Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Recensione di Jean-Baptiste Fressoz, “Sans transition. Une nouvelle histoire de l’énergie”, Paris, Seuil, 2024, e Ange Pottin, “Le nucléaire imaginé. Le rêve du capitalisme sans la Terre”, Paris, La Découverte, 2024

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In questo testo presenterò due opere che trattano la storia dell’energia nucleare a uso non militare da prospettive distinte ma convergenti.

Il libro di Jean-Baptiste Fressoz inserisce l’emergere del nucleare all’interno di una vasta contro-narrazione della storia energetica della modernità: contro il racconto mainstream articolato per “fasi” corrispondenti alla scoperta di nuove fonti energetiche (prima energia animale, acqua e legno, poi carbone, poi petrolio etc.), Fressoz sottolinea il carattere storicamente accumulativo, e non sostitutivo, delle nuove fonti, ciascuna destinata a entrare in simbiosi con le precedenti.

Nel Novecento, la narrazione “fasista”, dopo il breve interludio dell’idroelettrico, ha ruotato per molti decenni attorno al nucleare quale fonte energetica illimitata, in grado di consegnare al passato ogni contesa geopolitica per risorse energetiche scarse e le connesse ansie neo-malthusiane. Come già per carbone e petrolio, il nucleare ha riconfigurato l’insieme delle fonti energetiche in uso, ma senza corrispondere alle promesse iniziali, riconducibili a una formula di grande attualità: la “transizione energetica” dalle fonti energetiche fossili. Sta proprio qui l’elemento per certi versi dirompente del libro di Fressoz, su cui torneremo alla fine della recensione: larga parte del movimento ecologista contemporaneo promuove una narrazione “fasista”, centrata sulla diffusione delle fonti rinnovabili, facendo inconsapevolmente proprie le identiche parole d’ordine, già dimostratesi fallimentari, delle élite nucleariste.

Un’attenta caratterizzazione sociologica e culturale dei “nucleocrati” è al centro dell’opera di Pottin, che ripercorre l’ascesa del nucleare nel paese, la Francia, che più ha scommesso su questa tecnologia. Rispetto al lavoro di Fressoz, più ampio, disciplinarmente più connotato (area storia della scienza, con magistrale intreccio di prospettiva “macro” e “micro”) e almeno in parte critico rispetto ad alcuni assunti-base dell’ecologismo contemporaneo più popolare, abbiamo qui un lavoro che porta nuove conferme alle classiche posizioni anti-nucleariste, distinguendosi per un approccio che innesta sulla storia della tecnologia, con tra l’altro diretti riferimenti a precedenti lavori di Fressoz, una ricostruzione dell’insieme di idee che ha animato l’ascesa del programma di ricerca nucleare, nel Secondo Dopoguerra, e la sua traduzione in una fitta rete di impianti di produzione e stoccaggio, a partire dagli anni Settanta. La parte più distintiva dell’analisi di Pottin, infatti, sta nel ricostruire la genesi di quell’immaginario “deterrestrizzato” che porta a vedere nel nucleare la promessa di un ciclo energetico sganciato da qualsiasi vincolo di rarità materiale.

Pottin ha il grande merito di approfondire questa dimensione specificatamente culturale, che nel dibattito anche corrente sul nucleare rischia di essere scambiata per una semplice “ideologia”, cioè qualcosa di farlocco e facilmente smascherabile guardando ai veri interessi che stanno dietro. Questo tipo di mossa può andare bene per il lobbysta, il politico o il troll di turno, ma diventa fuorviante se si vuole andare all’origine di un sistema di assunti, credenze e implicazioni distillato dalle migliori menti di almeno due generazioni di scienziati. Con un approccio quasi etnografico, Pottin cerca di far emergere lo “stile di pensiero” (p. 52), cioè “il quadro implicito che orienta l’identificazione delle entità che popolano il mondo a monte delle teorie scientifiche” (ibid.), degli ingegneri della C.E.A. (Commissariato per l’Energia Atomica), l’istituzione che dagli anni Cinquanta agli anni Settanta ha gestito la ricerca e la politica nucleare francese. Qual era l’orizzonte cognitivo di questi ingegneri? Qual era lo fondo concettuale su cui prendevano forma le loro ricerche? Facendo riferimento ad alcuni lavori divulgativi scritti da membri di questo gruppo, ma anche a un’intervista a un ingegnere oggi critico del nucleare ma con un passato in C.E.A., Pottin parla di “visione tecnocratica” (il riferimento è al filosofo Simondon): in essa, i dispositivi tecnici non sono considerati nel loro funzionamento reale, ma ridotti a “scatole nere” per le quali l’unico criterio di rilevanza consiste nella loro capacità di fornire potere di controllo sulla natura. Da questo punto di vista, la tecnologia nucleare è il vertice assoluto con cui l’umanità, attraverso la sua avanguardia tecnologica, giunge infine a usare “la materia stessa” (p. 54). In questa prospettiva, in cima alla gerarchia delle attività di ricerca sta il processo di diretta produzione dell’energia fissile: la “visione tecnocratica” si lega cioè a una “visione reattore” che pone al centro il “fiat” energetico e lascia in ombra tutti gli aspetti più legati a logistica e gestione.

Questo modo di porsi da parte degli ingegneri nucleari, che ha del sacerdotale, non è una semplice strategia di auto-legittimazione o una smargiassata con pretese poetiche. Chiaramente, già Hiroshima e Nagasaki avevano dimostrato che il nucleare, come dire, non scherza, ma Pottin si concentra soprattutto su una fase, quella che va tra l’inizio degli anni ’60 e la fine degli anni ’70, in cui in Francia la vera sfida del nucleare a uso non militare consisteva nel tentativo di riusare come combustibile delle reazioni future i residui delle reazioni passate. Si tratta del nucleare “a ciclo chiuso”, variante che permette di emanciparsi dall’uranio – materia prima naturale e quindi con gli inconvenienti di approvvigionamento già sperimentati con carbone e petrolio – e prefigurare un ciclo perfettamente auto-generato, artificiale, illimitato di produzione dell’energia.

Lo stile di pensiero sopra tratteggiato va quindi connesso a una strategia effettivamente grandiosa e apparentemente in grado di eludere almeno due delle critiche più correnti al nucleare “tradizionale”, cioè la limitatezza della materia prima e il problema della gestione delle scorie: “la chiave dell’ecologia nucleare, ciò che conferisce a questa energia tutto il suo interesse, il suo senso, la sua aura, la sua giustificazione morale” (p. 29), sta proprio nel ciclo di combustibile chiuso, questo archetipo delle “fantasmagorie circolari” (p. 135) oggi in voga.

Pottin ricostruisce la traduzione francese di tale vasto disegno in impianti industriali dai nomi programmatici (“Rapsodia” nel 1967, “Phénix”, nel 1973, e “Superphénix”, nel 1976), gettando luce sull’eredità del brusco arresto di questi progetti su scala mondiale, imposto nel 1977 dall’amministrazione Carter per ragioni di sicurezza (il ciclo dei “surgeneratori” necessita di grandi quantità di plutonio, elemento – chiave per la produzione della bomba atomica, rischiando quindi di consegnare questa arma in mani non volute). Le ricerche in Francia proseguiranno per alcuni anni, ma di fatto il grande progetto del “ciclo chiuso” esce dall’orizzonte, aprendo una questione oggi cruciale: come considerare quei residui trattati che dovevano essere il combustibile dei surgeneratori? Se il ciclo chiuso non è più realistico, almeno nel breve-medio periodo, questi materiali, conservati in gran parte a La Hague (Cotentin, Normandia) devono essere considerati come scorie e trattati di conseguenza. Quello che la “visione tecnocratica” non si degnava di tenere in conto, impegnandosi semmai con il “ciclo chiuso” nella soluzione alla radice del problema, diventa oggi una realtà inaggirabile, al centro di un dibattito parlamentare di enorme rilevanza, dai risvolti anche filosofici, centrato sulla “ontologia del residuo”, su cui Pottin si sofferma esaminandone tutte le pesanti implicazioni.

Ai fini di questa recensione incrociata è però giunto il momento di tornare al libro di Fressoz. Come detto, quest’opera contesta la narrazione più usuale della storia delle energie in epoca industriale, secondo la quale l’ultima arrivata appare il motore di un’improvvisa rivoluzione che coinvolgerebbe l’insieme del sistema economico e sociale. Contro questa impostazione “fasista”, capace di influenzare gli stessi studiosi di storia della scienza e della tecnologia, Fressoz mobilita un’articolata analisi di cifre, tendenze e casi emblematici, dedicati per circa i due terzi del libro all’Ottocento e quindi all’effettiva diffusione prima del carbone, poi del petrolio. In sé, la tesi di Fressoz, disarticolata e considerata caso per caso, non giunge quasi mai sorprendente: per esempio, per chi conosce un po’ la storia industriale italiane, dire che il carbone non ha sostituito le ruote idrauliche da un giorno all’altro è una formula timida e quasi fuorviante, visto che le ruote idrauliche in Italia sono state sostituite solo a fine ‘800 e non dal carbone, ma dall’elettricità, per di più in larga parte prodotta da impianti idroelettrici e non termici. Nondimeno, la sistematicità dell’esame di Fressoz va a comporre un quadro, nell’insieme, piuttosto impressionante e che ben pochi (chi scrive non è tra questi) potranno dire di aver avuto già presente in tutte le sue ramificazioni.

Per esempio, per uno come chi scrive, che lavora in un museo dell’industria, è impossibile non sapere che il Crystal Palace, il grande simbolo in vetro e ghisa dell’Esposizione Universale di Londra del 1851 e con essa dell’Occidente industrializzato, andò a fuoco qualche decennio dopo. Eppure, personalmente non avevo mai considerato il fatto, piuttosto elementare, che per bruciare completamente in un “normale” incendio una struttura in vetro e ghisa deve aver avuto anche abbondanti dosi di legno – materia pre-industriale, fuori contesto quindi, eppure presente. Ma il legno è presentissimo nelle miniere per scavare il carbone e anche nelle ferrovie con cui trasportarlo, tanto che l’economia-carbone si sviluppa non già facendo crollare o almeno diminuendo, ma aumentando la richiesta di legno.

Ma dove il libro di Fressoz incontra l’opera di Pottin, e con essa il dibattito contemporaneo sulla transizione energetica, è soprattutto dopo, nel Novecento, quando compaiono due novità dalle profonde conseguenze: la curva logistica e l’energia nucleare.

La curva logistica, o curva a S, è uno strumento intellettuale con cui saranno modellizzate le proiezioni riguardanti la disponibilità di fonti energetiche: ritenuta inizialmente una sorta di legge universale regolante gli ambiti più disparati, questa equazione giocherà un ruolo centrale nella futurologia energetica del XX secolo, dando una veste quantitativa alle croniche ansie collegate al futuro esaurimento della legna, del carbone e del petrolio. Nello specifico, la curva descrive una lenta ascesa iniziale, seguita da un rapido accrescimento e poi da un’inflessione, che porta la linea a convergere verso un asintoto.

Questo strumento concettuale sarà utilizzato soprattutto dai “neo-malthusiani atomici”, a cui Fressoz dedica il fatidico decimo capitolo del libro. Quanto scritto in questo capitolo è davvero di grandissima rilevanza e costituisce una sorta di espansione storica e teorica del discorso condotto da Pottin. In effetti, come detto, la storia dell’energia corre parallela alla storia dello spettro del futuro esaurimento delle fonti via via in auge. L’elettricità sposta solo in parte i termini della questione, perché anch’essa necessita di carbone, gas o petrolio per la sua produzione – questo almeno fino all’avvento dell’idroelettrico, su cui si concentrano le attenzioni di molti studiosi a inizio ‘900. L’atomo si pone in discontinuità rispetto a questi scenari, almeno nella variante del nucleare a ciclo chiuso. Dice infatti Fressoz: “Benché abbia prodotto molto poca elettricità, questa tecnica ha avuto un’importanza ideologica capitale” (p. 229). Lungi dall’apparire una sorta di ossessione francese, Fressoz sottolinea come il sogno del nucleare a ciclo chiuso abbia avuto origine addirittura nel 1943 al Met Lab (Metallurgic Laboratory) di Chicago, dove Enrico Fermi e molti altri scienziati stavano lavorando alla pila atomica. Continua Fressoz: “La surgenerazione dà un senso diverso al progetto Manhattan: i sapienti che vi partecipano non avevano solo contribuito alla fabbricazione della bomba – molti di loro militarono per il disarmo -, avevano anche aperto la via a un futuro energetico senza fine” (p. 230).

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti fondano l’AEC (Atomic Energy Commission), che commissiona una serie di studi, il più famoso dei quali è il rapporto Putnam “Energy in the future” (1953): è questo un passaggio cruciale, in cui la futurologia energetica si intreccia con il nucleare. Secondo tale rapporto, nel 2050 il 60% dell’energia sarà di origine nucleare, il 15% da rinnovabili e il resto dai residui fossili: come dice Putnam, “la transizione verso il nucleare sarà costosa, difficile, ma inevitabile” (p. 233), dove tale carattere di ineluttabilità è fondato anche in ragione del riscaldamento climatico, già preso in conto (si ripete: siamo nel 1953). Sono infatti proprio gli ambienti del neo-malthusianesimo atomico a portare in primo piano, oltre agli inevitabili “picchi” delle risorse fossili, anche il potenziale catastrofico del riscaldamento climatico, utilizzando entrambe le tendenze come potenti argomenti per finanziare la ricerca sulla surgenerazione. Va notato che il termine “transizione” non è affatto casuale: desunta dalla fisica atomica, la metafora della transizione indica già negli anni ’50 il passaggio al nucleare, mentre nel 1967 saranno i medesimi ambienti atomisti a utilizzare lo stesso termine entro una formula di grande attualità, quella di “transizione energetica”.

Interrompo qui la ricostruzione, che rischierebbe di diventare una parafrasi dato l’interesse delle figure citate e delle circostanze raccontare in queste pagine. Merita una menzione speciale l’italiano Cesare Marchetti: studioso di fama internazionale, noto come “Mr. Hydrogen”, Marchetti è uno dei protagonisti dell’ultima parte del libro di Fressoz perché scettico nei confronti nei modelli futurologici e per contro quasi fatalista rispetto alle curve storiche di consumi energetici, entro un impianto non informatico-previsionale ma storico-quantitativo – che è poi la linea di Fressoz.

Il punto-chiave è il seguente: per Fressoz, la parte più consistente del movimento ecologista contemporaneo ha fatto propria non solo una formula, quella di “transizione energetica”, nata in ambienti nuclearisti, ma con essa anche l’aspettativa di una sostituzione dei fossili con le rinnovabili, cambiando quindi solo di segno alla medesima prospettiva “fasista”. Peggio: “i dibattiti energetici [attuali] si ricollegano alla futurologia transizionista, con molto carbone sotto i piedi e l’utopia nucleare in meno” (p. 248). Fressoz è indubbiamente un buon scrittore di epitaffi, ma direi che questo, il più tombale, è anche quello più rappresentativo.

Facendo qui l’avvocato della decarbonizzazione, si potrebbe obiettare che i sostenitori delle politiche volte a contrastare l’uso delle fonti fossili non le hanno mai fondate su tendenze storiche che andassero in tal senso: dire che nel passato non c’è mai stata alcuna transizione e che le nuove fonti di energia sono sempre entrate in simbiosi con le precedenti è solo un modo per caratterizzare più da vicino la realtà con cui bisogna tagliare. La lotta contro il cambiamento climatico di larga parte del movimento ecologista, cioè, è consapevolmente “anti-storica”: dire che la transizione energetica operata dalle rinnovabili sarebbe la prima transizione energetica della storia e che essa non rispetterebbe ogni parametro registrato nei secoli passati, in fondo, sarebbe una sorta di conferma della portata rivoluzionaria della decarbonizzazione – in certo modo indizio “al contrario” della sua necessità, segnale certo della sua difficoltà, non della sua impossibilità.

D’altra parte, anche per il miglior avvocato dell’angelo (il diavolo del business as usual ne ha già di ottimi) sarebbe arduo non concedere a Fressoz che il caso dell’energia nucleare, per chi perora la transizione energetica come prima risposta alla crisi climatica, è una lezione cruciale. In primo luogo, i nuclearisti hanno sempre avuto ben presente, e utilizzato, la questione del riscaldamento climatico come argomento per un’alternativa ai combustibili fossili. In secondo luogo, considerare l’origine storica della transizione aiuta a far emergere quello che Fressoz giudica uno “scandalo scientifico e politico”: gli stessi studiosi e gli stessi modelli che prefigurano il futuro con fonti fossili in esaurimento sono diventati, nel giro di pochi anni, gli esperti e gli scenari che prefigurano il futuro con temperature in aumento. In questo passaggio (eccola qua, una transizione riuscita!), la differenza fondamentale è di carattere temporale: la transizione veniva pensata dai nuclearisti neo-malthusiani su scadenze più lunghe rispetto a quelle ipotizzate nel dibattito sul riscaldamento globale (negli anni ’70 venne assunto arbitrariamente un arco di 50 anni come tempo entro cui compiere una transizione “dolce”). Chiaramente, se l’abbondanza energetica promessa dal nucleare e i tempi lunghi consentivano di pensare a una transizione non traumatica, l’allontanamento del miraggio nucleare, i limiti delle rinnovabili e i tempi accorciati rendono la transizione, prima ancora che traumatica e ancorché non impossibile, del tutto irrealistica – questo soprattutto se non ci si limita all’obiettivo della decarbonizzazione dell’elettricità, ma si allarga la prospettiva all’insieme dell’economia. Fressoz fa qui esplicito riferimento alle emissioni necessarie per produrre petrolio, cemento, plastica e fertilizzanti, i “pilastri della modernità” di Smil, un autore che Fressoz cita in modo sistematico, discostandosene su punti significativi ma entro un orizzonte comune, come confermato dallo stesso divergente giudizio su Marchetti (p. 271).

Altro asse dell’attacco di Fressoz al transizionismo ambientalista ecologista è l’effettiva posizione assunta dalle élite rispetto al riscaldamento globale. Fressoz sottolinea come il “negazionismo climatico” non sia stato affatto egemone nella seconda metà del Novecento, nemmeno tra le élite politiche ed economiche. Fa in effetti una certa impressione leggere dello studio (nel 1976!) di un importante Think tank volto a esplorare i possibili impatti socio-economici sugli U.S.A. di un aumento delle temperature medie (p. 299). L’impressione viene sia dal carattere rassicurante gli esiti, considerati come localizzabili e calcolabili facendo riferimento alle caratteristiche geografiche e tecnologiche del Paese, sia dalla conferma del fatto che i rischi della crisi climatica non furono affatto denegati, ma studiati e, almeno in certi ambienti, accettati. Nel 1979 (!) il Ministero dell’Energia americano organizzò una conferenza internazionale sull’impatto del cambiamento climatico, ma furono molti i documenti e gli incontri internazionali dedicati al riscaldamento globale. Nel 1983 il rapporto Changing climate dell’Accademia delle Scienze prefigurò gli scenari che ci siamo abituati a sentire etichettare come “apocalittici” (+ 2 °C del corso del XXI secolo, vaste aree del Pianeta rese inabilitabili etc.), ma in una prospettiva per nulla apocalittica: altro che eco-ansia, regna una certa rassegnazione sorretta dalla fede nella capacità di adattamento, ovviamente di chi ha i mezzi per adattarsi. Secondo Fressoz, l’atteggiamento assunto dall’amministrazione U.S.A. tra gli anni Settanta e Ottanta, fatta valere negli organismi O.N.U. dedicati al cambiamento climatico via via costituitisi, è esplicitata in un documento interno della EXXON:

Possiamo:
– o adattare la nostra civiltà a un clima più caldo;
– o evitare il problema riducendo drasticamente l’uso dei combustibili fossili.
Il consenso generale è che la società ha abbastanza tempo per adattarsi tecnologicamente all’effetto-serra. (p. 301).

L’adattamento tecnologico qui accennato va riferito essenzialmente allo sviluppo dei surgeneratori, fonti inesauribili di energia elettrica e/o idrogeno: il ritardo del concretizzarsi del nucleare a ciclo chiuso innesca una procrastinazione sistematica della transizione a un tempo in cui essa sarà economicamente razionale.

Conclude Fressoz: “La transizione è l’ideologia del capitale del XXI secolo” (p. 333). Più affilatamente, la transizione non sarebbe in realtà che un’altra faccia del negazionismo climatico: “nata con ‘l’era atomica’, inquadrata come risposta lontana dei Paesi ricchi all’esaurimento delle fonti fossili, la transizione è stata ripresa, senza una giustificazione seria, per pensare la sfida climatica” (p. 353), diventando una sorta di alibi grazie al quale “soluzioni molto complesse nel futuro impediscono di fare cose semplici adesso”.

Su quali siano le cose semplici da fare adesso, Fressoz non entra quasi mai nel dettaglio, ma credo sia lecito interpretare nel senso seguente: le “cose semplici” sono scelte attuali di carattere politico ed economico, non dipendenti da soluzioni tecnologiche future. Se è così, si tratterebbe quindi di “cose semplici” solo se il mondo non fosse com’è, cioè se le scelte non fossero subordinate a vincoli economici e geo-politici non discutibili, che escludono (è uno dei pochi esempi di Fressoz) ogni discussione circa l’allocazione delle emissioni di carbonio (p. 285).

Se le tesi centrali dell’opera di Fressoz avessero maggiore circolazione a livello di dibattito pubblico, quindi, probabilmente il mondo non cambierebbe di una virgola, ma almeno la discussione sarebbe meno ingombrata da previsioni, proiezioni e modelli destinati a restare sulla carta perché scollegati da dinamiche accertabili già oggi, a 50 anni da quando avevamo ancora 50 anni per fare la transizione.

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