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L’atto di nascita della “bioeconomia”. La conferenza di Nicholas Georgescu-Roegen alla Yale University

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La conferenza tenuta l’8 novembre 1972 dall’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994) alla Yale University può essere considerata come l’atto di nascita della “bioeconomia”.

La conferenza faceva parte di una serie di incontri organizzati dalla School of Forestry and Environmental Studies della storica università statunitense a seguito della pubblicazione, nel marzo dello stesso anno, di The Limits to Growth e del vivace dibattito che esso aveva suscitato.

Il rapporto commissionato dal Club di Roma era stato ricevuto malissimo nel mondo degli economisti, che si erano visti attaccare l’obiettivo supremo della crescita economica con un modello matematico e delle simulazioni al computer analoghe a quelli usate in econometria.  Georgescu-Roegen, membro della prestigiosa American Economic Association,  aveva pubblicato l’anno prima The Entropy Law and the Economic Process  e il gruppo di lavoro formatosi al MIT  intorno ai coniugi Meadows era stato profondamente influenzato dall’analisi entropica delle risorse naturali dell’economista rumeno. Georgescu-Roegen venne quindi invitato alla Yale University per partecipare alla serie di conferenze intitolata Limits to Growth: The Equilibrium State and Human Society.

Nella lettera inviata da Georgescu-Roegen a Giorgio Nebbia nel 1988, pubblicata nel numero 41 di questa rivista, l’economista rumeno conferma che impiegò il termine bioeconomia durante la conferenza di Yale.

Il termine gli era stato suggerito qualche mese prima da un accademico cecoslovacco, Jeri Zeman, che, invitandolo a contribuire con un saggio ad un volume sulla legge dell’entropia nella storia del pensiero scientifico e filosofico, gli propose di etichettare con la parola “bioeconomia” la sua particolare concezione del processo economico come un’estensione dell’evoluzione biologica. Seguendo una suggestione del biologo  Alfred J. Lotka (1880-1949), in effetti, Georgescu-Roegen aveva sviluppato l’idea che la specie umana, a differenza di tutte le altre specie viventi sulla Terra, grazie alla produzione di organi “esosomatici” -organi che a differenza di quelli “endosomatici” come i denti e gli artigli non sono forniti dalla nascita ma sono in qualche modo prodotti- era riuscita ad andare oltre le possibilità e i tempi dell’evoluzione biologica. 

L’evoluzione esosomatica, dall’amigdala alle ali degli aerei, con tempi rapidissimi in confronto a quelli delle mutazioni biologiche, ha permesso alla specie umana di raggiungere traguardi straordinari, ma nel contempo l’ha condannata a dipendere, unica tra tutte le specie, dallo stock finito di risorse naturali esauribili che giacciono sotto la crosta terrestre. Dovendo continuamente estrarre una parte della materia e l’energia necessaria al funzionamento del processo economico, e quindi alla sopravvivenza della propria specie, l’uomo è così diventato un agente geologico.

Per Georgescu-Roegen non tanto la limitatezza delle risorse terrestri quanto la loro esauribilità -dovuta dalla legge dell’entropia, “la più economica per sua natura tra le leggi naturali” – sfidava l’idea di una crescita economica continua.

L’economista rumeno aveva già esposto parte di queste idee nell’introduzione di un suo primo testo del 1966 intitolato Analytical Economics. Issues and Problems. Questo volume raccoglie i suoi lavori scientifici principali sulla teoria della produzione e soprattutto sulla teoria del consumatore, che è il fondamento logico di tutto l’edificio teorico neoclassico, la scuola di pensiero economico dominante nelle università e nelle istituzioni economico e politiche da 150 anni. Tra questi lavori è unanimemente riconosciuto come fondamentale il primo saggio del 1936 The Pure Theory of Consumers Behavior, dove Georgescu-Roegen mise in rilevo i presupposti logici estremamente irrealistici ma necessari per costruire quella “razionalità economica” basata sulla massimizzazione dell’utilità individuale, che deve necessariamente assumere, per dare coerenza formale alla teoria, l’aspetto geometrico di quelle curve di indifferenza che ogni studente universitario studia nel primo corso di economia politica.

Laureatosi in matematica, dopo il dottorato di ricerca in statistica alla Sorbona di Parigi e un periodo di formazione all’University College di Londra con Karl Pearson, ottenuta la cattedra di Statistica presso l’Università di Bucarest, nel 1934, grazie ad una borsa di studio della Fondazione Rockefeller, il giovane statistico rumeno era giunto ad Harvard. Qui aveva incontrato il grande economista Joseph Schumpeter che, dote le sue eccezionali capacità matematiche, lo aveva orientato verso lo studio dell’economia teorica.

Rientrato in Romania nel 1937, Georgescu-Roegen riprese il ruolo di professore di Statistica a Bucarest e venne nominato vicedirettore dell’Istituto Centrale di Statistica. Dal 1938 divenne membro del Partito Nazionale Contadino e direttore del Ministero del commercio estero. A contatto con la realtà di un paese fondamentalmente contadino, ma dotato di alcuni tra i più ricchi giacimenti di petrolio in Europa, e per questo preda delle varie potenze, Georgescu-Roegen maturò la convinzione che non soltanto l’homo economicus, che agisce meccanicamente in ogni tempo e luogo, è una finzione, ma che anche l’intero edificio neoclassico -che rappresenta il processo economico come un flusso circolare, autosufficiente ed isolato tra famiglie e imprese senza interazioni irreversibili con l’ambiente- è del tutto irrealistico.

Perseguitato durante la dittatura fascista prima e durante il regime comunista poi, nel 1948 Georgescu-Roegen venne costretto a fuggire dalla Romania con la moglie Otilia, riparando prima in Turchia e poi negli Stati Uniti, dove ottenne poco dopo la cattedra di economia alla Vanderbilt University a Nashville. A partire dal 1950, Georgescu-Roegen poté quindi riprendere i suoi studi critici sui fondamenti teorici dell’economia neoclassica, elaborando nel contempo una sua originale teoria economica che il 7 novembre del 1972 a Yale chiamerà per la prima volta “bioeconomia”.

In verità il termine bioeconomia era già stato utilizzato nel 1925 dal biologo russo T.I. Baranoff per definire i primi studi matematici sulla gestione delle risorse ittiche, studi che non avevano quindi nulla a che vedere con una concezione generale del processo economico come quella elaborata successivamente da Georgescu-Roegen.

Prima nel saggio introduttivo di  Analytical Economics del 1966  e poi in The Entropy Law and the Economic Process  del 1971, Georgescu-Roegen aveva quindi denunciato la  finzione dell’economia come “meccanica dell’utilità e dell’interesse personale”, individuando nell’ostinato attaccamento all’epistemologia meccanicistica -epistemologia che fin da inizio del Novecento era stata abbandonata anche dalla fisica stessa-  il limite costitutivo di una scienza economica  incapace  di prendere in considerazione gli aspetti culturali e le conseguenze ambientali del processo economico. Per comprendere e per cercare di governare queste problematiche, occorre per l’economista rumeno effettuare all’interno della scienza economica una vera e propria rivoluzione, un cambio radicale di paradigma, volto a rifondare lo studio dell’economia non sulla meccanica newtoniana – dove tutto è reversibile- ma sulla termodinamica e le scienze della vita (la biologia e l’ecologia), oltre che sugli aspetti storici, culturali ed istituzionali dei fenomeni economici.

Nel novembre del 1972, invitato ad intervenire nel dibattito che seguì la pubblicazione del rapporto del Club di Roma, Georgescu-Roegen riassunse queste idee generali cercando di smascherare, alla luce della sua visione del processo economico, quelli che definì come “miti economici”; non soltanto il mito della crescita economica continua, ma anche  il mito della sostenibilità dello stato stazionario, il mito della perfetta circolarità del processo economico, il mito dell’infallibilità del meccanismo dei prezzi, il mito di un’attività industriale libera da emissioni di inquinanti, il mito del potere senza limiti della tecnologia, il mito della sostituibilità infinita tra le risorse, il mito della salvezza economica, il mito dell’immortalità della specie umana…

Non si trattava di un messaggio disperato, ma di un richiamo alla realtà fisica e biologica dei fatti, partendo dalla quale occorre elaborare una nuova scienza economica basata su una nuova etica umanista: “Ama la tua specie come te stesso”.

Seguendo il suggerimento di Jeri Zeman, durante la conferenza a Yale, Georgescu-Roegen chiamò così per la prima volta questa nuova scienza economica bioeconomics  -per distinguerla dall’economics, l’ortodossia neoclassica dominante- ed espose i concetti di base del nuovo paradigma. Questi si fondano innanzitutto sull’asimmetria tra l’ammontare finito ed esauribile dello stock di risorse terrestri accessibili e il flusso di energia proveniente dal Sole, poco concentrata in intensità ma enorme in quantità rispetto a quella di origine terrestre.  Da questo punto di vista, l’agricoltura industriale, avendo sostituito le risorse di origine solari più abbondanti (il lavoro umano e animale e il letame) con risorse di origine terrestre più critiche (macchinari e fertilizzanti di sintesi) è per Georgescu-Roegen, dati i rendimenti fortemente decrescenti dei fattori produttivi in agricoltura, una “sperperatrice di energia terrestre”.

Georgescu-Roegen concluse la conferenza a Yale proponendo un “programma bioeconomico minimale”, che pubblichiamo qui di seguito.

Il testo della conferenza a Yale del 1972 verrà poi rielaborato e pubblicato come primo saggio nel volume del 1976 che prese lo stesso titolo del saggio stesso: Energy and Economic Myths.  L’opera contiene altri contributi su aspetti sia analitici che istituzionali dell’economia. Di più agevole lettura rispetto a  Analytical Economicse a The Entropy Law and the Economic Process , Energy and Economic Myths è indubbiamente il testo che ha permesso una maggiore diffusione del pensiero roegeniano.  Tradotto in italiano con il titolo Energia e miti economici e pubblicato per la prima volta da Boringhieri nel 1982, il volume venne pubblicato in una seconda edizione del 1998 con l’introduzione di Giorgio Nebbia, che si può leggere al link http://www.fondazionemicheletti.it/nebbia/sm-2040-n-georgescu-roegen-1998/

Come il lettore potrà rendersi conto, nel programma bioeconomico di Georgescu-Roegen l’aggettivo “minimale” è in evidente contrasto con la radicalità dei punti proposti, alcuni dei quali, come l’invito a liberare le menti dalla moda, fanno ancora storcere il naso anche a molti ambientalisti.    

Quello che possiamo affermare a 50 anni dalla conferenza a Yale è che, se da un lato tutti gli otto punti del programma -a cominciare dal primo sulla proibizione della produzione di armamenti- appaiono essere stati completamente ignorati, i problemi sui quali essi intendevano incidere sono divenuti sempre più evidenti, urgenti, pressanti, drammatici.  La parola bioeconomia, nel frattempo, è diventata essa stessa di moda, assumendo spesso le caratteristiche proprio di quei miti economici che Georgescu-Roegen intendeva con essa smascherare. La “bioeconomia circolare”, al di là di alcuni messaggi condivisibili che con questo termine si intendono divulgare, è l’esempio più evidente del modo distorto, rispetto al messaggio roegeniano, con cui la bioeconomia è oggi intesa e propagandata a livello delle agende politiche internazionali e nazionali; è per questo che negli ambienti eterodossi, dove il pensiero roegeniano è stato accolto e in qualche modo è fiorito, si parla, al riguardo, di uno “scippo semantico”.

A distanza di mezzo secolo, vale quindi la pena rileggere il programma bioeconomico minimale. Del resto, come scrisse nella prefazione a Analytical Economics il famoso economista statunitense Paul Samuelson, premio Nobel per l’economia nel 1970,  a cui l’economista rumeno dedicò Energy and Economic Myths, ogni paragrafo scritto da Georgescu-Roegen, “studioso degli studiosi, economista degli economisti”,  deve essere accuratamente masticato e rimasticato, chewed and rechewed.

Alberto Berton

***

Un programma bioeconomico minimale

di Nicholas Georgescu-Roegen

Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino 1982, pp.67-75

Nello studio A Blueprint of Survival viene espresso la speranza di una possibile fusione, un giorno, fra economia e ecologia. La stessa possibilità è stata già presa in considerazione a proposito della biologia e della fisica, e, secondo l’opinione più diffusa, sarebbe la biologia a fagocitare la fisica. Essenzialmente per lo stesso motivo – e cioè perché il dominio dei fenomeni considerati dall’ecologia è più ampio di quello dell’economia- l’economia dovrebbe diventare parte dell’ecologia, se mai la fusione si verificasse. Infatti […] l’attività economica di ogni generazione ha un’influenza su quella delle generazioni future; le risorse terrestri di energia e di materiali vengono usate in modo irreversibile e gli effetti dannosi dell’inquinamento sull’ambiente si accumulano. Uno dei più importanti problemi ecologici per il genere umano è, quindi, il rapporto fra la qualità di vita di una generazione e quella di un’altra, più specificatamente, la distribuzione del patrimonio del genere umano fra tutte le generazioni. L’economia non può nemmeno sognare di risolvere questo problema. L’oggetto dell’economia, come è stato spesso precisato, è l’amministrazione di risorse scarse; ma, per essere esatti, si dovrebbe aggiungere che questa amministrazione riguarda solo una generazione, e non potrebbe essere altrimenti.

Secondo un principio elementare di economia, il solo modo per attribuire il prezzo pertinente a un oggetto irriproducibile, per esempio alla Monna Lisa di Leonardo, è quello di chiedere a tutti di fare un’offerta. Altrimenti, se i partecipanti all’asta fossero solo due persone, una delle due potrebbe ottenere l’oggetto per pochi dollari: l’offerta, cioè il prezzo sarebbe viziato. Questo è esattamente quanto accade per le risorse irriproducibili. Ogni generazione può utilizzare tutte le risorse terrestri e produrre tutto l’inquinamento che vuole in base alla sua sola offerta. Le generazioni future non sono presenti, semplicemente perché non possono esserlo, sul mercato odierno.

Naturalmente la domanda della generazione presente riflette anche l’interesse di proteggere i figli e forse i nipoti. L’offerta può anche riflettere l’aspettativa dei prezzi futuri in un periodo di qualche decade. Ma né la domanda attuale, né l’offerta attuale possono includere, nemmeno in minima forma, la situazione di generazioni di un remoto futuro, per esempio quella del 3000 d.C., per non parlare di quelle che potranno esistere tra centomila anni. […]

Non è necessario aggiungere altro per convincersi che il meccanismo di mercato non può proteggere il genere umano dalle crisi ecologiche del futuro (e tantomeno per distribuire in modo ottimale le risorse tra generazioni), nemmeno se cercassimo di fissare prezzi “giusti”. Il solo modo per proteggere le generazioni future, perlomeno dal consumo eccessivo di risorse durante l’attuale abbondanza, è quello di rieducarci a provare una certa simpatia verso gli esseri umani futuri, così come siamo arrivati a interessarci del benessere dei nostri “vicini” contemporanei. Questo parallelo non significa che un nuovo orientamento etico sia una questione semplice. L’amore verso i propri contemporanei poggia su una base oggettiva, e cioè l’interesse personale di ciascuno. La domanda difficile cui si deve dar risposta per diffondere il nuovo vangelo non è “che cosa faranno i posteri per me?” – come si è argutamente espresso Boulding – ma piuttosto “perché dovrei fare qualcosa per i posteri?”. Che cosa ci fa pensare, domanderanno molti, che fra diecimila anni ci saranno i posteri? E sarebbe davvero cattiva economia sacrificare qualcosa per un beneficiario inesistente. A queste domande, che riguardano la nuova etica, non è possibile dare risposte facili e convincenti.

Esiste poi l’altra faccia della medaglia, anch’essa etica, e ancor più impellente […]. Dato che la natura degli uomini è quella che, arrestando dovunque la crescita economica, si congela la situazione attuale e si eliminano così le possibilità delle nazioni povere di migliorare la propria situazione. È per questo che un’ala del movimento ecologico sostiene che il problema dello sviluppo demografico sia solo un trucco utilizzato dalle nazioni ricche per distrarre l’attenzione dall’abuso che esse fanno dell’ambiente. Per questo gruppo esiste solo un male: la disuguaglianza dello sviluppo. Dobbiamo procedere, dicono, a una radicale redistribuzione della capacità produttiva fra tutte le nazioni. Secondo un’altra corrente, al contrario, lo sviluppo demografico è la minaccia peggiore per l’umanità e deve essere affrontata rapidamente e indipendentemente da qualsiasi altra azione. Come c’era da aspettarsi, queste due opposte visioni non hanno mai cessato di scontarsi in controversie inutili quasi violente, come è successo specialmente al Congresso di Stoccolma […]. La difficoltà risiede ancora una volta nella natura umana; si tratta di una sfiducia reciproca e profondamente radicata: quella dei ricchi secondo cui i poveri non smetteranno di riprodursi in numero sempre maggiore, e quella dei poveri secondo cui i ricchi non smetteranno di diventare sempre più ricchi. Un ragionamento sano, comunque, ci spinge a riconoscere che il gradiente differenziale fra le nazioni povere e quelle ricche è di per sé un male, e che sebbene sia strettamente connesso ad uno sviluppo demografico continuo, deve essere affrontato anche direttamente.

Dato che l’inquinamento è un fenomeno di superficie che colpisce anche la generazione che lo produce, possiamo stare sicuri che riceverà molta più attenzione del suo compagno inseparabile, l’esaurimento delle risorse. Ma dato che in entrambi i casi non si può parlare del costo di un rimedio per un danno irreparabile o della correzione di un esaurimento irreversibile, e non si può attribuire un prezzo appropriato alla prevenzione dell’inconveniente se le generazioni future non possono fare la loro offerta, dobbiamo esigere che le misure prese per entrambi questi scopi consistano in una regolamentazione quantitativa, nonostante il consiglio della maggior parte degli economisti di aumentare l’efficienza distributiva del mercato attraverso tasse e sussidi. Il programma degli economisti proteggerà solo i ricchi o chi ha agganci politici. Che nessuno, economista o no, dimentichi che l’irresponsabile disboscamento di molte montagne è avvenuto perché “il prezzo era quello giusto” e che gli è stato posto fine solo quando sono state introdotte restrizioni quantitative. Ma di dovrebbe rendere chiara al pubblico anche la difficoltà della scelta: che un esaurimento più lento significa minori comodità esosomatiche e che un maggiore controllo dell’inquinamento richiede un consumo proporzionalmente maggiore delle risorse. Altrimenti ci saranno solo confusione e controversie.

Una piattaforma ecologica ragionevole non dovrebbe ignorare nemmeno il fatto essenziale che, da tutto quanto sappiamo sulla lotta per l’esistenza in generale, è improbabile che l’uomo sacrifichi il soddisfacimento delle proprie necessità, naturali o acquisite, risparmiando i suoi rivali (compresi gli esseri umani futuri). Non c’è nessuna legge biologica che sostenga che una specie deve difendere l’esistenza delle altre a costo della propria. Il massimo che si può ragionevolmente sperare è che ci si possa educare ad astenerci da danno “inutili” e a proteggere, anche con qualche costo, il futuro della nostra specie proteggendo le specie a noi vantaggiose. Una protezione completa e una riduzione assoluta dell’inquinamento sono miti pericolosi che vanno smascherati come tali.

Justus von Liebig osservò che “la civiltà è l’economia del potere”. Al momento attuale, l’economia del potere, in tutti i suoi aspetti, richiede una svolta. Invece di continuare a essere opportunisti al massimo grado e in luogo di concentrare le nostre ricerche sui modi economicamente più efficienti per attingere alle fonti minerali di energia -tutte in quantità finita e tutte fortemente inquinanti- dovremmo dirigere tutti i nostri sforzi a migliorare i modi di utilizzazione diretta dell’energia solare, la sola fonte pulita e praticamente illimitata. Le tecniche già conosciute dovrebbero venire diffuse senza indugio fra tutti i popoli, così che tutti possano imparare dalla pratica a sviluppare le professioni necessarie.

Un’economia basata essenzialmente sul flusso di energia solare eliminerà anche il monopolio della generazione presente sulle future.

Questo non avverrà completamente, perché anche un’economia del genere dovrà attingere al patrimonio terrestre, soprattutto per quanto riguarda i materiali: si tratta di rendere minore possibile il consumo di tali risorse critiche. Le innovazioni tecnologiche avranno certamente un peso in tale direzione. Ma è l’ora di smettere di insistere esclusivamente – come a quanto pare hanno fatto finora tutte le piattaforme – su un aumento dell’offerta. Anche la domanda può svolgere un compito, in ultima analisi perfino maggiore e più efficiente.

Sarebbe sciocco proporre di rinunciare completamente alle comodità industriali dell’evoluzione esosomatica. Il genere umano non tornerà alla caverna, o meglio, all’albero. Ma in un programma bioeconomico minimale si possono includere alcuni punti

Primo, la produzione di tutti i mezzi bellici, non solo la guerra, dovrebbe essere completamente proibita. È assolutamente assurdo (e ipocrita) continuare a coltivare tabacco se per ammissione generale nessuno intende fumare. Le nazioni così sviluppate da essere le maggiori produttrici di armamenti dovrebbero riuscire senza difficoltà a raggiungere un accordo su questa proibizione se, come sostengono, hanno abbastanza saggezza da guidare il genere umano. L’interruzione della produzione di tutti i mezzi bellici non solo eliminerebbe almeno le uccisioni di massa con armi sofisticate, ma renderebbe anche disponibili forze immensamente produttive senza far abbassare il tenore di vita nei paesi corrispondenti.

Secondo, utilizzando queste forze produttive e con ulteriori misure ben pianificate e franche, bisogna aiutare le nazioni in via di sviluppo ad arrivare più velocemente possibile a un tenore di vita buono (non lussuoso). Tanto i paesi ricchi quanto quelli poveri devono effettivamente partecipare agli sforzi richiesti da questa trasformazione e accettare la necessità di un cambiamento radicale nelle loro visioni polarizzate della vita.

Terzo, il genere umano dovrebbe gradualmente ridurre la propria popolazione portandola a un livello in cui l’alimentazione possa essere adeguatamente fornita dalla sola agricoltura organica. Naturalmente le nazioni che adesso hanno un notevole tasso di sviluppo demografico dovranno impegnarsi duramente per raggiungere risultati in tal senso il più rapidamente possibile.

Quarto, finché l’uso diretto dell’energia solare non diventa un bene generale o non si ottiene la fusione controllata, ogni spreco di energia per surriscaldamento, super raffreddamento, super accelerazione, super illuminazione ecc. dovrebbe essere attentamente evitato e, se necessario, rigidamente regolamentato.

Quinto, dobbiamo curarci dalla passione morbosa per i congegni stravaganti, splendidamente illustrata da un oggetto contraddittorio come l’automobilina per il golf, e per splendori pachidermici come le automobili che non entrano nel garage. Se ci riusciremo, i costruttori smetteranno di produrre simili “beni”.

Sesto, dobbiamo liberarci anche della moda, quella “malattia della mente umana”, come la chiamò l’abate Fernando Galiani nel suo famoso Della moneta (1750). È veramente una malattia della mente gettar via una giacca o un mobile quando possono ancora servire al loro scopo specifico. Acquistare una macchina “nuova” ogni anno e arredare la casa ogni due è un crimine bioeconomico. Altri autori hanno già proposto di fabbricare gli oggetti in modo che durino più a lungo […]. Ma è ancor più importante che i consumatori si rieduchino da sé così da disprezzare la moda. I produttori dovrebbero allora concentrarsi sulla durabilità.

Settimo (strettamente collegato al punto precedente), i beni devono essere resi più durevoli tramite una progettazione che consenta poi di ripararli. (Per fare un esempio pratico, al giorno d’oggi molte volte dobbiamo buttar via un paio di scarpe solo perché si è rotto un laccio).

Ottavo (in assoluta armonia con tutte le considerazioni precedenti), dovremmo curarci per liberarci di quella che chiamo “la circumdrome del rasoio”, che consiste nel radersi più in fretta per poi aver tempo per lavorare a una macchina che rada più in fretta per poi aver più tempo per lavorare a una macchina che rada ancora più in fretta, e così via, ad infinitum. Questo cambiamento richiederà un gran numero di ripudi da parte di tutti quegli ambienti professionali che hanno attirato l’uomo in questa vuota regressione senza limiti. Dobbiamo renderci conto che un prerequisito importante per una buona vita è una quantità considerevole di tempo libero trascorso in modo intelligente.

Esaminate su carta, in astratto, queste esortazioni sembrerebbero, nel loro insieme, ragionevoli a chiunque fosse disposto a esaminare la logica su cui poggiano. Ma da quando ho cominciato a interessarmi della natura entropica del processo economico, non riesco a liberarmi da un’idea: è disposto il genere umano a prendere in considerazione un programma che implichi una limitazione della sua assuefazione alle comodità esosomatiche? Forse il destino dell’uomo è quello di avere una vita breve, ma ardente, eccitante e stravagante piuttosto che un’esistenza lunga, monotona e vegetativa. Siano le altre specie – le amebe, per esempio – che non hanno ambizioni spirituali, a ereditare una Terra ancora immersa in un oceano di luce solare.

***

Il crivello di Eratostene

di Giorgio Nebbia

Introduzione a Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp.7-21

Nicholas Georgescu-Roegen, l’autore dei saggi qui presentati, fu un singolare personaggio sia sul piano scientifico sia sul piano umano. La sua storia umana è stata raccontata da lui stesso in varie occasioni; notizie biografiche si trovano anche nelle introduzioni di vari libri.

Nato il 4 febbraio 1906 a Costanza, in Romania, da una famiglia abbastanza modesta, Georgescu-Roegen mostrò fin da piccolo una grande attitudine e passione per lo studio e per  “i numeri”; nella sua autobiografia ricorda con emozione la scoperta, fatta a sette anni, del “crivello di Eratostene”, il ben noto modo per riconoscere i numeri primi, e il sorriso di compiacimento del padre, morto quando il ragazzo aveva appena otto anni.

Dopo la licenza liceale, nel 1922 Georgescu-Roegen si iscrisse al dipartimento di matematica dell’Università di Bucarest dove si laureò nel 1926. Subito dopo la laurea ottenne una borsa di studio statale per seguire i corsi di dottorato a Parigi e cominciò a occuparsi di problemi statistici pubblicando i suoi primi lavori scientifici. Nel 1930 ottenne un’altra borsa di studio che gli consentì di studiare in Inghilterra con lo statistico Karl Pearson.

Nel 1932 Georgescu-Roegen fu nominato professore di statistica all’Università di Bucarest, e nel 1934, con un’altra borsa di studio, questa volta della Fondazione Rockefeller potè frequentare, negli Stati Uniti, Cambridge dove lavorò con Schumpeter, Leontief emigrato dall’Unione sovietica, Sweezy, Nicholas Kaldor, il polacco Oskar Lange. Prima di tornare in Romania, Georgescu-Roegen nel corso del 1933-34 visitò altre università americane dove incontrò fra gli altri Harold Hotelling (che nel 1931 aveva scritto un articolo fondamentale sull’esauribilità delle risorse naturali), Irving Fisher, Milton Friedman. Risale a questo periodo lo studio “The pure theory of consumer’s behaviour”.

Nel 1937 Georgescu-Roegen rifiutò l’offerta di una cattedra negli Stati Uniti e tornò in Romania, pensando che la sua esperienza di studio avrebbe potuto (e dovuto) essere utile al suo paese, un altro tratto della personalità di Georgescu-Roegen che avrebbe caratterizzato anche molte sue scelte successive. L’economia romena stava vivendo un periodo di sviluppo e modernizzazione dell’agricoltura e a questo si dedicò nell’Istituto per lo studio dei cicli economici, da poco creato sul modello di quello che esisteva a Vienna.

Negli anni precedenti e durante la seconda guerra mondiale Georgescu-Roegen fu membro del partito contadino ed ebbe vari incarichi ufficiali: fu delegato alla Commissione per una pace durevole presso la Società delle Nazioni e nel 1938 fu direttore del Ministero del commercio estero, nel turbolento periodo in cui la Romania era contesa, per le sue ricchezze petrolifere, fra la Germania nazista e l’Unione sovietica. Nell’agosto 1944 Bucarest fu occupata dalle truppe sovietiche e Georgescu-Roegen nel 1944-45 fu segretario generale della Commissione romena per l’armistizio.

Nel 1948 Georgescu-Roegen si trasferì negli Stati Uniti; dopo un breve soggiorno ad Harvard, nel 1949 fu nominato professore di economia all’Università Vanderbilt di Nashville, nel Tennessee dove rimase fino alla morte, avvenuta il 30 ottobre 1994.

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