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Friedrich Engels (1820-1895)

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Dei due giganti, Marx (1818-1883) ed Engels, è forse Engels il più “ecologista”, se così si può dire, e vale la pena di ricordarlo anche per sottolineare la superficialità di certi “ecologisti” borghesi che sostengono che  Marx ed Engels non potevano avere capito niente di ecologia.

Dimenticando che Marx ed Engels sono stati contemporanei delle prime lotte operaie per il miglioramento dell’ambiente di lavoro nelle fabbriche, hanno denunciato l’obbrobrio  della speculazione e dello squallore delle città capitalistiche; che sono stati contemporanei di Darwin  e di Liebig (1803-1873, di cui si può vedere la scheda nel n. 6 di “altronovecento”) e di Haeckel (1834-1919, che nel 1864 “inventò” la parola ecologia) e dei grandi fondatori dell’ecologia  moderna, di George Marsh (1801-1882, l’autore del celebre “L’uomo e la natura”, 1864, ricordato in questo stesso numero della rivista), di Joule (1818-1889) e di Lord Kelvin (1824-1907), i  fondatori della termodinamica, e che di essi e di tanti altri conoscevano e discutevano le opere di biologia, fisica, chimica, matematica.

A proposito di attenzione ecologica meritano di essere riletti almeno alcuni brani tratti da tre delle opere di Engels.

Una è il libro “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, scritto nel 1844 (quattro anni prima della pubblicazione del “Manifesto”); il tema della cittè operaia è ripreso venti anni dopo  nel secondo libro qui esaminato, l'”Antidühring”; la terza opera è il saggio intitolato “Parte avuta dal lavoro nel  processo di umanizzazione della scimmia”, scritto intorno al 1876 e contenuto nella raccolta che conosciamo col titolo di “Dialettica della natura”. Per una comprensione di Engels è fondamentale il libro di Giuseppe Prestipino, “Natura e società. Per una nuova lettura di Engels”, Roma, Editori Riuniti, 1973 (ormai quasi introvabile in commercio).

“La  situazione  della classe  operaia  in  Inghilterra” nasce dal primo impatto del ventiquattrenne Engels, nato in una famiglia di industriali cotonieri di Barmen,  in Renania, con l’Inghilterra dove il padre lo aveva spedito, nell’autunno  del 1842, per aprire una  filiale a Manchester, e anche per allontanarlo dal clima rivoluzionario che stava affascinando il giovane Friedrich in Germania.

Il libro apparve in tedesco a Lipsia nel 1845, poi, con qualche correzione, in inglese nel 1887 e nel 1892; la traduzione italiana di Renato Panzieri fu pubblicata dagli Editori Riuniti di Roma nel 1955 (con  numerose ristampe).

Il libro è il resoconto di un lungo viaggio attraverso le città industriali inglesi, da Londra a  Dublino, Edinburgo, Liverpool, Nottingham, Leeds, Bradford, Manchester, e contiene le osservazioni di Engels sul modo di vita e di produzione nel paese capitalistico più avanzato del mondo, come risultato delle innovazioni tecnico-scientifiche per le quali Engels diffuse il nome di “rivoluzione industriale”, peraltro usato già pochi anni prima da Jerome Blanqui (1798-1854).

Engels riconosce nella forma delle grandi città inglesi il frutto della tendenza accentratrice dell’industria. “Anche la popolazione – scrive (p. 54 della traduzione italiana) – viene accentrata, come il capitale; e ciò è naturale perché nell’industria l’uomo, l’operaio, viene considerato soltanto come una  porzione del capitale, che si mette a disposizione del fabbricante  e la quale il fabbricante paga un interesse sotto forma di salario. Il grande stabilimento  industriale richiede molti operai, che lavorano insieme in un solo edificio; essi devono abitare insieme e là dove sorge una fabbrica di una certa grandezza, formano già un villaggio.”

Anche Marx tratterà a lungo, nella quarta sezione del I libro del “Capitale”, il potere dell’industria capitalistica di attrarre e concentrare gli operai in spazi ristretti e malsani, in rioni “angusti, cadenti e sudici” (come li chiama Engels, p. 57) nei quali il capitale si assicura profitti con gli investimenti nella speculazione edilizia.

“Già il traffico delle strade ha qualcosa di repellente, qualcosa contro cui la natura umana si ribella. Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti si urtano … si  passano accanto in fretta come se non avessero nulla in comune… La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale, emerge in modo tanto più ripugnante ed offensivo quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono  ammassati in uno spazio ristretto” (p. 57).

Il quadro coincide con quello descritto da Charles Dickens (1812-1870) nell'”Oliver Twist”, del 1837-38, e in “Tempi  difficili” (“Hard times, for  these  times”, 1854), ma non è molto differente dall’alienazione che si osserva negli innumerevoli neo-proletari che affollano, con le loro scatole metalliche motorizzate, le  nostre strade contendendosi qualche centimetro di spazio per un sorpasso.

Il volto violento della città industriale capitalistica può essere superato. In una società socialista,  industria e agricoltura possono convivere attraverso una pianificazione dell’uso del territorio, un tema sposto da Engels nell'”Antidühring”, l’opera del 1878.

“Solo una società che faccia ingranare armoniosamente le une nelle altre le sue forze produttive  secondo un solo grande piano, può permettere all’industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e conservazione, e rispettivamente  all’utilizzazione degli altri elementi della  produzione. Solo con la fusione fra città e campagna  può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con quella fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano  adoperati per produrre le piante, non le malattie”.

Per l’attuazione di questo progetto occorre, però, un diverso rapporto fra gli esseri umani e la natura, un argomento che Engels tratta nel saggio: “La parte avuta dal lavoro nel  processo di umanizzazione della  scimmia”, scritto vent’anni dopo  “La situazione …”, rimasto  per  anni allo  stato di manoscritto e pubblicato soltanto negli anni venti e trenta del Novecento. Nella  traduzione italiana (in “Dialettica della natura”, Editori Riuniti, Roma, 1956, 1971, pp. 183-195), fatta e curata da Lucio Lombardo Radice, è ricostruita anche la storia dell’opera.

Le pagine che trattano i rapporti fra l’uomo e la natura sembrano riecheggiare certi passaggi dei  “Manoscritti economico-filosofici del 1844” di Marx. “L’animale – scrive Engels, p. 192-193 della  traduzione italiana – si limita a usufruire della natura esterna, ed apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi  modificandola: la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza fra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza.

“Non aduliamoci troppo tuttavia per nostra vittoria sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha, infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze. Le popolazioni che sradicavano i boschi in Mesopotamia, in Grecia, nell’Asia minore e in altre regioni per procurarsi terreno coltivabile, non pensavano che così facendo creavano le condizioni per l’attuale desolazione di quelle regioni, in quanto sottraevano ad esse, estirpando i boschi, i centri di raccolta e di  deposito dell’umidità. Gli italiani della regione alpina, nell’utilizzare sul versante sud gli abeti così gelosamente protetti al versante nord,  non … immaginavano di sottrarre, in questo modo, alle loro sorgenti alpine per la  maggior parte dell’anno quell’acqua che tanto più impetuosamente  quindi si sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l’epoca delle piogge…

“Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo da essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo; tutto il nostro  dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di  conoscere le sue leggi e di adoprarle nel modo più opportuno”.

Curioso l’uso del termine “creature” da  parte di un ateo. Più avanti, Engels scrive (p. 195): “Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore.

“Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori  spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso ‘humus’  e  lasciassero dietro di sé nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte a un dato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto.”

Queste osservazioni valgono ancora oggi che stiamo costatando ogni giorno che la miopia nelle scelte di localizzazione e produttive, nel Nord e nel Sud del mondo, fa uscire da una trappola tecnologica ed ecologica per farci cadere in un’altra.

A chi volesse saperne di più su Engels raccomando di visitare il sito Internet <www.marxists.org/archive/> che contiene, fra l’altro, i testi originali e le traduzioni in varie lingue delle opere di Engels e di Marx.

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