Piuttosto che iniziare facendo notare, come spesso accade nelle comunicazioni, la vastità del tema assegnato e la complessità delle questioni che quel tema implica, preferisco richiamare esplicitamente alcune vie che non ho percorso, perché non avrei saputo percorrerle, o perché non so bene dove mi avrebbero condotto, e perché voglio naturalmente contenere il discorso entro limiti accettabili.
Si possono dunque brevemente illustrare alcune delle numerose possibilità che il titolo proposto potrebbe suggerire ma che ho scartato (alcune delle aspettative quindi che andranno deluse).
In primo luogo, l’immaginario della tecnica e quindi l’immaginario dei tecnici: l’estetica dunque, consapevole o meno, della macchina, fino a giungere al design; ma anche le ricadute della cultura della macchina sull’estetica e sull’arte. Di qui un percorso teso a ricostruire i nessi fra arte e macchine, o più in generale fra arte e industria. Un tema, questo, indagato fra gli altri da Lewis Mumford in Tecnica e cultura, un libro non recente, ma che costituisce un riferimento obbligato (gran parte dell’opera di questo autore, del resto, rappresenta un riferimento essenziale per il tema che si sta affrontando). Mumford, dunque, notava che proprio nel periodo in cui si aveva fiducia nell’industrializzazione, in cui si credeva in un progresso certo, lineare e sicuro dell’industrialismo e delle tecnologie, proprio allora si riteneva la macchina brutta, e come solo la sensibilità degli artisti sarebbe poi stata in grado di fare i conti con la logica del macchinismo, a partire – dice ancora Mumford – dai cubisti, che si sarebbero misurati con un’estetica diversa, e da alcuni scultori, come Brancusi in particolare, capaci di vedere nella macchina anche valori estetici.
Un altro percorso possibile sarebbe quello che prende in considerazione l’influenza delle macchine sul pensiero, non tanto sulla storia del pensiero, sul pensiero dei filosofi, quanto sul modo di pensare di noi tutti. Credo che soprattutto, seguendo questa strada, ci si dovrebbe addentrare, da un lato, fra i timori e le speranze che oggi circondano il computer, l’informatica, la telematica, le reti; dall’altro, più concretamente, dovremmo interrogarci sulla diretta e quotidiana esperienza della maggior parte di noi, di persone che del computer utilizzano quasi esclusivamente i sistemi di videoscrittura e si sono resi conto che questa macchina non è priva di effetti sullo scrivere, forse anche sul pensare che sottende lo scrivere (io, per esempio, ho sentito il bisogno di preparare questi appunti prima a mano, su foglietti, per mantenere una visione complessiva del discorso, ma poi li ho organizzati e arricchiti usando il computer, e mi chiedo se questa comunicazione sarebbe la stessa se avessi proseguito il mio lavoro con penna e foglio …). Un altro modo di affrontare temi come quello proposto è poi quello di considerare i due poli, l’immaginario e la macchina, e di analizzarne i significati che via via hanno assunto. A questo proposito, la voce “Macchina” dell’Enciclopedia Einaudi è molto interessante, a partire dall’esame iniziale dei confini che separano l’attrezzo dalla macchina, con l’osservazione che la macchina è un attrezzo che pone una serie di mediazioni più forti tra chi lavora e il prodotto del lavoro. Si entra così in considerazioni ormai classiche, sull’inevitabile separazione che la macchina crea fra lavoratore, prodotto del lavoro e lavoro stesso, sull’alienazione del lavoratore quindi.
Quanto all’immaginario, è chiaro che il riferimento è quello della storiografia francese, della “nuova storia” francese che ha indagato la storia dell’immaginario.
Ma tralasciamo anche questo possibile percorso e insieme quello già accennato riguardante il posto della tecnica e delle macchine nella storia del pensiero, dalla sottovalutazione o addirittura dal disprezzo manifestato dal pensiero classico, in una società in cui esisteva il lavoro servile, a Bacone, “filosofo della rivoluzione industriale”, come sostenne Farrington, fino al destino della società occidentale pervasa dalla tecnica, con Heidegger, per altri versi con Jonas.
Del resto, non solo il pensiero “alto”, ma anche le mentalità diffuse hanno subito l’influenza profonda delle innovazioni tecnologiche: “le conquiste più durevoli della macchina – è ancora Mumford ad osservarlo – non furono mai gli strumenti in se stessi, che erano subito sorpassati, né i beni prodotti, che si consumavano in breve tempo, ma i nuovi modi di vita che essa rendeva possibili”.
È da una simile impostazione che mi è sembrato opportuno partire, cercando di riunire notizie e qualche osservazione attorno ad alcuni percorsi dell’immaginario collettivo in rapporto alle macchine, ad alcune costanti, potremmo dire, che si possono riscontrare nell’immaginario derivato dal rapporto con le macchine. In particolare, si cercherà di fermare il discorso soprattutto su macchine che conosciamo bene, che attraversano o hanno attraversato la quotidianità di tutti, almeno in Occidente, e di prenderle in considerazione non nel momento in cui sono state inventate o realizzate in prototipi, ma dopo, quando hanno iniziato il loro viaggio fra gli usi e i riti quotidiani e hanno poi finito per diventare presenze scontate. E’ naturalmente inevitabile occuparsi solo di alcune macchine, non perchè queste siano più importanti di altre nella nostra vita e nel nostro immaginario (se si parlerà di telefono e non di automobile, per esempio, non è perché si ritiene possibile sottovalutare il peso dell’automobile nel nostro modo di vivere e di pensare), ma piuttosto perchè la diffusione e gli usi di alcune macchine si propongono come un terreno di riflessione particolarmente fertile, proprio perché la loro assimilazione è giunta a tal punto da non riuscire quasi a pensare che non ci siano sempre state, da non mettere neanche teoricamente in conto che un giorno se ne possa o se ne debba fare a meno: così accade appunto per il telefono e l’auto, diffusisi pressapoco nello stesso arco di tempo e pure presenti in modo diverso nei nostri giorni e nella nostra mentalità (nessuno mette in discussione l’uso del telefono, mentre quello dell’automobile rappresenta, e rappresenterà probabilmente sempre più, un problema aperto).
In conclusione, si cercherà di mettere in luce il significato e il valore di una ricerca e di una riflessione sul tema dell’affermazione delle macchine nell’uso comune, della loro diffusione e dell’evoluzione della loro percezione, del loro ruolo nella nostra vita, del loro posto nell’immaginario collettivo.
Partiamo dalla prima macchina, la ruota idraulica, già conosciuta dai Romani ed applicata alla macinazione dei cereali, ma – ne ha spiegato le ragioni Marc Bloch – diffusasi solo dopo l’anno Mille. Quello che colpiva allora e che ha continuato a colpire l’immaginario collettivo si direbbe sia stato il carattere incessante del movimento della ruota del mulino. Probabilmente prima della ruota idraulica non c’era stata nell’esperienza di uomini e donne dell’antichità e poi del medioevo l’esempio di un movimento incessante, forse perchè ogni lavoro si basava sulla fatica muscolare, bisognosa di soste per rigenerarsi. E insieme al movimento vorticoso e continuo, la “voracità” del mulino, il suo essere una macchina che continuamente trasforma, “mangia” cereali. Si tratta di percezioni che hanno lasciato il segno in modi dire: “mangiare a quattro palmenti” significa, letteralmente, mangiare come un mulino dotato di due batterie di macinazione (i palmenti sono ciascuna delle coppie di macine: quella in movimento e quella “dormiente”). Un erudito del ‘500, Tommaso Guerzoni, ha invece codificato un’altra locuzione: quella che si usa per i denti posteriori, i “molari”, richiamando così implicitamente le mole, le macine del mulino. Si può notare che anche in questo secondo caso si propone un paragone che dalla macchina va all’uomo, al corpo. Si dice per altro anche, con espressione ripresa dal dialetto, “mettere in piedi un mulino” per significare l’avvio di una faccenda che non si sa quando si fermerà, appunto come la ruota ad acqua. Si direbbe che le prerogative riscontrate nella macchina si trasferiscano all’uomo e alle sue azioni: è forse, questa, una prima costante che si può individuare nel lavorio dell’immaginario di fronte alle macchine. Non solo queste, del resto, ma anche la loro manutenzione affiora in quella spia dell’immaginario che è la frase fatta: chi è troppo esuberante deve darsi “una registrata” così come, con scarsa cortesia, si dice di una signora attempata che inizia ad essere un po’ giù di “carrozzeria”. Sono modi di dire banali che rivelano un continuo scambio, un continuo confronto tra l’immagine delle macchine e l’immagine che noi abbiamo del nostro corpo. Dalle macchine all’uomo dunque, ma si può verificare anche il percorso inverso, che credo anzi oggi sempre più verificabile. Uno studioso di minerali e di miniere che si aggirava nelle valli bresciane e bergamasche all’inizio dell”800, il professor Gian Battista Brocchi, nota che “i fonditori trovano la più grande analogia tra le operazioni del forno e quelle del corpo umano a cui lo rassomigliano”. Occorre precisare che un forno era semplicemente una torre nella quale si immetteva, dall’alto, minerale di ferro e carbone di legna che, bruciando, provocava una certa reazione chimica e la fusione del minerale. Si otteneva così la ghisa, che si faceva uscire da un foro posto in basso, ma succedeva che a volte questa scendesse verso il basso troppo velocemente o viceversa, perchè il carbone era di scarsa qualità o umido oppure perchè non era stato introddotto al momento giusto e nella quantità dovuta, non fluisse all’esterno. Ecco allora che secondo i fonditori il forno, riferisce Brocchi, “va soggetto a scarichi eccessivi, soffre d’indigestione, corre il pericolo di costiparsi e conviene allora procedere con purganti solleciti”. Parlavano insomma della “macchina” rappresentata dal forno come del nostro apparato digerente.
Questa tendenza all’antropomorfizzazione non sarebbe comunque venuta meno neanche in seguito: il dar forma umana alla macchina si sarebbe rivelata, anche dopo la seconda metà dell”800, e nel nostro secolo, un’altra costante dell’immaginario collettivo. Nulla lo dimostra con maggiore evidenza del modo in cui è stato rappresentato, immaginato il treno a vapore, in primo luogo in quel grande poema ferroviario che è “La bestia umana” di Zola. La locomotiva, protagonista del romanzo, si chiama Lisonne, un nome umano, femminile, che immediatamente manifesta un immaginario. E infatti le vengono attribuite caratteristiche umane, tanto che respira, soffia, rantola, è dotata di una forza istintiva, selvaggia come quella di un cavallo da domare. L’umanizzazione della macchina cede il passo alla sua erotizzazione (proprio come avviene in molte pubblicità dei nostri giorni): il macchinista è maschio e la locomotiva femmina (“Lui – tiene a precisare Zola – l’amava la sua locomotiva … perchè le riconosceva qualità di brava moglie”). Oltre che “dolce e obbbediente” anche “di carattere”, la locomotiva è vorace, consuma, mangia non solo carbone ma anche grandi quantità di grasso, è formata da tanti pezzi e meccanismi, come il corpo umano (a sua volta immaginato, pensato come macchina), ed ha infatti la capacità di ammalarsi, fino a morire. Verso la fine del romanzo, la locomotiva ha un incidente che la lascia “agonizzante”, “riversa sulle reni, il ventre squarciato … con le ruote in aria, simile a una mostruosa cavalla sventrata da una terribile cornata.” Muore.
Oltre a queste costanti, al raffronto e all’osmosi fra macchina ed essere animato o addirittura corpo umano, ricorre puntualmente un altro modo di vedere: la macchina come oscura minaccia o, all’opposto, come dono, come promessa di una felicità e un benessere inimmaginabili fino al momento della sua comparsa. E’ sempre accaduto e accade anche oggi: il campo si divide fra ottimisti e pessimisti: “finalmente – dicono i primi di fronte all’innovazione – se ne sentiva il bisogno, ora il nostro mondo non sarà più lo stesso, la nostra vita migliorerà”; e invece i secondi: “ecco un altro colpo mortale ad un modo di vivere già compromesso, questa macchina ci cambierà la vita, nulla sarà più come prima”.
Il treno ha scatenato un universo di discorsi di questo genere. Non sono solo gli industriali e gli uomi d’affari, in un’epoca dominata dal libero scambio, ad essere favorevolmente colpiti dal treno. Non si forma un “partito” degli uomini pratici contrapposto ad un altro degli intellettuali che essendo intellettuali, ci si aspetta siano “critici”: sono gli stessi uomini di cultura a schierarsi diversamente.
Gli ottimisti – come Heinrich Heine, nel 1843 – vedono nella ferrovia un “evento provvidenziale, che dà nuovo impulso all’umanità”: “Con le strade ferrate lo spazio è ammazzato, annullato; non ci resta che il tempo … Mi par di vedere i monti e i boschi di tutti i paesi arrivare a Parigi, odoro già il profumo dei tigli tedeschi. Alla mia porta scroscia il Mare del Nord”. E non era da meno Hans Christian Andersen, entusiasta del viaggio in treno: “La velocità aumenta gradualmente; tu sei occupato con un libro, o studi la carta, e non sei sicuro se il viaggio è già cominciato, poichè la carrozza scivola come una slitta sui piatti campi di neve. … Oh, quale impresa grandiosa dello spirito è questa scoperta! … Voliamo come le nuvole in tempesta, come gli uccelli migratori in viaggio. Il nostro cavallo selvaggio sbuffa e ansima, dalle sue froge esce un fumo nerastro. Non avrebbe potuto Mefistofele volare più velocemente insieme con Faust sul suo mantello!”
Diverso il modo di sentire di Henry David Thoreau, per il quale il treno è solo l’antesignano di più gravi minacce: “Sento il fischio della locomotiva nei boschi … E’ la voce della civiltà del diciannovesimo secolo che dice: ‘Eccomi qui’. E’ una voce interrogativa, e profetica, e questa Cassandra viene creduta: ‘Fif! Fif! Fif! Come sono i terreni fabbricabili qui fra le paludi e i luoghi selvaggi? … attraverso i boschi solitari, ai confini dei paesi dove un tempo, di giorno, penetrava solo il cacciatore, nella notte più fonda sfrecciano questi salotti scintillanti, senza che quelli che li abitano se ne rendano conto … Ora la parola d’ordine è: ‘Fare le cose a tutto vapore'”.
Insieme al paesaggio, attraversato dalla ferrovia, è dunque il modo di viaggiare che il treno trasforma radicalmente, e col viaggio, potente metafora dell’esistenza, il modo di pensare. La velocità del treno – notava un altro “pessimista, Thomas de Quincey – non è solo superiore a quella dei cavalli, ma invisibile perchè non si rappresenta nello sfinimento degli animali, e chi va in treno, per dirla con Ruskin, diventa un “pacco umano” che viene trasportato senza esser toccato dallo spazio percorso. Posizioni come queste, avverte Wolfgang Schivelbusch, autore di una fondamentale Storia dei viaggi in ferrovia, non devono essere giudicate sbrigativamente come prese di posizione romantico-reazionarie, ma piuttosto come espressioni di un effettivo disorientamento quando la forma “naturale” del viaggio viene liquidata da una nuova. Del resto, certe critiche di allora al viaggio in treno affiorano a volte oggi per quello in aereo: ancora una volta il vantaggio della velocità si rivela come perdita di un’esperienza, della decisiva esperienza del viaggio, cui si connette l’occasione di riflessione che la contemplazione del paesaggio suscitava in chi lo attraversava in una carrozza a cavalli. Molti dei primi viaggiatori lamentavano che il treno non permetteva di fissare lo sguardo su nulla; eppure pensiamo, se non alla nostra diretta esperienza, a quanti film iniziano con un’inquadratura del paesaggio che scorre fuori dal finestrino, che nella maggior parte dei casi non trasmette una sensazione di tensione e sofferenza, ma di calma e di benessere, anche se a volte velati di rimpianto per quel che si è lasciato. Schivelbusch sostiene che bastarono pochi decenni perché all’iniziale confusione si sostituisse un nuovo modo di vedere il paesaggio dal treno, una “visione panoramatica”, capace di proporici l’insieme e non la serie rapidamente cangiante degli oggetti. Ma non sarebbe passato molto tempo e l’esperienza del viaggio e la connessa percezione del paesaggio avrebbero subito un altro sconquasso, e a sensibilità acute come quella di Marcel Proust si sarebbe posto il confronto fra il viaggio in treno e quello in automobile. Il viaggio con questo mezzo, secondo lo scrittore francese, “sarebbe perfino, in un certo senso, più vero, perchè si seguirebbe più da vicino, in una più stretta intimità, le diverse gradazioni secondo cui muta la faccia della terra”. Proprio nella constatazione che l’auto intacca “il piacere specifico del viaggio” consentendo, a differenza del treno, di “scendere durante il tragitto e di fermarsi quando si è stanchi”, possiamo cogliere l’implicito riconoscimento del fatto che il nuovo mezzo a motore permette di recuperare una padronanza sul viaggio che solo le carrozze e il cavallo avevano consentito e che il treno, tanto più l’aereo, hanno annullato: viene da pensare che nel nostro non poter fare a meno dell’automobile giochi anche un sentimento, un modo di sentire di “lunga durata”, come direbbe uno storico francese, che ci fa continuare a vedere nel viaggio un’espressione di libertà, una prova di autonomia. Forse, nel nostro pervicace attaccamento all’automobile non c’è solo la voglia di correre, ma anche l’impressione, illusoria, di poter ancora essere padroni del nostro viaggio, con tutte le eco metaforiche che questo implica. Di qui, anche, la difficoltà a convincerci che invece, quando saliamo in automobile e partiamo, il più delle volte ci immettiamo in un convoglio che avanza, non sempre velocemente.
Tornando al treno – che come si vede offre spunti e occasioni disparate per riflettere sul rapporto fra macchine e immaginario proprio perchè, come ha notato Remo Cesarani nel suo Treni di carta, al centro di quel “lento lavoro svolto dalla letteratura europea per familiarizzare, addomesticare, sublimare un’esperienza lacerante della modernità” – è stato notato che ci volle parecchio tempo perchè i contemporanei si rendessro conto che la macchina non era rappresentata solo dalla locomotiva, ma dall’insieme locomotiva-vagoni-rotaie-depositi di carbone-serbatoi d’acqua-stazioni e, non ultimo, telegrafo, garante della sicurezza in un’epoca in cui un’uniformazione non ancora completamente raggiunta degli orari su scala nazionale esponeva al pericolo che due treni corressero l’uno verso l’altro sullo stesso binario. Ecco allora il telegrafo e i pali che ne sostengono i fili come parte essenziale del paesaggio ferroviario, e le sue conseguenze sul lavoro e l’identità del macchinista, non più paragonabile, come nei primi tempi, ad un “capitano di terra”, ma ridotto ad operaio che lavora ad una macchina. Ma il telegrafo è anche altro, è l’anello di congiunzione tra la prima e la seconda rivoluzione industriale, tra la rivoluzione della macchina a vapore e quella dell’elettricità. Ci si presenta così un altro grande scenario, quello della “notte che diventa giorno”, secondo l’impressione che i contemporanei della comparsa dell’illuminazione elettrica ne riportarono. Oggi difficilmente riusciamo a farci un’idea di quanto erano buie le città, di cosa volesse dire aggirarsi per le strade potendo contare solo su una lanterna e qualche lampione isolato. Non può stupire che nei primi tempi si sia immaginato, in alcune città europee, di sfruttare il nuovo sistema di illuminazione urbana costruendo un’unica grande lampada che illuminasse tutta la città, eppure ci sono stampe ottocentesche che propongono simili visioni da incubo. Della luce elettrica, nella sostanza, pare dunque si sentisse il bisogno: prima dell’elettricità a dare luce è il gas, che era entrato in scena come energia pura ma il cui gradimento era stato incrinato da alcune circostanze. In primo luogo la forma che la sua distribuzione assume. Come si era compreso che le ferrovie non potevano non essere gestite come un’unica grande rete sincronizzata, così si impone la necessità che anche il gas si diffonda attraverso una rete estesa e capillare che parte da quegli enormi gasometri che a lungo saranno sentiti come uno sfregio del paesaggio urbano. Ma non solo di questo si tratta: il fatto è che ai contemporanei non piace sentirsi collegati in un’unica grande rete. Anche in questo caso il sentore di una minaccia alla propria autonomia, quindi. E le analogie fra la percezione del nuovo modo di viaggiare e il nuovo sistema di illuminare le case non si fermano qui: si ha paura che la macchina a vapore scoppi, ma ancor più temibili sono le esplosioni del gas. Nelle cronache del secolo scorso si rincorrono le riflessioni sulla convenienza dell’uso di una fonte di energia tanto pericolosa e, naturalmente, c’è chi sostiene che ogni progresso ha un prezzo, ci sono cioè anche in questo caso i pessimisti e gli ottimisti, e fra questi ultimi, sempre, le istituzioni e le autorità pubbliche (un po’ come si è verificato ai nostri giorni per quanto riguarda il nucleare).
L’elettricità, pur non esente da pericoli, soppianterà comunque il gas, con la stessa convincente motivazione, e senz’altro con qualche ragione in più, grazie alla quale quello si era imposto: la purezza. La distribuzione dell’energia elettrica, pure organizzata attraverso una vasta rete di cui l’utente diviene uno dei numerosissimi terminali, non suscita d’altra parte le diffidenze e le critiche che la distribuzione del gas aveva suscitato: è lo stesso Schivelbusch, in un altro libro, Luce, ad avanzare una spiegazione suggestiva del fatto. La rapida accettazione dell’illuminazione elettrica non deriverebbe solo dalla constatazione che un filamento incandescente è assai meno invasivo di una fiamma a gas, ma anche dal fatto che nel frattempo si è creata nella mentalità collettiva l’immagine di un movimento pervasivo e velocissimo, com’è appunto il movimento dell’elettricità, ma anche quello che il sistema economico ha assunto nello stesso momento in cui l’elettricità si è presentata sulla scena: il movimento del capitale finanziario. Non sono più merci ingombranti e pesanti, perciò lente, che viaggiano, ma denaro, invisibile e rapidissimo nei suoi spostamenti. L’idea che si diffonde è che il futuro stia in questo movimento che arriva dovunque “in tempo reale”, un movimento di cui l’elettricità è metafora quanto mai pertinente ed efficace. Avrebbe avuto una tale forza di suggestione questa immagine da condizionare anche uomini cui è difficile attribuire simpatie per il capitalismo finanziario, come Lenin, sostenitore dell’equazione “elettrificazione + potere dei soviet = comunismo”.
Nella trionfale affermazione dell’energia elettrica applicata all’illuminazione non mancarono comunque i pessimisti, i critici come Michelet, che nel 1845 descrive l’atmosfera di una fabbrica illuminata: “Mi fa impressione che la sala dove si lavora sia illuminata sempre con la stessa luce, giorno e notte, e che non ci sia neanche un angolo scuro”. È la sensazione di un controllo continuo e totale che si realizza entro una dimensione nella quale il tempo è stato cancellato.
Senza nulla togliere al ruolo decisivo dell’illuminazione elettrica, è importante notare che essa agisce – nel racconto di Michelet – in un luogo nel quale altro ha determinato una nuova concezione del tempo, nel quale oltre alla luce elettrica l’orologio – la vera macchina della modernità, diceva Mumford – fa ormai valere la sua legge. Se la notte è uguale al giorno, nella fabbrica, non è solo perché la luce non cede mai al buio, ma soprattutto perchè la “guerra del tempo”, per usare un’espressione di Jeremy Rifkin, che si combatte durante, che è anzi parte decisiva e sostanziale della rivoluzione industriale, è stata vinta da chi organizza la produzione. Far diventare puntuali i lavoratori di fabbrica è stata un’opera lenta e difficile, non l’imposizione di una semplice norma, ma, più nel profondo, la vittoria di un modello di vita nel quale nuovi orizzonti temporali dovevano prendere il posto dei precedenti. Ed è appunto nelle prime fasi dell’industrializzazione che l’orologio compie il percorso antagonista che aveva intrapreso contro il “tempo della Chiesa” divenendo signore della vita non solo dei mercanti ma anche dei lavoratori.
Rifkin fa un’osservazione molto interessante a proposito di Taylor e della sua “direzione scientifica del lavoro”. Questa espressione corrisponde all’originale inglese “management”, che deriva dal latino “manus”, parola che a sua volta atteneva all’addestramento di un cavallo a compiere determinati passi, a fargli compiere esercizi di “maneggio”: un’idea ben lontana da quella cui oggi il termine “management” appare connesso, con il suo alone di cultura di impresa aggiornata e creativa, di protagonismo deciso perchè preveggente. Quel che è certo è che con il taylorismo l’equiparazione del corpo alla macchina compie un balzo in avanti e se lo fa, questo si deve sottolineare, è perché ormai è entrato nell’immaginario collettivo che il corpo umano possa essere paragonato ad una macchina e che quindi i suoi movimenti, fino al gesto più minuto, siano suscettibili di una misurazione temporale estremamente precisa e prevedibile. Risulterà così possibile qualificare i diversi movimenti allo stesso modo che se fossero operazioni di un essere inanimato. E’ di pochi anni fa un testo di “management” americano che parla del lavoro d’ufficio: per aprire o chiudere un cassetto dell’archivio si stabilisce che sia necessario un tempo pari a 0,04 minuti, per aprire o chiudere i lembi di un raccoglitore lo stesso tempo, per aprire o chiudere un cassetto laterale della scrivania 0,014 minuti e così via.
La “dittatura” dell’orologio non ha tuttavia trasformato gli uomini in robot, capaci di assimilare ogni innovazione come semplice razionalizzazione della produttività. La meraviglia, a volte un certo senso di ammirazione, insieme allo sconcerto, hanno continuato ad accompagnare la comparsa, ma soprattutto la prima diffusione di nuove macchine. Il telefono, ad esempio, ha richiesto molto tempo per venr accettato non semplicemente come un mezzo utile, ma come una presenza innocua e scontata. È tale la velocità delle innovazioni che anche una persona di cinquant’anni può avere ricordi che testimoniano un’evoluzione significativa del modo di percepire nuove macchine. Che cosa c’è di più usuale e inoffensivo che usare il telefono? Mia nonna – siamo all’inizio degli anni ’50 – non la pensava così. Parlava pochissimo al telefono e quando era lei a chiamare voleva dire che era successo qualcosa di grave. Mio padre invece aveva un rapporto stretto col telefono, per il suo lavoro, e mentre parlava con i clienti gesticolava, come se l’interlocutore fosse davanti a lui; mia madre, al contrario, usava il telefono per parlare, sommessamente e lungamente con le amiche, o le sorelle, e mio padre si arrabbiava e, inutilemente, cercò per tutta la vita di convincere sua moglie che il telefono si doveva usare solo per comunicare o discutere questioni importanti, essenzialmente per il lavoro. Leggendo una Storia sociale del telefono, di Claude S. Fischer, ho scoperto che più o meno questa era anche la mentalità delle prime grandi compagnie telefoniche: prima di allacciare alla linea le famiglie, per molti anni allacciarono le aziende, e prima delle famiglie che abitavano in campagna quelle che abitavano in città, immerse nel circuito commerciale e industriale, fino a quando, le casalinghe americane non finirono con il ridefinire radicalmente la funzione del telefono, usandolo per mantenere il contatto con la realtà esterna alla famiglia (ed estranea all’azienda), provvedendo – forse con qualche larghezza – attraverso il colloquio telefonico a quel fondamentale compito di mantenimento dei rapporti con parenti, vicini ed amici che era ed è parte del loro lavoro di cura.
Il nostro percorso potrebbe proseguire passando a considerare la radio, altra “macchina” usuale e onnipresente. Il pessimista Adorno contrappponeva al carattere “democratico” del telefono quello della radio, non a caso mezzo di propaganda dei totalitarismi essendo strumento che per sua natura pone l’ascoltatore in una situazione di sudditanza. È curioso confrontare con questo aspro giudizio il modo in cui noi, oggi, percepiamo la radio confrontandola con il potere della televisione, a differenza della più innocua progenitrice identificata fra l’altro, e non senza fondamento, come “macchina mangiatempo”. Ma le accuse che i “pessimisti” rivolgevano alla televisione sono anche più dure, soprattutto quando ne commentano l’uso fatto dai bambini e, ormai lo si riconosce, dagli anziani. Un antropologo francese, Marc Augé, sostiene per esempio che “la televisione sta creando una forma moderna di alienazione, o infelicità inconsapevole, infelicità senza desiderio”, in cui tutto diventa “finto”, e dedica pagine interessanti ai telegiornali, per esempio alle cronache della (prima, dobbiamo oggi distinguere) Guerra del Golfo, alla progressiva e per certi versi ormai consumata perdita di un confine certo tra realtà e rappresentazione della realtà.
Discorso ancor più complesso e coinvolgente si dovrebbe riservare all’informatica, al computer, ad Internet. Noi stiamo certamente vivendo un’epoca in cui siamo divisi tra “entusiasti” e “preoccupati” di fronte alla memoria artificiale, alla virtualità del videogioco, a quell’enciclopedia autoreferenziale che è il World Wide Web, cui si accede tramite Internet. Ma se su questi aspetti le posizioni sono differenziate e conoscono infinite gradazioni e distinguo, sulle biotecnologie, sulla cui “anima” informatica è stato lo stesso Rifkin ad attirare l’attenzione nel suo recente Il secolo biotech, il dibattito tende a polarizzarsi drammaticamente, soprattutto di fronte a scenari che prefigurano, per esempio, la possibilità che ognuno, in futuro, abbia una sorta di fratello minore acefalo, nella sostanza un serbatoio di organi pronti per il trapianto per quando, raggiunta la terza o la quarta età, avremo bisogno di pezzi di ricambio, e questo alter ego non solo ci fornirà organi sani ma anche perfettamente compatibili con il nostro organismo essendo provenienti da un nostro clone.
Senza addentrarci in questi discorsi, per lo meno inquietanti, è bene concludere il percorso compiuto con qualche osservazione. In primo luogo mi auguro che gli esempi portati e le osservazioni proposte rendano evidente la necessità di una storia sociale della tecnica che non solo non si limiti a fornire la cronologia delle invenzioni, ma che neanche si accontententi di contestualizzare la comparsa di un nuovo dispositivo tecnologico, di riproporre in definitiva un rapporto statico fra evento tecnologico e contesto sociale ed economico. Una storia sociale della tecnica che consideri invenzione, applicazione, diffusione e affermazione delle tecnologie come un sistema integrato, in cui ogni aspetto interagisce con gli altri secondo modalità che di volta in volta possono mutare, non secondo la riproduzione di un modello sempre identico e prevedibile. Per cui l’innovazione tecnologica che si afferma, in contrasto con ogni visione lineare e determinista dell’evoluzione tecnologica e socioeconomica, è solo una delle innovazioni possibili e il suo uso, i modi della sua diffusione e della sua affermazione sono il frutto non già semplicemente delle caratteristiche dell’innovazione, ma di quelle e, insieme, del modo in cui gruppi sociali rilevanti l’hanno percepita, accolta, metabolizzata spesso ridefinendone identità e finalità, quasi reinventando lo stesso strumento, prima che quello strumento divenisse “cosa”, presenza imprescindibile e inevitabile nella vita di ogni giorno, prima che intervenisse la sua naturalizzazione e quindi si affermasse irreversibilmente il suo potere. La storia, non della tecnologia in generale, ma di ogni singola innovazione, dimostra che gli individui si adattano alle nuove circostanze create da una nuova tecnologia, ma al contempo adattano – almeno in una prima fase – quella tecnologia alle necessità della propria vita e la inscrivono nel proprio immaginario prima di farne, anche, un oggetto culturale.
Al centro di una simile impostazione non c’è più la storia della tecnologia, ma la storia, forse i germi di una storia critica, della modernità e, quel che più conta, l’affermazione che la cultura materiale non è, come molti di noi sono abituati a pensare, un patrimonio di società preindustriali, “tradizionali”, ma è parte essenziale anche della cultura della modernità o della postmodernità, della nostra cultura, comunque. L’assunto decisivo è insomma che esiste una cultura materiale anche nella nostra vita di cittadini urbanizzati che si muovono in automobile e usano il computer, e che proprio questa cultura materiale, dotata di un alone di immaginario come tutte le culture materiali del passato, è parte essenziale della modernità. Occorre nella sostanza prendere atto che gli oggetti prosaici, umili, quotidiani costituiscono gli strumenti con i quali e le condizioni all’interno delle quali si stabiliscono alcuni dei comportamenti più radicati, proprio perchè meno consapevoli, più scontati, della nostra vita.
Nel dibattito fra pessimisti e ottimisti che ogni innovazione ha portato e porta con sè occorre allora vedere qualcosa di più che uno dei tanti aspetti dell’evoluzione della mentalità collettiva: il riproporsi di quel dibattito testimonia piuttosto di un bisogno non spento di fare un bilancio della modernità, documenta il permanere di una una capacità di vedere nella ricerca scientifica e in quella tecnologica, e nei loro esiti, non un destino che si può deprecare e comunque non si può che accettare, ma una serie di scelte che occorre valutare.
Se Augè richiama addirittura la necessità di una “morale della resistenza” di fronte al potere delle innovazioni tecnologiche, forse si tratta anche di coltivare un distacco ironico nei confronti delle macchine e delle tecnologie, la consapevolezza che nell’indubbio progresso che esse hanno consentito si può, si deve intravvedere anche la realizzazione di una possibilità che non era inevitabile si determinasse: “non è un acquisto positivo di piacere, un aumento indubbio del sentimento di felicità, poter ascoltare tutte le volte che lo desidero la voce di un bambino che vive centinaia di chilometri lontano da me?”, si chiedeva Freud. Ma aggiungeva: “Se non ci fossero le ferrovie capaci di percorrere grandi distanze, il bambino non avrebbe mai lasciato la città natale e non avrei bisogno del telefono per udire la sua voce.”
Più in generale, contro ogni atteggiamento aprioristicamente apologetico ma anche contro l’accettazione passiva di una loro supposta e incontrastabile pervasività, conviene concludere con le parole dello stesso autore che ci ha guidato all’inizio di questo viaggio: “Assimilare coscientemente la macchina – sosteneva Lewis Mumford – è un modo per contenere la sua onnipotenza”.