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Fallacia del PIL

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Il 2003 si è aperto con una polemica sull’inflazione. L’Istituto Nazionale di statistica ha dovuto ammettere che c’era stato un errore nel calcolo dell’aumento del prezzo delle merci “campione” -il cosiddetto “paniere” – tenute sotto controllo. Sulla base di tale calcolo il pubblico è tenuto informato dell’avanzare o retrocedere dell’inflazione. Alcuni hanno interpretato questo errore (un valore del tasso di inflazione più basso di quello reale) come un atto intenzionale, grazie al quale sarebbe apparso che il governo del tempo, presieduto da Berlusconi, riusciva a tenere sotto controllo l’inflazione.

Sta di fatto che gli indicatori dell’economia sono esposti a incertezze ed errori che inducono (dovrebbero indurre) a usarli con grande cautela. Il più esposto a fallaci misure è il cosiddetto “Prodotto interno lordo”, PIL, un indicatore che descrive il flusso di denaro che attraversa l’economia di un paese. La sua elaborazione è stata resa possibile dagli studi di econometria basati sulla misura del flusso di denaro che circola da un settore economico all’altro, dai settori produttivi alle famiglie che comprano merci e servizi e a loro volta “vendono” lavoro agli stessi settori produttivi.

Le radici degli studi di contabilità nazionale affondano in tempi lontani, quando la rivoluzione bolscevica si rese conto che è possibile far funzionare correttamente una economia soltanto con una pianificazione capace di indicare le priorità produttive: elettricità, carbone, concimi, acciaio, grano, eccetera. E la pianificazione richiedeva la conoscenza di un quadro completo delle produzioni e dei loro rapporti: quanti concimi e trattori occorrono per aumentare la produzione di grano; quanto carbone per aumentare la produzione di acciaio; quanto acciaio per produrre i trattori?

Per dare una risposta a tali domande Lenin nel 1921 creò il Gosplan che organizzò un sistema statistico in grado di fornire attendibili informazioni su come e quanto ciascun settore economico «vende» merci a tutti gli altri settori e rifornisce, con le proprie tasse, le tasche dello stato; come le famiglie «vendono» il proprio lavoro ai vari settori economici e col ricavato acquistano i beni e i servizi necessari, al fine di rispondere alla domanda: per far aumentare del 10 percento la produzione di acciaio, di quanto deve aumentare la produzione di minerali, la richiesta di mano d’opera, di quanto aumenteranno i consumi delle famiglie?

Purtroppo una contabilità nazionale fisica comporta la necessità di confrontare e sommare “cose” estremamente eterogenee, ferro con patate, macchine con legname, carbone con zucchero, eccetera.

Ben presto l’ambizioso progetto – pur concettualmente corretto – fu abbandonato e le prime tavole intersettoriali dell’economia sovietica furono scritte in unità monetarie, così come ormai viene fatto in tutti i paesi del mondo sotto forma di “matrici” intersettoriali, o input-output.

Il giovane russo Vassily Leontief, che aveva partecipato ai primi studi sovietici sulla contabilità nazionale, elaborò le prime tavole intersettoriali in unità monetarie per gli Stati uniti alla fine degli anni trenta – il periodo del New Deal che fece uscire l’America dalla grande crisi attraverso una pianificazione delle spese e degli investimenti. Per tali ricerche Leontief ottenne il Premio Nobel per l’economia nel 1973 (<www.altronovecento.quipo.it> n. 1). Quasi contemporaneamente vari economisti proposero la definizione del PIL come somma della quantità di denaro che arriva ai settori dei “consumi” finali delle famiglie e dei servizi, più la quantità di denaro che viene investita per macchinari, edifici, eccetera, a vita media e lunga, più il costo delle merci e dei servizi esportati, meno il prezzo delle merci e dei servizi importati.

A partire dagli anni sessanta, con la “scoperta dell’ecologia”, vari studiosi hanno cominciato a spiegare che il PIL era un ben povero indicatore dello stato di salute di una economia. Tutti i “processi” di produzione e di consumo, descritti come scambi monetari, anche quelli apparentemente immateriali, sono accompagnati non solo dal movimento di migliaia o milioni di tonnellate di minerali, fonti energetiche, prodotti agricoli e forestali, metalli, merci, eccetera, per cui si paga un prezzo, ma anche dal movimento di una quantità, molte volte maggiore, di molti altri beni materiali tratti dalla natura. Dalla natura “si acquista” senza pagare niente, l’ossigeno indispensabile per la respirazione animale e per le combustioni industriali, o i sali del terreno necessari per la crescita delle piante; inoltre, nei vari processi vengono generate molte altre cose, come l’anidride carbonica e gli altri gas che finiscono nell’atmosfera, o le sostanze liquide e solide che finiscono nelle acque o sul suolo alterando i caratteri e la futura utilizzabilità di questi corpi naturali, spesso senza che venga pagato alcun risarcimento a nessuno.

L’economia consiste, insomma, nella “produzione di merci a mezzo di natura”, e non solo a mezzo di soldi o di altre merci, e si svolge come una grande “storia naturale delle merci”.

Per qualsiasi politica ambientale – l’applicazione di strumenti come imposte sui rifiuti (la carbon tax è un esempio), o di divieti alle emissioni, o di incentivi per tecnologie pulite – è indispensabile sapere da dove ciascun agente inquinante viene e dove va a finire. Ciò è possibile soltanto integrando le contabilità nazionali in unità monetarie, con una contabilità in unità fisiche che indichi non solo le tonnellate di materia o i chilowattore di energia che passano da un settore economico all’altro, dall’agricoltura, all’industria, ai consumi finali, ma anche i flussi di materiali tratti dalla natura senza pagare niente e utilizzati nei processi di produzione e di consumo, e i flussi di materiali che, provenienti da tali processi economici, finiscono come scorie o rifiuti nei corpi riceventi naturali.

Superando molti problemi contabili, qualche passo comincia ad essere fatto: tavole intersettoriali in unità fisiche sono stati redatti per la Germania e per la Danimarca e anche di recente per l’Italia (Accademia Nazionale dei Lincei, “Atti del convegno ‘Ecologia e economia’, 5 giugno 2000”, Roma, 2001).

È stato così possibile vedere che il  PIL annuo italiano è accompagnato dal movimento di oltre 6.000 milioni di tonnellate all’anno di materiali: grano e benzina, zucchero e acciaio, carta e plastica; e inoltre “beni” tratti dalla natura senza pagare niente (l’ossigeno dell’aria, i sali del terreno, esclusa l’acqua che viene usata in ragione di circa 50.000 miliardi di tonnellate all’anno) e si formano scorie e rifiuti gassosi (come l’anidride carbonica o gli ossidi di azoto e zolfo), liquidi e solidi che finiscono nell’ambiente naturale. Una grande circolazione natura-merci-natura dal regno della natura, ai vari settori dell’agricoltura, della zootecnia, dell’industria, fino ai consumi delle famiglie, tornando più o meno rapidamente, come scorie e rifiuti, nell’aria, nelle acque, sul suolo.

Depurando la massa totale dei materiali che attraversano l’economia italiana, quello che in un certo senso è il “costo fisico totale” dell’economia del paese, dalle numerose duplicazioni contabili, è possibile misurare un “prodotto interno materiale lordo” (calcolato con accorgimenti simili a quelli cui viene calcolato il PIL in unità monetarie) che ammonta per l’Italia, nel 1995, a poco meno di 900 milioni di tonnellate all’anno, poco più di 400 tonnellate per miliardo di lire (1995) di PIL, cioè circa 15 tonnellate per persona all’anno. Questo significa che ogni persona in Italia, per mangiare, abitare, muoversi, lavorare, guardare la televisione o andare a spasso, richiede ogni anno 15.000 chili di materiali, duecento volte il proprio peso, provenienti dall’aria, dalle cave, dalle attività agricole e industriali e dalle importazioni, poi restituiti come gas, liquidi o rifiuti solidi nell’ambiente naturale.

Purtroppo i precedenti dati sul “prodotto interno materiale lordo” sono basati largamente su stime perché ci sono carenze nelle informazioni sul flusso di materiali, anche “economici”, estratti dalla natura; nei volumi delle “Relazioni sullo stato dell’ambiente” o delle “Statistiche ambientali” ci sono tabelle con desolanti vuoti sulla massa di sabbia, ghiaia, calcari, pietre, eccetera, benché il loro peso superi i trecento milioni di tonnellate all’anno. Non si sa quanto siano i rifiuti solidi; le stesse relazioni contengono soltanto “stime” sulla produzione dei rifiuti solidi in Italia, con valori che oscillano fra 60 e 100 milioni di tonnellate all’anno. Sui flussi di materiali tacciono anche le imprese, non si capisce se per ragioni di doverose “riservatezze” aziendali o piuttosto per una vera e propria non-conoscenza di quello che attraversa i loro stabilimenti, del loro “metabolismo industriale”. La legge istitutiva dell’Istituto Nazionale di Statistica prescrive che non vengano rivelati (e forse neanche rilevati) molti dati sulle esportazioni e importazioni, anche se forse si tratta di milioni di tonnellate all’anno.

Ma vale poi la pena di scrivere una contabilità nazionale in unità fisiche? Eccome; essa consente (consentirebbe) di conoscere quanta materia deve essere movimentata per ottenere una unità di valore monetario; oppure da quale branca di attività economica proviene una certa quantità di rifiuti. Se una legge impone di diminuire le emissioni di un certo agente inquinante (è il caso della normativa sui rifiuti o sulle emissioni dei “gas serra”) quali settori economici saranno influenzati? di quanto diminuirebbe la produzione di plastica, o di automobili, o di acciaio, o di cemento? Di quanto diminuirebbe (o aumenterebbe) l’occupazione, o i prezzi delle merci che pesano sui bilanci familiari?

Perché allora tante lentezze nei rilevamenti e silenzi nella diffusione delle informazioni sulle uniche cose che contano, le materie e le merci che attraversano l’economia e la vita di ogni cittadino e delle imprese? Sembra che ci sia un deliberato disegno di evitare e nascondere tali informazioni,  lasciando tutto alla misura di quelle fumose grandezze che sono i numeri dei soldi.

E poiché anche i conti finanziari e monetari dipendono dai flussi fisici e dai loro mutamenti nel tempo, c’è seriamente da chiedersi quale credibilità abbiano i numeri sulla base dei quali vengono fatte le scelte di politica economica o viene misurato il PIL in unità di denaro, se “mancano” all’appello decine di milioni di tonnellate di sabbia e ghiaia che nessuno misura, se dalle statistiche “spariscono” 40 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti solidi, se sono coperti dal segreto industriale o militare i movimenti di milioni di tonnellate di merci prodotte, importate ed esportate?

Infine va notato che la contabilità fisica è l’unica nella quale non si possono fare furbizie o omissioni. Per il principio di conservazione della massa tutto quello che entra in una economia, si tratti di materie estratte dalla natura, o di merci scambiate da un settore produttivo all’altro, o di merci vendute ai consumi finali delle famiglie, o di rifiuti solidi, liquidi e gassosi generati nei settori della produzione e dei consumi, tutto deve “quadrare”, tutto si deve ritrovare, non si può nascondere o alterare niente. Bisogna, naturalmente, disporre di dati accurati, bisogna perfezionare le misure degli scambi fisici, bisogna chiedere la collaborazione dei movimenti ambientalisti, dei movimenti dei lavoratori: una grossa operazione di cultura tecnico-scientifica ed economica e di “socialismo”. Non a caso gli studi sulla contabilità nazionale in unità fisiche della Germania sono utilizzati dal movimento “politk und kultur” <www.puk.de> che auspica un nuovo progetto storico per la fine del capitalismo globale, una democrazia partecipativa per il socialismo del XXI secolo.

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