Il Fondo Laura Conti
L’Archivio e il lascito bibliotecario di Laura Conti sono giunti alla Fondazione Luigi Micheletti dopo un lungo e travagliato percorso, risoltosi infine con la decisione dell’erede testamentario, Dott. Marco Martorelli, di stipulare un “accordo” con la Fondazione, finalizzato alla conservazione, ordinamento, valorizzazione dei materiali che è stato possibile recuperare in quanto in sua custodia. È noto infatti, almeno tra gli addetti ai lavori e presso i numerosi estimatori di Laura Conti, che molte carte sono andate irrimediabilmente perdute mentre altre risultano disperse presso enti e singoli privati.
Anzi cogliamo l’occasione per lanciare un appello ai possessori di lettere o altri documenti della Conti, o ad ella indirizzati, di contattarci sia per una segnalazione che arricchisca il presente inventario, sia, ove possibile, per ottenere la fotocopia degli originali. Lo diciamo perché è doveroso ma abbiamo poche speranze, dato che, nel caso specifico, sono già stati fatti vari tentativi, utilizzando in tal senso anche il Convegno che il 23 marzo 2001 abbiamo dedicato a “Laura Conti e l’ambientalismo scientifico”.
In sostanza ci pare che per questo tipo di fonti continui a prevalere la sindrome che abbiamo tentato di analizzare nel volume dedicato al ’68 (cfr. P.P. Poggio, Alcune considerazioni sui diversi modi di archiviare il Sessantotto, in Il Sessantotto: l’evento e la storia, Annalidella Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, n° 4, 1990). Essa si dispiega in due direzioni con esiti negativi che si sommano e unificano: una spinta alla pura e semplice cancellazione delle testimonianze del passato, nella convinzione che i compiti del presente e del futuro non abbiano nulla da spartire con le questioni affrontate e studiate da chi ci ha preceduto. Questo è l’atteggiamento standard di senso comune, estremo portato di un’ideologia del progresso che continua ad operare in modo meccanico, senza neppure più le ambizioni e la consapevolezza che ne avevano fatto un momento grandioso e drammatico nella storia culturale dell’umanità.
Il predominio di una tale mentalità fa sì che proprio i movimenti e gli organismi di qualsiasi natura, maggiormente innovativi e che più incidono sul piano sociale e della cultura, come è stato ed è sicuramente, dei fenomeni legati alla questione ambientale, siano anche i più indifferenti rispetto alla propria storia, alla sua conoscenza e alla conservazione delle fonti documentarie.
Questa irrilevanza pubblica, e in fondo politica, che si attribuisce alla costruzione su basi filologicamente rigorose della propria vicenda storica, sintomo facilmente decifrabile di una subalternità introiettata, trova il suo risvolto nella “privatizzazione” della memoria e dei materiali documentari, più o meno gelosamente conservati ma assolutamente non resi pubblici, non messi a disposizione degli studiosi né ora né mai, ovvero distrutti coscientemente o casualmente. Quante volte biblioteche ed archivi a lungo custoditi vengono di colpo smembrati, mandati al macero, nelle discariche, o, nei “migliori” dei casi, vengono smerciati sulle bancarelle dell’antiquariato?
L’obiezione la conosciamo benissimo: ma voi volete conservare tutto, è una follia, un’assurdità. Non siamo così stupidi, tanto più che l’assoluta mancanza di spazi, che caratterizza la difficile vita delle istituzioni culturali, a fronte di spazi immensi pubblici e privati sottoutilizzati o inutilizzati, ci costringe ad essere ferocemente selettivi e a salvare, conservare, organizzare solo ciò che ha un indubbio, crediamo, rilievo storico e culturale.
La verifica di una tale affermazione, che potrebbe essere considerata tautologica, può essere fatta esaminando il presente inventario. Era da buttare e/o distruggere la documentazione su Seveso, una delle sezioni più corpose dell’archivio Conti, dato che gran parte della stessa esiste altrove in originale o in copia? Ma esiste davvero e, cosa più importante, è ordinata, descritta, accessibile? Non hanno alcun valore culturale e storico le lettere a Laura Conti e sue a Massimo Aloisi, Lelio Basso, Giovanni Berlinguer, Marcello Cini, Barry Commoner, Elisabetta Donini, Roberto Fiaschi, Alexander Langer, Gianni Mattioli, Raffaello Misiti, Giorgio Nebbia, Massimo Scalia, Isabelle Stenghers, Chicco Testa, Enzo Tiezzi, ecc.? Non sono forse dei tasselli preziosi per ricostruire il dibattito scientifico internazionale e gli orientamenti del nascente movimento ambientalista italiano e non solo, nel momento di presa di coscienza della crisi ecologica, tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso?
Sono domande retoriche dal nostro punto di vista, ma esse attendono una risposta concreta da parte di una storiografia dell’ambiente e delle culture ambientaliste che tarda moltissimo a decollare nel nostro Paese, e ciò per un insieme di ragioni che sarebbe arduo anche solo riassumere. Ne richiamo un paio: gli intellettuali dimostrano una sensibilità di gran lunga inferiore rispetto alle persone comuni di fronte al dispiegarsi della crisi ecologica; una frazione scientista-progressista la nega semplicemente, ovvero la attribuisce ad errori politici ed organizzativi a cui si potrebbe porre facilmente rimedio; alcuni l’attribuiscono al capitalismo, altri agli ostacoli che si frappongono al mercato (cioè al capitalismo); alcuni pensano che derivi dallo sviluppo illimitato della tecnica, altri dal fatto che le tecnologie non si sono ancora adeguatamente sviluppate. In ogni caso gli storici, con poche eccezioni, nonostante queste dispute e fenomeni ben più visibili, continuano a ritenere il tema di scarsa rilevanza, ovvero strettamente specialistico, da relegare ai margini della disciplina.
Una tale situazione assume poi connotati particolari e una forte radicalizzazione in Italia per le caratteristiche della nostra cultura umanistica, che ha perso totalmente i suoi legami con l’età da cui prende il nome, quando non esistevano barriere tra le due culture, essendo proprio la circolarità tra scienza, filosofia, arte, nonché tra lavoro manuale e intellettuale, tecnica e artigianato, il segno distintivo dell’Umanesimo e del Rinascimento. Non ci interessano i ritorni impossibili e i miti agitati retoricamente, bensì valorizzare figure di frontiera come Laura Conti, che, collocandosi ai margini o al di fuori dell’accademia, nella politica o nell’associazionismo, e sempre ai loro confini, costantemente rinnovandosi, criticando e autosuperandosi, hanno preso di petto con eccezionale intensità la maggiore novità storica della nostra epoca, un nuovo e drammatico paesaggio fisico e mentale, la cui comprensione e il cui governo richiede la nascita di una nuova cultura, nel compiersi della “modernità” e per il suo necessario superamento, come era avvenuto secoli addietro ai suoi esordi.
Il lavoro che qui presentiamo è stato reso possibile da un finanziamento della Fondazione Cariplo. Esso è da intendersi come un work in progress, che speriamo possa essere arricchito e migliorato, anche in base alle indicazioni che potranno giungerci dai lettori/visitatori di “altronovecento”.