli solari e le torri che offrono le loro pale eoliche al vento danno qualche speranza per il futuro energetico mondiale, ma, purtroppo, il mondo muove un milione di automobili, produce 14.000 miliardi di chilowattora all’anno di elettricità, fa funzionare le fabbriche, le acciaierie e le industrie chimiche, fornisce concimi e macchinari per la produzione del cibo quotidiano, e scalda gli edifici usando ancora in gran parte la trinità delle fonti energetiche fossili non rinnovabili e inquinanti: carbone, petrolio, gas naturale.
Nell’ultimo secolo più volte è stato agitato lo spettro della scarsità di qualcuna di queste fonti energetiche: A partire dal 1970 gli Stati Uniti, una volta grandi produttori di petrolio, sono stati costretti ad importarlo perché i pozzi si stanno esaurendo; i giacimenti del Mare del Nord forniscono sempre meno petrolio. Lo stesso vale per il gas naturale: i giacimenti di metano italiani, che hanno consentito la ricostruzione e il grande sviluppo dopo la Liberazione, si sono esauriti uno dopo l’altro. Per raggiungere giacimenti petroliferi meno comodi sono stati realizzati perfezionamenti tecnici poco noti ai consumatori, ma senza i quali i distributori di benzina sarebbero vuoti. I giacimenti petroliferi in genere si presentano in strati orizzontali di limitato spessore per cui i pozzi verticali estraggono solo una parte del petrolio di ciascun giacimento.
Già nei primi anni trenta del Novecento sono stati inventati dei sistemi di trivellazione con tubi che si dispongono orizzontalmente, in modo da pompare più petrolio dai giacimenti sottili. La tecnica si è perfezionata successivamente e oggi viene applicata anche per estrarre petrolio e gas naturale che sono intrappolati in giacimenti orizzontali di scisti, rocce costituire da silicati e carbonati. Mentre dai giacimenti di idrocarburi liquidi basta far arrivare in superficie il petrolio o il gas dapprima sfruttando la pressione naturale e poi per pompaggio, il petrolio e il gas naturale contenuto negli scisti devono essere “liberati” con un processo complicato che prevede la fratturazione delle rocce per iniezione, dentro gli scisti, di acqua e agenti chimici sotto pressione.
I primi tentativi di estrazione del petrolio e del gas per fatturazione idraulica risalgono al 1947, ma solo una ventina di anni fa la tecnica è stata applicata regolarmente. Si tratta di perforare un pozzo verticale fino al giacimento di scisti, poi di far piegare la tubazione orizzontalmente (pensate che si tratta di operazioni che avvengono a migliaia di metri di profondità, comandate dalla superficie). La tubazione ha dei fori attraverso cui fuoriesce l’acqua iniettata sotto pressione dalla superficie; le rocce degli scisti si rompono, lasciano libero il petrolio o il gas che sono riportati in superficie attraverso la stessa tubazione. Il processo richiede grandi quantità di acqua, che non sempre è disponibile sul posto, e comporta possibili pericoli di inquinamento delle falde idriche sotterranee adiacenti lo strato di scisti.
Sta di fatto che negli ultimi anni la produzione di petrolio degli Stati Uniti, che era andata diminuendo da 400 a 300 milioni di tonnellate all’anno dal 1990 al 2008, in questi ultimi anni è aumentata di nuovo “grazie” al petrolio estratto dagli scisti, con conseguente diminuzione delle importazioni. Lo stesso vale per la produzione americana di gas naturale che, dopo essere diminuita per alcuni anni, ha improvvisamente ricominciato ad aumentare in seguito all’estrazione di gas dagli scisti. Va notato che, oltre agli scisti sotterranei contenenti petrolio, spesso di buona qualità, e gas, ne esistono altri, in genere più superficiali, che contengono non petrolio ma una miscela di idrocarburi solidi, bituminosi, detti geneticamente cherogene, una specie di “petrolio giovane” (geologicamente), corrispondente alla materia organica da cui si è formato, milioni di anni fa, l’attuale petrolio.
Il cherogene può essere estratto da questi giacimenti (ne esistono in Estonia, in Cina, nel Brasile; sabbie bituminose esistono nel Canada e altrove) con processi che si lasciano dietro montagne di scorie inquinanti; il cherogene deve essere poi trasformato per via chimica e fisica in idrocarburi utili industrialmente come combustibili. Le stime di quanto “nuovo” petrolio o gas potrà essere estratto dagli scisti variano moltissimo: da alcuni miliardi a diecine di miliardi di tonnellate di petrolio, rispetto agli attuali consumi mondiali di circa 4,5 miliardi di tonnellate all’anno; centinaia o migliaia di miliardi di metri cubi di gas naturale. La possibilità di estrarre petrolio e gas dagli scisti può cambiare la geografia del petrolio; nuovi paesi possono inserirsi di prepotenza fra quelli esportatori.
Va però tenuto presente che il petrolio estratto dagli scisti, sia superficiali, sia sotterranei, è costoso e inquinante; non farà diminuire il prezzo della benzina e del gasolio nel mondo e sposterà, per ora, solo di alcuni anni in futuro lo spettro dell’esaurimento delle riserve. Ci pensino i governi nel fare i loro piani economici ed energetici.
3.7.2012