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Giulio Alfredo Maccacaro: la scienza rifondata per il diritto alla salute di tutti e di ciascuno

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L’anno 1972 si presenta come momento di svolta, di definitiva scelta di militanza in campo scientifico, culturale e – necessariamente – anche politico per l’impegno di Giulio Alfredo Maccacaro “Arrivato in cattedra da giovane perché era realmente il più bravo” – avrebbe poi scritto di lui Renzo Tomatis in Il Fuoriuscito (Sironi, 2005), aggiungendo: “una riuscita scientifica fuori dal comune, una carriera brillante davanti a sé se solo l’avesse voluta, se non si fosse votato a rifondare gli studi e la pratica della medicina su basi giuste ed eque, ad abbattere le ingiustizie sociali assieme all’ignoranza e alle ipocrisie dei poteri baronali”.

Gli scritti qui selezionati esemplificano quanto fu fruttuosa l’integrazione del sapere scientifico simboleggiato – e liberato – da Maccacaro con il sapere operaio, rappresentato in particolare dal Gruppo di Prevenzione ed Igiene Ambientale del Consiglio di Fabbrica della Montedison di Castellanza, guidato da Luigi Mara. Da lì a poco sarebbero nati: già nel 1972 la collana Medicina e Potere curata per la Feltrinelli, di cui pubblichiamo la presentazione; nel 1974 la formidabile serie del nuovo “Sapere” edito da Maccacaro con – fra gli altri – Franco Basaglia, Marcello Cini, Benedetto Terracini, Giovanni Cesareo, Giovanni Jervis, Francesco Ciafaloni, Franca Ongaro e una moltitudine di collaboratori in tutta Italia; nel 1976 “Medicina Democratica” e nei primi giorni del 1977 – poco prima della prematura scomparsa di Maccacaro – “Epidemiologia e Prevenzione.

“Il suo discorso era trascinante, la sua logica rivoluzionaria travolgeva qualunque obiezione, –concludeva Tomatis – annientava e metteva in ridicolo i bastioni di difesa di un establishment corrotto e inefficiente. Attorno a Giulio c’era entusiasmo, passione, medici, biologi, sindacalisti, giornalisti, operai, un fervore di iniziative, sembrava che a Milano stesse per sorgere l’alba di una nuova era”.

Enzo Ferrara

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Il veleno occhieggia sui banchi

di Giulio Alfredo Maccacaro

“Se”, n. 3, supplemento al numero 102 di “Abitare”, gennaio-febbraio 1972, pp. 26-27

Ad un certo punto del tema di un suo scolaro, si leggeva: “Io abito Milano”. Mia moglie stava per aggiungere la preposizione “a” tra il verbo e il nome di luogo. Le fermai la mano. Convenimmo che tra le due versioni, quella spontanea e quella scolastica, si sarebbe aperto un abisso: di là una transitiva affermazione di possesso attivo, di qua la passiva intransitività di una notazione anagrafica. In mezzo, la ragionevole ipotesi di un errore infantile. Ma se un errore, come un

lapsus, può contenere il segno di un’inconscia speranza, è lecito che il segno di una matita rossa cancelli la speranza con l’errore? Non vale meglio crescere i ragazzi all’abitudine del dire “io abito la città” – perché diventi anche un argomento del chiedere, un modo dell’agire, una dimensione dell’essere – piuttosto che ridurli alla sottomessa banalità dell’“io abito in città”?

Abitare in città è anche accompagnare la moglie in un “supermercato” alimentare. Mi è accaduto recentemente e ne sono rimasto sconvolto: percorrendo la lunga suite di banchi e di scaffali – secondo un itinerario serpentino praticamente obbligato – ho visto ogni “ben di dio” e ogni male del diavolo. Ho visto le poche voci alimentari della mia infanzia aprirsi, quasi pirotecnicamente, ciascuna in una rosa di proposta: nove tipi di pane, decine di affettati, dozzine di formaggi; a non contare la varietà di biscotti e marmellate, bevande e succhi di frutta; a non dire delle puree in polvere, delle polente già pronte, delle minestre, zuppe, pizze e pietanze composite e precotte; a non ricordare le carni rutilanti, i vegetali verdissimi, le frutta policrome nelle trasparenze di plastica; a tralasciare le leccornie – torte, creme, gelati – di indeperibile freschezza per un differibile consumo…

Questo è quel che vedevo, io con gli altri. Ma gli altri non vedevano – allineata sugli stessi scaffali, disposta sugli stessi banchi, di fianco ad ogni bottiglia, dietro ogni scatola, sopra ogni barattolo, entro ogni confezione, sotto ogni involucro – una serie, ancor più varia e numerosa, di sostanze non naturali, mai benefiche, spesso dannose, talora tossiche. Non le vedevano, queste sostanze, perché non le conoscono e perché sono mescolate, disperse, disciolte nei cibi.

Per chi sa, una visita a un “supermercato” alimentare è una visita all’industria chimica.

Questa industria prepara – ricavandone enormi e crescenti profitti – migliaia di prodotti che noi ignoriamo ma inghiottiamo, quotidianamente. Sono una novantina i possibili additivi usati per dare al pane industriale e ai suoi analoghi (grissini, crackers, biscotti, etc …) la falsa e duratura fragranza necessaria ai lunghi temi di magazzinaggio, distribuzione e vendita.​

Sono un migliaio e mezzo gli aromi artificiali che vengono aggiunti ad alimenti cui i trattamenti chimici e fisici hanno tolto ogni sapore e odore naturali. Sono decine i colori con i quali vengono ritinti le frutta, le verdure ed altri cibi impalliditi dalle manipolazioni conserviere. Complessivamente, si calcola che siano almeno tremila i possibili additivi – e contaminanti! – dei nostri alimenti solidi e liquidi: nitrati, benzoati, acidi, alcali, perossidi, antiossidanti, glicoli, chelanti … a che serve continuare questo elenco lunghissimo? Serve di più capire che, da quando l’industria si è appropriata anche della produzione alimentare, essa ha mondato il nostro cibo di quei fattori naturali che potevano renderlo vario e deperibile, ma ha fatto ciò non per il nostro benessere ma per le esigenze del suo profitto che vuole un prodotto uniforme, stabile, di lunga vendibilità. Pertanto non ha esitato ad inquinarlo con un numero enorme di additivi chimici che servono ai suoi scopi quanto nuocciono alla nostra salute poiché sono – dimostratamente – possibili cancerogeni, mutageni, neurotossici, arteriosclerogeni e così via. Così, alla varietà naturale ha sostituito quella artificiale delle confezioni pittoresche e attraenti, alla freschezza la durabilità, alla naturalezza la comodità di preparazione.

La donna – cui necessità di lavoro, di trasferimento e di altra indole riducono sempre più il tempo domestico – ha creduto che il “supermercato” fosse un modo nuovo di comprare la roba di sempre. Non ha potuto rendersi conto che è soltanto il modo di sempre – falsa soddisfazione di un bisogno vero e vera creazione di un bisogno falso – per indurla ad acquistare, ormai anche nel piccolo negozio alimentare schiacciato dalla concorrenza, un nuovo prodotto industriale: un nuovo tipo di cibo. Oggi ancora, in parte, naturale ma abbondantemente “artificializzato”; domani, probabilmente, artificiale e, all’apparenza, “naturalizzato”. In ogni caso, un cibo contaminato e contaminante, povero e avvelenante.

“Io abito in città” o “io abito la città”? Mia moglie aprirà una discussione con i suoi ragazzi.

Intanto – i polmoni insudiciati dal suo fumo, le orecchie ottuse dal suo rumore, gli occhi

affaticati dalle sue luci, i nervi franti dalla sua tensione e il sangue, ora, avvelenato dal suo

cibo – e lei, la città inumana che abita il nostro corpo e lo consuma.

***

Presentazione della Collana Medicina e Potere

di Giulio Alfredo Maccacaro

È ipotesi di lavoro di questa collana che la medicina — come la scienza — sia un modo del potere:
che, anzi, nella conversione e gestione scientifica di dottrine e pratiche, contenuti e messaggi, enti e funzioni, ruoli e istituti, divenga propriamente potere, sostanza e forma del suo esercizio.
Come tale — pur nel comando cui obbedisce — è abilitata a dettare statuti, tracciare limiti, codificare eventi, attribuire significati: è cioè capace, ad un tempo, di legge e di giudizio, ovvero di assolutezza.
Anche la verità di questa ipotesi, come di altre, può essere saggiata ai limiti del suo campo di applicabilità: cosi l’analisi della pratica psichiatrica ai limiti della violenza asilare e quella della sperimentazione umana ai limiti dell’asilo violento confermano, con i loro risultati, la penetranza del metodo nella misura in cui questo raggiunge e scopre le radici di classe di un potere medico esercitato per conto di un privilegio sociale.
Ma i limiti se centrali mancano di generalità esauriente e se marginali si vestono di apparente eccezionalità: in un caso e nell’altro è sempre nelle loro vicinanze che si alza la polvere delle dispute di appartenenza; a un insieme o a un sistema, purché sia altro da quello imputato.
Per questo un’ipotesi già formulata ha bisogno di nuove verifiche, ulteriori ricerche, più ampie ricognizioni che attraversino tutte le mappe della cittadella sanitaria. Il potere che le appartiene, cosi come quello cui appartiene, può celarsi in ogni suo punto ma estinguersi in nessuno: cercarlo e scoprirlo è già sfidarlo.

***

Il primo documento di impostazione della rivista “Sapere”

Bozza di lavoro redatta nel 1972 per la prima riunione del gruppo che nel 1973 avrebbe dato vita alla nuova serie di “Sapere”; pubblicato in “Sapere”, gennaio-febbraio 1977, vol. LXXX, 797, pp. 2-4

L’iniziativa, se nasce, nasce qui ed ora: cioè in una società e in un tempo che vedono, da una parte l’aggravarsi delle contraddizioni del sistema capitalistico – peraltro in fase di recupero autoritario delle sue condizioni di sopravvivenza – e dall’altra una nuova crescita di consapevolezza e combattività della classe operaia – peraltro in fase di ricerca di una non ancora configurata ipotesi rivoluzionaria.

L’iniziativa ha senso soltanto se procede da una corretta lettura di tale contesto e se bene individua la sua collocazione – di conoscenza e di intervento – nello stesso.

Quindi si rifiuta ruoli di: aggiornamento divulgativo, meditazione filosofica, illuminazione enciclopedica, aruspicio scientifico. Non è interessata a discorsi del tipo: “una politica per la scienza”, ” gap tecnologico”, ” sopravvivenza planetaria”, ” Medioevo prossimo venturo”, ecc.

Non fa suoi temi scientifici – particolari o generali – in quanto tali o in quanto iscritti in una generica sociologia della scienza. Infatti l’iniziativa si concentra su un solo tema: scienza e potere. Il potere costituito dal capitale e il potere rivendicato del lavoro. La scienza come fattore di moltiplicazione del primo e come fattore di liberazione del secondo: dunque non opera di divulgazione scientifica, ma opera scientifica, cioè fondata sull’analisi delle esperienze delle masse, di propaganda delle sue contraddizioni; come la percepiscono dall’interno e lavoratori del settore, ma soprattutto come la vivono oggettivamente e soggettivamente, quelli che, “esterni” dal settore vengono lavorati. Far parlare chi di scienza muore e chi, sapendolo o no, di scienza fa morire. Riscoprire il primato politico della lotta dei primi che sola si può porre come momento unificante per la liberazione dei secondi.

Sa questa scelta derivano le successive.

Di impostazione

Rifiuto dell’ideologia e della scienza come realtà metastrutturale, il che significa rifiutare insieme il “privilegio” scientifico ed il “luddismo” scientifico.

La scienza e una dimensione della storia: quindi non esiste – almeno dalla rivoluzione industriale in poi – una scienza autonoma della storia ma nemmeno una storia autonoma dalla scienza. La rivoluzione borghese è stata anche una rivoluzione scientifica. Infatti la scienza serve oggi alla borghesia per conservare la sua egemonia sul proletariato, per negargli il suo ruolo storico. A sua volta il proletariato conquista il potere lo gestirà nella misura in cui si sarà appropriato anche della scienza. Che non sarà più la stessa in un comando diverso, ma una scienza rifondata. Non si tratta tanto di riappropriarsi cioè di far sì che altri, o tutti, si approprino di quel che c’è, della scienza che c’è, ma di costruire, cominciando col distruggere, delle possibilità alternative di pratica sociale nel campo della scienza. Vedi Rivoluzione culturale. La nostra iniziativa si pone dunque come momento di analisi storica della scienza data alla vigilia della sua messa in crisi pratica, di ricerca prospettiva sulla nuova scienza statu nascenti.

Di contenuti

Scontato, relativamente almeno, il dibattito su “scienza neutrale” e “scienza partigiana” – soprattutto nel senso tuttora moralistico e intellettualistico di un I do care e contro un I don’t care dello scienziato – si dovrà assumerlo a un livello qualitativamente superiore; corrispondente al confronto fra scienza “oggettiva” e scienza “soggettiva” che parallela, in Marx, il confronto fra “lavoro astratto” e “lavoro concreto”, questo e non quello essendo condizione perché i soggetti sociali realizzino se stessi. Il rifiuto dell’obiettivazione in medicina, la revisione bayesiana in statistica, l’emergenza della soggettività in probabilistica, la perversione probabilistica indeterministica delle scienze della natura, la domanda di una sociologia di trasformazione come alternativa quella di osservazione: sono ancora epifenomeni di una scienza oggettiva ma anche segnali della sua crisi. Sono ancora gestibili e gestiti dal comando capitalistico per la sua conservazione ma potrebbero individuarne punti di minor resistenza. Così come, per la nostra iniziativa, potrebbero essere altrettanti spunti di ricerca e di analisi.

Un secondo tema di fondo per l’iniziativa e l’uso della scienza: anche questo riscattato dalla falsa problematica del “cattivo uso della buona scienza” ma assunto a un livello corrispondente alla consapevolezza di come oggi la classe operaia “è” (vive, lavora, abita, consuma, si consuma, ecc.) in funzione della scienza e della tecnica. Se questo “essere in funzione” cioè questo “essere negato” è vero, tale è l’uso della scienza del quale l’iniziativa deve occuparsi estesamente e profondamente. Cioè non solo a livello della scienza in generale ma delle scienze particolari, una per una. Classificata non tanto sotto gli esponenti tradizionali (biologia, medicina, fisica, chimica, matematica, ecc.) quanto sotto altri molto più indicativi (scienze dell’informazione, scienze del controllo, scienze dello sfruttamento, scienze dell’esclusione, ecc.). Naturalmente questa classificazione è quasi ortogonale a quella e vale anche nella misura in cui serve a modulare su un appropriato registro critico la cosiddetta “informazione scientifica” dalla quale l’iniziativa non vorrà prescindere per ciò che – nel processo dell’acquisizione scientifica e tecnologica – conta veramente.

Caso particolare del precedente (uso della scienza) ma meritevole di particolare attenzione è il tema “dell’uso del problema scientifico”. Si vuol dire l’uso mistificante di problemi autenticamente scientifici (cioè oggetto possibile di conoscenza analitica della prassi è sintetica della teoria) stravolti o enfatizzati in modo da farne strumento di falsa persuasione per la copertura di contraddizioni che via via esplodono all’interno del sistema.

L’inquinamento generalizzato come base di una colpa collettiva di una assoluzione generale; l’esplosione demografica come premessa di un controllo discriminato della riproduzione; la medicina predittiva come falso scopo di quella preventiva; la verità delle malattie (dal cancro al diabete) come occultamento della patogenesi ambientale; la disuguaglianza genetica (vedi la periodica e recente riaccensione del dibattito sulla ereditarietà dell’intelligenza) come giustificazione di quella sociale; questi sono alcuni tra i molti possibili esempi.

Ancora un caso particolare di 1 e di 2 ma comunque da esplicitare con tutta l’adeguata evidenza è il tema della “trasmissione” della scienza e della tecnica. Analizzare – non solo nella scuola, ma nel laboratorio e nella fabbrica – quali sono il modo e il quanto di tale trasmissione, per verificare come essi siano attentamente, sempre ed in ogni sede, commisurati all’esigenza di evitare un’assunzione autonoma di valori scientifici usabili in contraddizione con il sistema che ne custodisce l’esclusiva. All’operaio la scienza è data come abilitazione tecnica, allo studente come abilitazione professionale, al ricercatore come abilitazione accademica ecc. 

Di metodo

L’iniziativa è di un gruppo in qualche modo circoscritto nel senso che – oggi – solo un gruppo in qualche modo circoscritto può concretamente promuoverla, però l’iniziativa non è del gruppo, nel senso di concludersi in esso. 

Quando ciò accadesse – e ciò accade per analoghe iniziative che conosciamo – dovremmo dichiarare decaduta l’iniziativa.

Pertanto se il gruppo, così come nasce, è un po’ fatto dai “soliti”, primo compito dei suoi membri sarà la ricerca degli “insoliti”, soprattutto come gruppi di lavoro.

L’iniziativa è di un gruppo che raccoglie persone già contribuenti in sedi diverse al dibattito proposto. Non si tratta, è ovvio di dare un luogo comune alla loro ricerca (operazione già da sé non inutile) ma un modo collettivo dal quale si esprimano i risultati di un’interazione. Quindi l’iniziativa avrà un nucleo operativo portante la cui funzione principale sarà quella di trovare e realizzare i modi di questa interazione.

L’iniziativa vuol porsi nella realtà è derivarne le sue scelte di metodo oltre che di oggetto. Pertanto insieme allo sviluppo di temi fondamentali che avrà individuato e che nei capi A e B hanno una prima proposta sommarie e provvisoria, si troverà ad affrontare l’analisi dell’organizzazione sociale del lavoro in alcuni dei suoi metodi modi pratici e teorici di articolarsi tra cui:

  1. il lavoro scientifico come parte del lavoro diviso, nella fabbrica;
  2. le istituzioni della ricerca scientifica;
  3. le istituzioni dell’insegnamento scientifico e tecnico;
  4. l’organizzazione sociale dello spazio;
  5. l’organizzazione sociale del tempo;
  6. la struttura del “ragionamento scientifico” come portato ideologico delle realtà precedenti;
  7. la struttura – funzione della divulgazione scientifica
  8. la struttura – funzione delle riviste scientifiche
  9. ecc.

Il discorso non sarà su questa ed altre realtà, ma dovrà nascere dal suo interno, dovrà analizzarla così come è, fatto per fatto, dato per dato, nome per nome. Non si tratta di enunciare un problema o di denunciare un fatto, ma di cogliere un problema sul fatto. Una esperienza criticano vale dieci articoli speculativi. La “lettura” di un documento vale dieci ipotesi.

Di linguaggio

“Parli” chi ha fatto l’inchiesta” (Mao Tse-tung) vuole anche dire “parli come chi ha fatto l’inchiesta” che non è “fatta” soltanto dall’investigatore ma dagli investigati, proprio (vedi capo A) nel momento in cui si afferma una scienza “soggettiva” contro una scienza “oggettivante”. L’iniziativa non potrà parlare un linguaggio che separi e quindi oggettivi un’altra volta l’uomo-cosato da l’uomo-scienziato.

Per difficile e faticoso che possa essere bisognerà fare un grande sforzo in questa direzione. Quando questo sforzo non possa, ragionevolmente, darsi quale traguardo il linguaggio più elementare per il più remoto (su un gradiente di privilegio sociale, quindi culturale) dei destinatari dovrà imporsi almeno quello dei trasduttori naturali del messaggio (l’operaio leader, l’insegnate di base, ecc.). Quando l’iniziativa diventasse comprensibile soltanto ai suoi attori, sarebbe il momento di buttarla via è di riformare ex novo il linguaggio.

Un buon esempio di cattivo linguaggio e quello di queste paginette.

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