Da quando, tra i cinquanta e i sessant’anni fa, la crisi ambientale è diventata uno dei grandi oggetti di discussione e di contesa a livello globale e soprattutto da quando ha iniziato a trasformarsi in un’emergenza sempre più evidente e drammatica, sono apparse e si sono sviluppate argomentazioni, strategie comunicative e azioni politiche il cui fine era disinnescare il potenziale destabilizzante delle misure che avrebbero potuto affrontare in modo realmente efficace la crisi.
Se da un lato – in modo più rozzo e aggressivo ma anche meno credibile – si è diffuso il negazionismo, da un altro lato ha operato in modo sempre più sistematico e capillare il greenwashing, la riverniciatura di verde di pratiche e politiche che lungi dal cambiare alcunché contribuiscono a perpetuare modelli devastanti di produzione, di scambio, di consumo.
Noi siamo di solito abituati a pensare a queste strategie comunicative e operative a un livello micro o su scala relativamente piccola, a livello di comportamenti individuali e soprattutto aziendali, ma appare sempre più chiaro che il greenwashing ha assunto una dimensione globale e onnipervasiva e permea da decenni l’operato di governi e di agenzie sovranazionali. Una grande rivoluzione passiva, per dirla con Gramsci, volta a impedire l’adozione di scelte in grado di contenere il degrado galoppante dell’ambiente ma che comporterebbero inevitabilmente la rimessa in discussione di modi di vita e scelte politiche consolidate ma che soprattutto porrebbero un limite severo alla logica espansiva che è propria del capitalismo e rimetterebbero al centro l’operato delle autorità pubbliche. Una riverniciata di verde e via: le angosce collettive sono placate; i movimenti sono depotenziati; consumi, crescita, profitti e rendite possono continuare nella loro infinita crescita. Anche se il pianeta e le vite di miliardi di persone sprofondano progressivamente nella catastrofe.
Se si vuole davvero provare ad affrontare la crisi ambientale non bastano quindi la formazione e l’informazione sui suoi meccanismi e i suoi responsabili, non basta la mobilitazione: serve anche una forte opera di smascheramento di questa rivoluzione passiva capillare che pretende di cambiare tutto solo in superfice, nei linguaggi, negli slogan, e in realtà nulla cambia.
Negli anni questa opera di smascheramento è stata intrapresa da molti, ma difficilmente ha raggiunto il grande pubblico e il greenwashing ha potuto espandersi a dismisura e plasmare il linguaggio comune, anzitutto quello di imprese e politici inquinatori. Per fare un esempio recente e magnificamente calzante, in Italia il primo ministro dell’ambiente espressione diretta dell’imprenditoria più devastante è stato quello che per primo è stato pomposamente investito del titolo di ministro della “transizione ecologica”.
Nel dossier che presentiamo in questo numero di “altronovecento” abbiamo cercato di raccogliere testi di diversa natura ma che permettano a chi legge di iniziare a farsi un’idea articolata del fenomeno del greenwashing.
Il primo testo è costituito dall’introduzione e dall’indice di un vero e proprio dizionario del greenwashing uscito in Francia nella scorsa primavera nella bella collana Anthropocene delle Editions du Seuil, una delle maggiori case editrici francesi. Questo “manuale per disinquinare il dibattito pubblico” consta di venticinque voci pensate dal collettivo tolosano Atécopol-Atelier d’écologie politique e scritte da una quarantina tra studiosi e studiose, militanti e collettivi e rappresenta un importante sforzo – realizzato con una grande attenzione alla chiarezza e alla comunicatività – sia per offrire un ritratto sufficientemente sfaccettato del fenomeno sia per mostrare come esso operi negli ambiti più diversi e con strategie linguistiche e psicologiche altrettanto diversificate. Un libro che andrebbe senz’altro tradotto in Italia e al più presto, con minimi adattamenti alla nostra situazione nazionale.
Con la sua curiosità, la sua capacità di osservare i fenomeni politici, sociali e culturali a 360 gradi e la sua lucidità, Giorgio Nebbia è stato pioniere in Italia anche nel denunciare tanto i fenomeni di negazionismo quanto quelli di greenwashing. Tra i numerosi scritti in cui ha illustrato le strategie del “cambiare tutto perché nulla cambi” in campo ambientale ne riproponiamo uno pubblicato nel 1999 nella rivista “Villaggio globale”, particolarmente icastico: “Quando sentite i sindaci che promettono la città sostenibile o il turismo sostenibile e fanno aumentare le automobili in circolazione o i motoscafi o le seggiovie, che distruggono i boschi e sporcano l’aria e il mare, beni che le generazioni future dovrebbero trovare tali e quali come li abbiamo trovati noi, siate certi che vi prendono in giro”.
Un’altra riproposta riguarda una strategia di greenwashing aziendale ma al tempo stesso globale: quella del gigante americano delle biotecnologie Monsanto (dal 2018 di proprietà della multinazionale tedesca Bayer), per decenni impegnato nel dipingersi come protagonista al tempo stesso della lotta alla fame e della protezione ambientale anche e soprattutto per nascondere gli impatti ambientali e sociali devastanti delle sue produzioni. L’inchiesta pubblicata nel 1998 da “The Ecologist” è considerata oggi un piccolo classico dello smascheramento delle grandi strategie comunicative del greenwashing e dei loro protagonisti: sia aziende che agenzie di pubbliche relazioni.
Chiude il dossier un breve e recente articolo dell’urbanista Paolo Pileri che ritorna sul nesso primordiale tra produzioni inquinanti, domanda di sostenibilità, pubblicità “verde” e continuazione pacificata di modelli di consumo devastanti illustrandolo mediante un caso di scuola: il SUV elettrico.