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Socialismo senza identità

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Marco Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene, Jaca Book, Milano 2018.

Delineare “il socialismo del XXI secolo” (quarta e ultima parte del libro) iniziando con un “tornare a Marx, ripensare Marx” (prima parte), detta così l’idea di Maurizi non pare originale. Se si va a leggere, però, lo svolgimento è molto, molto originale e la qualità filosofica del discorso molto, molto alta. 

Questo anzitutto perché il ritorno a Marx proposto è estremamente mirato: del lungo film marxiano vengono selezionati pochissimi fotogrammi (soprattutto il famoso paragrafo del Capitale dal titolo: “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”) e della sterminata filmografia marxista pochissimi testi, con un rimando sistematico alle analisi di Riccardo Bellofiore. Contro il Marx letto come filosofo dello storia, proto-sociologo o cosmologo viene sottolineato che Marx si è occupato davvero di una sola formazione economico-sociale, quella capitalistica: “Per comprendere il discorso di Marx occorre fin da subito collocarsi nel suo particolare punto di indagine, che è quello di porsi dal punto di vista dell’economia borghese e mostrarne le falle nella descrizione del modo di produzione capitalistico. L’analisi marxiana è interamente dedicata a mostrare questa discrepanza ed è interessata esclusivamente a spiegare questo modo di produzione” (p. 67). L’apporto decisivo di Marx consiste quindi nella critica dell’ideologia in quanto “rappresentazione che la cultura borghese dà del proprio rapporto con il modo di produzione capitalistico” (p. 86) – ideologia, quindi, identificata con il feticismo delle merci. 

L’analisi del funzionamento del feticismo viene condotta in modo estremamente raffinato, attraverso un parallelo con l’analisi dell’immaginario condotta da Lacan (qui Maurizi riprende e sviluppa un discorso svolto in maniera più ampia nel suo: “L’io sospeso. L’immaginario tra psicoanalisi e sociologia” del 2012). La lettura di Maurizi vede nella merce e del suo incantamento un fenomeno totale senza esterno o residui: ogni dimensione di una società capitalista è toccata dalla logica della merce e quindi, per esempio, il capitalismo non può essere denunciato quale fenomeno “contro-natura” perché la nozione di natura chiamata in causa risulta già una proiezione interna al mondo della merce. 

Il capitalismo segna in effetti un salto a livello di esigenza di occultamento dei rapporti reali, esigenza soddisfatta proprio dalla forma della merce: essa costituisce, agli occhi dei produttori, la dimensione in cui essi appaiono autonomi e indipendenti, contro le ancora visibili asimmetrie di fasi precedenti (p. 75). Per Maurizi bisogna passare da qui, per la soglia storica ineludibile costituita dal capitalismo e attraverso la critica del modo immaginario in cui il capitalismo disegna la natura e gli individui, per poter pensare una riappropriazione dell’essere sociale e per poter concepire un rapporto con la natura non regressivo. 

Il ritorno a Marx proposto da Maurizi è quindi, come si diceva, mirato, nonché denso di una serie di implicazioni a volte stridenti rispetto a molte versioni, anche raffinate, del marxismo: la lotta di classe come chiave di lettura della storia dell’uomo, il marxismo come sociologia, in particolare l’ideologia come sistema di idee attivo in ogni totalità sociale (Althusser) sono considerate declinazioni fuorvianti di un un’analisi che, come detto, è socio-storicamente situata, limitata cioè alla dimensione socio-economica di una particolare società, quella borghese. Nello specifico, per Maurizi non ha senso parlare di “ideologia socialista”: l’ideologia è esclusivamente l’effetto di illusione prospettica prodotto dal feticismo delle merci, quindi l’operazione che decostruisce tale illusione non può essere qualificata a sua volta come ideologia, pena lo svuotamento del concetto di verità e l’innesco di una deriva relativistica per cui di quale sia l’ideologia “vera” potrà decidere solo la prassi storica. 

Contro una possibile conseguenza di questa focalizzazione sul Marx critico dell’economia politica, cioè contro la tendenza a vedere in Marx il fondatore di una nuova scienza positiva avente come soggetto la classe lavoratrice, Maurizi sottolinea come l’analisi marxiana sia soltanto critica dell’economia politica, cioè “critica delle autorappresentazioni della borghesia” (p. 52): l’auto-cancellazione di questo soggetto (la borghesia) dischiude a un altro soggetto (la classe lavoratrice) il compito di un’analoga auto-soppressione (il proletariato come classe che abolisce la struttura antagonistica della lotta di classe). 

Questo è un nodo fondamentale per cogliere la singolarità teorica della posizione di Maurizi. Allievo di Gianfranco Dalmasso (che tra le altre cose è stato il “mediatore” di Derrida in Italia alla fine degli anni Sessanta), appassionato studioso non ordinario di Adorno, Maurizi si caratterizza per il trattare il nocciolo anti-identitario comune a decostruzione e dialettica negativa quale dimensione cruciale e interna alla critica marxiana. Non si tratta quindi della “solita” rilettura più o meno estrosa o provocatoria del moloch marxiano, ma di un attraversamento del pensiero di Marx che ruota attorno a un suo originario quanto denegato nucleo negativo. Non Marx a partire da Derrida e Adorno, quindi, semmai Derrida e Adorno in Marx (e non nel Marx “filosofo”, ma nel Marx critico dell’economia politica): in questo senso, il proletariato in quanto soggetto rivoluzionario non è una realtà sociale o politica già data, è uno spettro (il riferimento esplicito è a Derrida, “Spettri di Marx”) che la critica marxiana non può che limitarsi a evocare (“evocazione di una soggettività assente” è la suggestiva formula di Maurizi). Il principale problema storico, etico e politico di Marx starà allora proprio nel rapporto con questa alterità – alterità, in quanto tale, impossibile da determinare teoricamente (se non con proiezioni idealistiche), ma al contempo alterità cui la decostruzione del sapere borghese offerta da Marx deve aprirsi. La critica dell’ideologia è condizione imprescindibile per superare in senso socialista il capitalismo, ma resta un’operazione preliminare, destinata a diventare parte di un percorso di superamento del capitalismo animato da un soggetto altro. Ecco spiegato l’uso del verso di Fortini nel titolo del libro, ecco spiegato anche il titolo di questa recensione: “socialismo senza identità”, non nel senso di diagnosi di uno scacco ma come sigillo di un impianto teorico e politico anti-identitario. 

Il ragionamento appena ripercorso è seguito dalle “lezioni dell’Ottobre”, cui è appunto dedicata la seconda parte dell’opera. La Rivoluzione russa e le sue conseguenze, in effetti, pongono nel modo più crudo la questione del rapporto tra teoria e prassi, organizzazione e spontaneità. Maurizi testa subito sul principale bando di prova storico in materia la sua rilettura anti-identitaria di Marx. In altri termini e in breve: se la matrice teorica di Marx è davvero limitata alla decostruzione dell’ideologia borghese e se essa risulta strutturalmente incapace di determinare il movimento reale di superamento del feticismo delle merci, da dove esce lo stalinismo? Contro le letture liberali (stalinismo = comunismo) e contro la mostrificazione di Stalin (per cui lo stalinismo non avrebbe niente a che vedere con il marxismo), Maurizi considera lo stalinismo una degenerazione sempre possibile del marxismo in quanto prassi rivoluzionaria: “lo stalinismo è infatti legato a questioni teoriche e pratiche che ineriscono senz’altro al marxismo fin dall’inizio” (p. 98), e tali questioni sono appunto riconducibili al fatto che il socialismo è una teorizzazione di intellettuali borghesi (quali anche Marx ed Engels sono) che non può determinare le forme della propria appropriazione da parte di un soggetto altro (il proletariato). Lo stalinismo appare quindi un modo di coprire il “buco” (ineliminabile!) tra teoria e prassi attraverso una burocrazia capace di sincronizzarle a priori.

Siamo a un altro snodo cruciale: sbaglierebbe, chi si aspettasse da Maurizi una sorta di apologia dello spontaneismo. Del resto, se l’alterità non può essere determinata teoricamente, vale anche che la critica dell’ideologia è operazione specificatamente intellettuale, che la classe lavoratrice deve importare. Il “buco” non va eliminato, ma va rammendato, non allargato. Anche qui Maurizi riarticola schemi spesso dati per scontato, mostrando come per lo stesso Lenin l’opposto di “organizzazione” non sia “spontaneismo” ma “sottomissione allo spontaneismo”, e di come, per converso, per la stessa Luxemburg, l’opposto di “spontaneità” non sia “organizzazione” ma “burocratizzazione”, e la stessa spontaneità vada costruita attraverso una dialettica con l’organizzazione.

Stalinismo come soluzione (da rigettare) di un problema interno, anzi caratteristico del marxismo, e organizzazione come dimensione necessaria (anche se parziale) della prassi rivoluzionaria, queste sono le due lezioni principali dell’Ottobre. Un punto su cui sarebbe importante ritornare è il significato dell’Ottobre in quanto evento storico, in particolare il rapporto tra marxismo in quanto critica del capitalismo compiuto e rivoluzione russa in quanto irruzione in una società a capitalismo “arretrato”. Nei termini di Maurizi, la cosa è rilevante sia dal punto di vista dell’organizzazione, sia da quello della forma assunta dall’alterità rivoluzionaria. Dal punto di vista organizzativo, una mossa decisiva di Lenin fu l’alleanza con il movimento contadino per la riforma agraria, al centro della riflessione dei populisti russi (nemici mortali del Lenin bolscevico). Lo stesso Marx aveva affrontato il “caso russo” in termini non marxisti, cioè disconoscendo la necessità che una rivoluzione socialista potesse essere condotta soltanto dalla classe operaia di una società a capitalismo realizzato. L’alleanza va derubricata a tattica leniniana, vincente ma del tutto contingente? O va considerata, in qualche modo in linea con il ragionamento di Maurizi, una sorta di conferma o corrispettivo, sul piano storico-sociale, della matrice anti-identitaria del pensiero marxiano – l’alleanza operai-contadini come una sorta di alterità al quadrato, sottratta persino all’identificazione della classe operaia quale soggetto rivoluzionario? O è il segno che le categorie marxiane “ortodosse” tendono a squalificare forme di resistenza al capitalismo magari “sgrammaticate”, ma vitali? In caso sarebbe da tenerne conto, nel delineare il socialismo del XXI secolo.

Di certo, il problema dell’effettiva potenzialità rivoluzionaria della classe operaia è al centro della riflessione teorica tra il ’68 e ’77, cui Maurizi dedica la terza parte dell’opera. Ancora una volta, l’approccio e la scelta degli autori non è banale: appunto il presunto Maestro del ’68, poi squalificato a Maestro scemo nel dopo-’68 (Marcuse), il Vecchio ridicolizzato del ’68, poi sempre Vecchio ma solo inutilizzabile nel dopo-’68 (Adorno), infine la Nuova Guardia del ’77 (Foucault e Negri), poi perennizzata e rinforzata da Agamben. Le caratterizzazioni sono di chi scrive, Maurizi adotta invece un registro nel complesso controllato, anzitutto nell’utile messa in prospettiva della figura e dell’opera di Marcuse, visto non come la matrice concettuale del ’68 che è stato ma semmai come uno dei pochi ad aver colto subito i limiti del movimento e ad aver disegnato il profilo di quella che sarebbe (sarà?) una vera rivolta all’altezza della società del benessere. Il tono si increspa quando l’analisi si concentra sulla svolta anti-dialettica e vitalista del pensiero radicale degli anni Settanta. Questo snodo è stato affrontato da Maurizi anche nel più fortunato, almeno a livello di attenzione critica: La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana (Jaca Book, 2018). In estrema sintesi, lo spostamento del fuoco dell’analisi dal livello socioeconomico (quale era quello di Marx e della prima Teoria Critica, pur con i distinguo del caso) a quello biopolitico implica una dismissione senza rimpianti, anzi liberatoria, delle categorie della dialettica (anche nella versione adorniana), poiché il capitalismo completamente realizzato di fine millennio produrrebbe forze capaci di scompaginarlo – intensità che l’impianto dialettico non sarebbe in grado di cogliere, immalinconendosi nella diagnosi di una società ancora e sempre sussunta dal capitale. Come in Foucault microfisica del potere significa anche microfisica dei contro-poteri, così in Negri la macchina infernale dell’Impero è anche produzione di desiderio, piano di immanenza in cui solo può estrinsecarsi l’iniziativa delle moltitudini. La critica teorica di Maurizi, che assume la forma di una difesa puntuale del portato filosofico dell’impianto di Adorno rispetto ai presunti “passi oltre” vitalisti, introduce una critica politica a larga parte dei movimenti di sinistra contemporanei, esposta nella quarta e ultima parte dell’opera.

Qui si trova l’ultima, ma non la meno importante, delle sorprese riservate da Maurizi a chi legga questo libro cercando di applicare schemi classificatori ordinari. Anche se lo svolgimento filosofico delle prime tre parti è un incrocio raro di profondità e ampiezza, l’autore svela infine anche una dimensione schiettamente militante (in quanto distinta da meta-militante), tra l’altro non in ambiti dei più prevedibili considerato che si era partiti da un “ritorno a Marx, ripensare Marx”: qui infatti niente lotte operaie, né precariato, nemmeno val Susa, ma antispecismo di lungo corso. Quella che viene articolata è una durissima critica, con risvolti anche etnografici, del moralismo identitario sotteso a larga parte del movimento antispecista, ma in realtà comune a larga parte dei movimenti anticapitalisti contemporanei. Per “moralismo identitario” Maurizi intende l’idea che “cambiare il mondo significhi colonizzare gradualmente il resto della società a partire da un centro di illuminati” (p. 203). Tale atteggiamento si collega a una piattaforma teorica generalmente anti-marxista, segnata dall’intreccio tra l’onda lunga del ’77 e cultural studies, cui Maurizi riserva il resto delle sue attenzioni critiche. In sostanza, Maurizi attacca la tendenza dei movimenti radicali contemporanei a eludere il piano dell’analisi materialista, configurando le proprie rivendicazioni quali momenti di una piattaforma paratattica di lotte identitarie (intersezionalismo). Per Maurizi, il socialismo del XXI secolo non potrà avere questa forma, frammentata e “culturalista”, per il semplice fatto che questa impostazione non è anti-capitalista e non può essere quindi socialista. 

Saltando a una qualche forma di conclusione, il meno che si possa dire è che l’itinerario concettuale e politico proposto da Maurizi va studiato e meditato attentamente, da molti punti di vista. Resta da segnalare che, in molti passaggi, le analisi di Maurizi convergono con le prese di posizioni di Carlo Formenti nella sua costruzione della “variante populista”: accento su organizzazione e strutture contro enfasi su auto-organizzazione e spontaneità, critica di un certo operaismo (soprattutto Negri), critica delle rivendicazioni identitarie… Si aggiunga che lo stesso libro di Maurizi si apre con un’introduzione dedicata al populismo “come sintomo”. In realtà, questa introduzione, comunque meno riuscita del resto del libro, di fatto apre per subito chiudere i conti con il populismo in quanto presunta gallina dalle uova d’oro mediatico-elettorale (forse la vera ragion d’essere dell’attuale “momento populista”). Tanto che il libro si chiude con un’apologia della filosofia politica, non certo con alchimie a base sondaggistica o ermeneutiche dei flussi elettorali.

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