1. Compleanni
Durante il medio evo e per tutta l’età moderna – con alcuni significativi sfondamenti nel XIX e XX secolo – la produzione di beni materiali fu appannaggio di «pratici» che operavano in base a conoscenze che ci sono rimaste per la maggior parte ignote. Sconosciuti i corpus – il complesso di regole che presiedono alla pratica -, il loro farsi e comporsi con quelli di altre pratiche, le occasioni del loro trasformarsi; sconosciuti i retroterra teorici – i perché, i principi, le teorie. Un po’ più noti – forse perché più intuibili almeno nella loro manifestazione elementare – i modi della trasmissione delle conoscenze, che in genere avveniva per imitazione. Ma di nuovo sconosciuti i segni dei processi, i modi (i sensi) con cui i pratici li percepivano, le parole della comunicazione tra pratici e le difficoltà che incontravano a descrivere le loro pratiche ai non addetti ai lavori.
Difficoltà che Gioanventura Rosetti, autore di una fortunata compilazione edita a Venezia nel 1548 dedicata alla tintura, semplificava così: «è vera cosa che ciò che si scrive dell’arte del guado… non si può ben scrivere, ne ancora ragionarne; ma conviene a volerla intendere, essere presente alla cosa. Ma ben vi potrò scrivere i nomi della cosa; ma non ne intenderete gli olori, né il tempo, imperò che non si possono scrivere… Sappiate che quello che io vi posso scrivere di questo fatto siene i nomi della cosa ma non a che modo imperò che giudichiamo ogni cosa coll’ollore del naso: e questo è il nostro fondamento»1G. Rosetti, Plichto de l’arte de tentori che insegna a tenger panni, ielle, bombasi et sede si per l’arthe maggiore come per la comune, Venezia, 1548.. Prima di lui, alla fine del XIV secolo, il pittore Cennino Cennini aveva scritto: «…molti son che dicono che senza essere stati con maestri hanno imparato l’arte; noi credere, che io ti do l’essempio di questo libro: studiandolo di dì e di notte, e tu non ne veggia qualche pratica con qualche maestro, non ne verrai ma da niente, ne che mai possi con buon volto stare tra i maestri»2C. Cennini, II libro d’arte, F. Brunello (a cura di), Vicenza, 1971..
Per indagare questo territorio sterminato disponiamo oggi di una massa significativa di oggetti prodotti all’epoca ma di pochissime fonti scritte coeve; siano “per ricordare”, siano “sul fare” (testimonianze occasionali, relazioni ecc.). Ponti sempre significative ma di valore diverso. Diversa infatti la competenza degli autori, diverse le intenzioni, diversi infine i destinatari a cui si rivolgono. Si tratta perlopiù di documenti personali redatti con lo scopo di documentare una tecnica, una pratica di bottega o di officina, per ricordare a sé stessi che cosa e come si è fatto, e quindi sono concepiti per chi già sa. In altri casi si tratta di testi diretti a quanti non sanno di produzione e di fare, e il loro scopo non è il fare ma il sapere.
Del primo gruppo fanno parte, ad esempio, il famoso codice 2580 della Riccardiana di Firenze relativo alla manifattura della lana, il quattrocentesco manuale di tintura edito da Giovanni Rebora ormai più di trent’anni fa o ancora i «ricordi» dei Della Volpaia3G. Rebora, Un manuale di tintoria veneto del Quattrocento, Milano, 1970; C. Maccagni, Notizie sugli artigiani della famiglia Della Volpaia, in «Rassegna periodica di informazioni del comune di Pisa», III, 1967.. Esempi di testi prodotti per il circuito bibliofilo, per il sapere, sono invece il De Rè Metallica di G. Agricola, la Pirotechnia di Biringuccio4G. Agricola, De re metallica, Basilea, Froben, 1556; V. Biringuccio, De la Pirotechnia, Venezia, 1540. o lo stesso Plichto del Rosetti. Questi ultimi autori dichiarano esplicitamente di voler far conoscere il mondo della produzione a coloro che, pur essendone estranei, ad essa si interessano vuoi per semplice curiosità vuoi per il desiderio che provano di collegare il sordidum opus alle loro elaborazioni cosmologiche, matematiche o fisiche. Estranei, ma convinti – secondo una tendenza esplosa attorno alla metà del Quattrocento – a rivolgere la loro attenzione ad un mondo, quello della tecnica e dei pratici, sicuramente non nuovo, ma che dal tramonto della classicità la cultura dotta aveva ignorato o respinto.
Difficile immaginare una situazione più diversa da quella in cui oggi siamo immersi, dove il sapere pratico è incorporato nelle macchine, depositato in opere a stampa, enciclopedie, uffici brevetti corpus di vario tipo, trasmesso da scuole e accademie, e i cui riferimenti teorici sono ben noti, canonizzati, depositati, discussi.
Certo i prodotti materiali non sono cosa da poco e, indagati opportunamente, possono dire molto circa le conoscenze delle società che gli hanno dato vita. Il problema è che non sappiamo che cosa c’era prima o attorno a quel prodotto: quale apprendere comunicare, capacità di riprodurre e di modificare. E questo per limitarsi al puro evento tecnico e tacendo di ciò – politico, culturale, sociale, giuridico ecc. – al cui interno quel fare si sviluppava e che pur da quel poco che ne sappiamo, aveva con quel fare relazioni importanti, non casuali.
Quest’anno se ne compiranno esattamente cinquanta dalla pubblicazione del primo volume della History of Technology, edito a Oxford nel 194. Curata da Ch. Singer E.J. Holmyard, A. Rupert Hall e T.I. Williams, l’opera – l’VIII volume Il XX secolo Le comunicazioni e l’industria scientifica è uscito nel 1978 – era il frutto dei contributi di decine di studiosi. Grazie all’editore Boringhieri che per l’occasione aveva riunito un solido comitato scientifico l’opera ebbe una traduzione italiana in tempi abbastanza stretti. Il primo volume, Dai tempi primitivi alla caduta degli antichi imperi uscì nel 1961, il secondo, Le civiltà mediterranee e il medioevo nel 1962 (l’edizione inglese nel 1956); il terzo, Il Rinascimento e rincontro di scienza e tecnica, nel 1963 (l’edizione inglese nel 1957), il quarto infine, La rivoluzione industriale: circa 1750-1850 nel 1964 (l’edizione inglese nel 1958) e così a seguire fino all’ottavo, uscito nell’edizione italiana nel 1984.
Di ricorrenze e compleanni spesso si abusa. Per non dire che in un’epoca di significativi cambiamenti dell’orizzonte storiografico una storiografia che comunque cerca i suoi riferimenti in un’opera scritta cinquant’anni fa, e concepita in tempi ancora più lontani potrebbe apparire un imbarazzante segnale rétro. Non mi pare questo il caso. L’impresa diretta da Ch. Singer è servita – più dentro al mondo degli addetti ai lavori che a livello di buon senso storico dove questa idea in parte già esisteva – a riconoscere in modo definitivo l’autonomia dell’evento tecnico. La tecnologia, si leggeva nell’introduzione, e cioè «la descrizione della maniera di fare o costruire le cose, è un aspetto della storia, in particolare della storia sociale»; un ambito storiografico che, complice il clima culturale del dopoguerra, stava raccogliendo forti consensi.
La tecnica, ancorché sia espressione di vicende sociali, economiche, culturali, politiche, giuridiche ecc., è evento che ha propri protagonisti, cultura, tradizioni, forme di comunicazione che vogliono essere esaminati per sé oltre che per le relazioni che intessono. La History of Technology è stata criticata ora per aver ecceduto nella sottolineatura dell’autonomia del fatto tecnico ora – per il motivo opposto – per aver concesso troppo e in modo, secondo alcuni, poco argomentato avvalendosi cioè di relazioni storicamente non sempre significanti) al relativo contesto socio economico. È probabile che abbia entrambi i difetti. Per giunta, le periodizzazioni proposte – che interessano per alcune migliaia di anni un territorio sterminato, caratterizzato da situazioni per lo più non riconducibili l’una all’altra – si affiancavano ad altre più tradizionali, politiche, diplomatiche, giuridiche, in modo che destava più di una perplessità.
In verità l’opera curata da Ch. Singer era aperta a una doppia lettura: la prima, la più evidente, la più elementare – forse la più comprensibile ma anche la meno ricca di sviluppi – forniva una sorta di storia ideale dei processi e dei procedimenti produttivi, mettendoli tra loro a confronto, sottolineandone analogie e differenze, e – complice l’analisi di lungo periodo – la tendenza al superamento di soluzioni a favore di altre: la tendenza al progresso, alla modernizzazione. Un criterio, questo, che discendeva piuttosto dalla visione che solo da un paio di secoli abbiamo delle trasformazioni dei procedimenti tecnici e che difficilmente si applica alle società di antico regime.
La seconda lettura proponeva di valorizzare nella storia delle tecniche – tutti i settori delle attività umane – l’autonomia del fatto tecnico insieme alla rilevanza del contesto di cui era espressione o in cui si radicava. In altre parole la oxfordiana History of Technology affrontava problemi e proponeva relazioni che nel corso degli anni successivi si sono confermati come centrali nella storia delle tecniche: l’identificazione del pratico, la sua formazione-modi di apprendimento e di comunicazione, la sua cerchia e la sua specifica identità all’interno di questa, il rapporto con la committenza (con relativi risvolti giuridici e lessicologici) ecc.
E in Italia? In Italia, muovendo da un retroterra in parte diverso, nasceva nel 1962 l’Istituto italiano per la storia della tecnica con lo scopo di «promuovere le ricerche… Io studio e la conoscenza della storia della tecnica». Primo banco di prova, già l’anno seguente, erano state le manifestazioni galileiane, in seguito alle quali una commissione di esperti (i professori Polvani, Capocaccia, Bulferetti, Geymonat, Sandri e Gregory) aveva cercato nel Comitato 08 del Consiglio Nazionale delle Ricerche un sostegno ai progetti dell’Istituto, che nel Dicembre 1967 coglieva l’occasione dell’uscita del primo numero de «Le Machine» (il Bollettino dell’Istituto italiano per la storia della tecnica edito da Barbera) per rendere pubblici i suoi programmi e lo Statuto. Nel 1970, sullo slancio delle iniziative precedenti, nasceva a Genova, nell’ambito del Comitato 08 del CNR, il Centro di studio sulla storia della tecnica che nell’intenzione dei promotori doveva essere lo strumento culturale e organizzativo per avvicinare la storiografia italiana a fonti e strumenti con cui sino ad allora aveva mostrato scarsa dimestichezza, affiancandola cosi ad indirizzi analoghi che in Europa, negli Usa ma anche nei paesi dell’Est europeo andavano sviluppandosi da tempo. Alla Domus Galilaeana di Pisa il progetto assegnava il compito di formazione e di indirizzo dei giovani studiosi che volevano aprirsi alla nuova disciplina.
Una dote scarsa, la fine della presidenza Polvani al CNR, l’obiettiva difficoltà di perseguire l’indirizzo prefissato con quadri provenienti quasi esclusivamente dal settore umanistico, l’indifferenza delle facoltà universitarie più dichiaratamente tecniche e spesso l’ostilità di quelle umanistiche per una iniziativa che fuoriusciva in parte dai canali universitari, resero difficile la vita del Centro. Non gli impedirono tuttavia di trovare una sua strada e una collocazione nel mondo degli studiosi della materia.
Si sa che una disciplina o trova un autonomo spazio a livello dell’accademia o delle grandi istituzioni culturali o finisce saccheggiata o schiavizzata – più o meno felicemente – da altre discipline che un proprio spazio accademico o istituzionale già lo possiedono. Così è successo in Italia alla storia della tecnica, che già era entrata in contatto con gli storici dell’economia (ora in nome delle tecniche bancarie, ora delle trasformazioni industriali di cui la tecnica è un aspetto significativo), con quelli della scienza (in nome di una contiguità con la tecnica che pur con un certo ottimismo non va oltre gli ultimi due secoli) e con altri ancora.
Anche se a partire dagli anni Sessanta del Novecento c’è stato chi in Italia si è impegnato a sostenerla, gli spazi offerti alla storia delle tecniche sono stati pochi. La chiusura nel 2002 del Centro di studio sulla storia della tecnica è segno inequivocabile che, insieme a una più generale perdita di interesse per gli studi storici, la storia delle tecniche ha compiuto – almeno per il Ministero dell’Università e della ricerca scientifica – il suo ciclo. Peccato.
2. Storia delle tecniche e “buon senso” storico
C’è un elemento che affascina nella storia delle tecniche. È che essa, spostando l’indagine sul fare e i pratici, mette in contatto con una materia storica le cui coordinate dovrebbero essere intuibili un po’ a tutti. Le domande su chi faceva, come faceva, che cosa sapeva, dove aveva appreso, in base a quali teorie o credenze e con quali parole, accomunano facilmente chiunque abbia una qualsiasi esperienza di manipolazione di materiali, magari semplicemente di una pietanza, cioè la maggior parte di noi.
C’è un altro aspetto che dovrebbe avere un certo peso nel rendere popolari i risultati dello storico delle tecniche delle società di antico regime. Che la sua ricerca si deve confrontare col particolare e poco gli servono le considerazioni di carattere generale, valide al più per indagare le società contemporanee, da tempo in corso di omologazione reciproca. L’antico regime, a dispetto dell’immagine povera e semplificata con cui a volte è rappresentato, è il mondo della varietà, del caso ma non della casualità. Accetta ogni domanda ma obbliga a risposte pertinenti a luoghi, epoche, persone.
Jacopo Tachetto, «maestro da forno» aveva una quarantina d’anni quando era arrivato nel 1496 a Fornovolasco, poche case poste a circa 400 m di altitudine nel mezzo delle Apuane. Arrivava, dopo un viaggio durato più giorni, da Gerola, il borgo più importante della valle omonima posta all’inizio della Valtellina. Arrivava a Forno chiamato da Ercole I d’Este che proprio lì, sotto il monte Pania, dopo ricerche e tentativi in corso ormai da oltre vent’anni progettava di dar vita alla sua capitale metallurgica5Sui progetti siderurgici di Èrcole d’Este, qui e in seguito, E, Baraldi-M. Callegari, Pratica e diffusione della siderurgia indiretta m area italiana (sec. XIII-XVI), E. Baraldi, Ordigni e parole dei maestri da forno: lessico della siderurgia indiretta nelle valli lombarde fra XII e XVII secolo, entrambi in: La siderurgie Alpine un Italie (XIIe-XVIIe siecle), études reunies par Philippe Braunstein,Collection de l’Ecole Francaise de Rome, 2001..
Già da prima del 1480, infatti, uomini di Èrcole si erano mossi nella inospitale zona della Pania praticando, quanto ai metalli, una ricerca a tutto campo: specialmente argento e rame erano al centro delle loro attenzioni. Era stata l’occasione, probabilmente non la prima, per entrare in contatto con pratici provenienti dal Nord, come quel Rigo di Valtrompia, «maestro de collare vene de rame», che aveva già lavorato a Ferriere, nell’alta Val Nure, e si era mostrato abile nel far prova di quanto aveva cavato costruendo un «forneto» da rame.
Non d’argento e rame ma di ferro si occupava invece, sempre per conto d’Erede, tale Poi Zoane Zenga, «soprastante alle ferrarezze» impegnato in prima persona su tutto quanto interessava un «forno» da ferro entrato in attività nel 1480. La sua posizione col passare dei mesi si era indebolita: i risultati dell’attività del «forno» erano stati giudicati modesti a fronte del fatto che il locale minerale di ferro era considerato abbondante, di facile estrazione e di buona qualità. Per giunta, come informava dalla zona della Pania il primo Gennaio 1481 un altro famulus di Èrcole, Poi Zoane aveva distrutto «senza dir niente» un impianto di grande utilità, «uno edifìcio da pistare vena et lavarla et da pistare lo late del forno per cavare el ferro minuto». Una informazione preziosa che testimonia dell’esistenza in loco, ben prima dell’impresa del forno costruito e guidato da Jacopo
Tachetto nel 1497, di un impianto finalizzato al recupero anche dei residui di «ferro crudo», cioè di ghisa, dalla loppa.
L’abbondanza delle fonti, la meticolosità con cui Èrcole voleva essere informato, l’affanno dei suoi famuli nel soddisfare le sue richieste sono la miglior prova che il principe faceva sul serio e che dall’impresa del ferro che stava nascendo si aspettava molto: prestigio militare e occasioni commerciali. Voleva sottrarsi al monopolio mercantile di ferri di qualità e acciai lavorati detenuto all’epoca dai «Lombardi». Ma non solo. La sua intenzione, come quella di altri prìncipi dell’epoca, era di iniziare una consistente produzione di «ferro crudo» con fare acciaio e palle per l’artiglieria, strumento d’offesa divenuto in breve tempo molto popolare tra i prìncipi italiani. Palle di ghisa di vario calibro, che avrebbero contribuito ad assicurare al principe autonomia e forza militare necessari a sopravvivere nella lunga fase di guerra permanente che aveva investito i prìncipi italiani dalla metà del XV secolo. Era stata la ghisa a spostare l’interesse della cerchia di Èrcole verso Bresciani e Bergamaschi da tempo e universalmente considerati i migliori pratici del sistema di riduzione “indiretto”, quello appunto che permetteva di «gettarla». Da qui la ricerca d’informazioni, i viaggi e i richiami verso le valli alpine dove erano stati trovati gli esperti: minatori, costruttori d’impianti, pratici di «colare vene» e di lavorare «gitti», «maestri fabrichieri» ecc.
Le cognizioni metallurgiche d’Erede, che almeno dal 1480 si erano formate sul campo, in un tutt’uno con la sua esperienza di principe, corrispondevano al formarsi di quelle dei suoi famuli, chiamati a seguire l’attività dei pratici con cui erano in contatto e sui quali erano tenuti a fornire rapporti settimanali. A proposito delle palle per l’artiglieria ad esempio, Èrcole, nel 1490, aveva sollecitato più volte un suo famulus perché ne fossero prodotte «di ferro». E per essere sicuro di non essere frainteso ne aveva mandato alcune fatte «a martello», come campione. In quell’occasione però il famulus aveva dovuto deludere il suo principe. Le «ballotte» – gli aveva scritto il 3 Ottobre 1490 – si poteva pensare di «farle a zetto» ma non era una cosa facile: «…perché el ferro ha quella natura che quando è collato et è in latte non si pò cavare de la presura con caze per zetare in le forme… perché per ogni poco de distancia se indurisce… ma bisogna che’l cora da se in le forme…». Era un lavoro difficile che aveva i suoi pratici più celebrati nel Bresciano e in particolare in Valtrompia dove, se il suo principe si fosse dichiarato d’accordo, avrebbe potuto recarsi a cercare uomini e ragguagli: «li poterò intendere il modo che le se fanno de zetto et noi qui se poteranno fare et ancora condurre uno maestro che le sappia fare se a vostra signoria parerà».
Èrcole apprendeva dal suo famulus, che a sua volta – mentre era in attesa di andare a vedere altri pratici nei luoghi dove questi erano all’opera – raccoglieva le sue informazioni da un pratico. Un buon esempio del rapporto tra politici e pratici, tra cultura di camera e cultura del pratico, tra vedere e sapere e infine tra sapere e fare.
Si voleva ghisa per fame palle e ferri sodi: era il forno da ghisa che ormai bisognava costruire. Per alimentarlo, la produzione locale di minerale, attorno alla quale da anni si favoleggiava, restava modesta. Forse – si era pensato nell’entourage di Èrcole – i limiti erano dovuti ai cavatori locali, più pratici nella ricerca di vene pregiate contenenti piccole quantità di rame e di argento e della sola ematite elbana. Per questo si era giudicato necessario far arrivare dalle valli alpine, con gli uomini del «forno», anche gli uomini delle miniere. Con loro i carbonai: di carbone infatti, ce n’era bisogno in grandi quantità, comunque superiori alle capacità produttive locali.
Anni di grande attivismo ma di risultati scarsi quelli tra il 1480 e la fine del secolo, che avevano convinto Èrcole e i suoi che per il progetto siderurgico di Fornovolasco si imponesse una svolta. La nuova fase operativa iniziò dal 1496: si cavò e si costruì; si ricostruì e si sperimentò. Alla vigilia dell’estate 1497 tutto era pronto e il nuovo forno cominciò a funzionare per la sua prima campagna. Così anche la «fabrica», che a partire da Settembre cominciò a trasformare il ferro crudo proveniente dal forno.
Per arrivare a quel giorno era stato messo in campo un piccolo agguerrito esercito: maestri «da forno», «da fabriche», «da minerà», «maestri per fare azale», «maestri da balote», carbonai, cavatori, fabbri d’ogni specialità, muratori, marangoni, vetturali, mercanti, funzionari dell’amministrazione estense, notai. Il complesso sorto a Fornovolasco tra il 1496 e il 1497, espressione del progetto politico, militare ed economico di Èrcole, era il risultato delle azioni di almeno un centinaio di persone. Con esso Èrcole realizzava, alle pendici della Pania, qualcosa che esisteva solo nelle valli alpine e di cui solo indirettamente aveva avuto notizia. Da quelle valli e dalle città poste al loro sbocco, prime tra tutte Bergamo e Broscia, arrivavano a Modena, Reggio e Ferrara le «ferrarezze» pregiate e gli uomini che le commerciavano; gli stessi che possedevano o gestivano i fondachi dove erano vendute. Se, aveva pensato Èrcole, a Fornovolasco le cose fossero andate come dovevano, molti dei prìncipi e delle città vicine, Firenze, Lucca, Siena, lo stesso Papa sarebbero potuti diventare suoi preziosi clienti.
Jacopo Tachetto detto Tachettino era stato l’uomo della svolta: «maistro del forno» e personaggio di spicco tra quanti nell’area nord italiana conoscevano e facevano il ferro crudo. A Fornovolasco Jacopo era arrivato in «compagnia», con un altro maestro ed alcuni aiutanti. Col loro aiuto e sulla base di informazioni di locali aveva costruito il forno dove avrebbe dovuto cuocere il minerale. Non era stato chiamato semplicemente per far funzionare ma per costruire l’impianto necessario alla fusione. È un elemento importante che lo studioso delle pratiche di antico regime non deve dimenticare: il modo di fare di Jacopo era “un” ma anche il “suo” modo di fare; comprendeva nello stesso tempo, oltre le conoscenze relative al processo (qualità e modi di impiego di minerale, carbone e fondente), quelle necessarie a costruire le strutture – elemento non casuale del processo – e gli utensili. Jacopo li aveva schizzati uno per uno, indicandone il peso e facendoli costruire da Pietro, un «maestro fabrichiere» che s’era portato da Gerola6E. Baraldi, Per un’archeologia dei forni alla bresciana, in «Quaderni Storici» n 70 XIV, 1989, pp, 101-121..
Dove Jacopo aveva appreso la sua arte? Si sa solo che anche suo padre era un maestro da forno; era quindi figlio d’arte. Aveva appreso vivendo accanto al padre, attraverso l’esempio, osservandolo e raccogliendone le osservazioni; i ricordi che forse risalivano alla generazione del nonno e forse ancora oltre. Jacopo ci aveva messo sicuramente del suo, dato che all’epoca era considerato tra i più bravi, ma la sua cultura di pratico era notevole perché era il risultato di una somma di casi, quelli capitati a lui ma anche quelli che molto probabilmente gli erano stati raccontati e descritti dal padre durante le campagne fatte insieme, quando il maestro viveva al forno e non lo abbandonava mai per alcun motivo.
Jacopo non aveva una teoria del funzionamento del forno che avesse a che fare con la chimica siderurgica; per il diagramma ferro carbonio dovevano passare ancora cinque secoli. Aveva dalla sua solo l’esperienza, prima sotto la guida del padre e poi individuale.
Molte campagne, molti casi, molta esperienza: la bravura di Jacopo -una sempre maggiore capacità a governare le variabili del processo o addirittura a escluderle ottimizzando la costruzione dell’impianto e combinando a dovere minerale e carbone – era aumentata con gli anni. Ogni campagna era diversa dalle altre vuoi per il carbone, vuoi per il minerale, vuoi per il regime dell’acqua che alimentava i mantici (per fare i quali a Fornovolasco erano arrivati altri maestri), vuoi infine per il forno, il cui rivestimento aveva comportamenti sempre diversi a seconda dei materiali locali a cui era giocoforza ricorrere e la cui struttura richiedeva in continuazione piccoli adattamenti.
Ci sono diversi spunti nella vicenda di Tachetto utili ad introdurre alcune questioni con cui si misura la storia delle tecniche. Prima di tutto la cultura: Tachetto sa scrivere, disegnare e far di conto; ha appreso ciò che sa osservando una persona – nel suo caso, il padre – già esperta. Il suo campo di conoscenze e la sua identità di pratico non si limita al controllo del processo ma prevede una conoscenza adeguata del minerale da fondere e del carbone e, importantissimo, la capacità di costruire l’impianto di fusione con materiali in parte occasionali. C’è poi la questione di dove Jacopo ha maturato la sua esperienza: in proposito, tutto lascia pensare che prima di arrivare a Fornovolasco abbia già viaggiato e operato in località diverse da Gerola, da dove proviene. Ma che peso hanno avuto sulla pratica di Jacopo le esperienze che via via si sono aggiunte l’una all’altra? Hanno avuto il potere di determinare cambiamenti nel suo modo di fare? E in quale modo? E quali sono, tra i contemporanei, le ragioni della sua fama: che cosa sanno e perché si rivolgono a lui i committenti che cercano i suoi servigi? A Gerola, il paese di provenienza di Tachetto, come da altri paesi della Valtellina, c’erano altri maestri da forno come lui. Eppure il nobile Simone Arrigoni cittadino di Milano – che per sottrarsi alle restrizioni imposte dai Veneziani sull’esportazione di ferro crudo aveva deciso di costruire un forno in Val Sassina da affiancare alla «fucina grossa» che già vi possedeva – aveva cercato proprio lui, Tachetto. Per questo Tachetto, dopo aver costruito il forno e avviato la prima campagna per Èrcole, nell’Ottobre 1497 gli aveva chiesto licenza di poter partire.
Jacopo da Gerola teneva una contabilità del forno e delle prestazioni della sua squadra. Pagato – come un gentiluomo – in ducati d’oro, uno per ogni «ora di forno» (24 ore solari): più lunga era la campagna – cioè più riusciva a tenere acceso il forno – maggiore era il sua guadagno. Il ducato d’oro comprendeva la retribuizione della sua squadra; un salario collettivo che Jacopo amministrava sulla base di accordi privati. Con i suoi intraprendeva anche un piccolo commercio di derrate da cui ricavava qualche ulteriore vantaggio. Altri rapporti e tornaconti si immaginano – ma rientrano in una contabilità di genere morale – legati al suo ruolo di agente reclutatore e di tramite tra la Camera di Ferrara e altri pratici.
I due fogli dove – fronte retro – compaiono disegnati gli attrezzi necessari al funzionamento del forno e della «fabrica» dove avverrà la riduzione della ghisa, mostrano ampiamente l’abilità di Tachetto nel disegno. Sui fogli compare, oltre il disegno dell’utensile, il peso il materiale (legno o ferro), il termine con cui esso era nominato e la funzione in cui sarebbe stato impiegato. Non sono però disegni “per fare”; il maestro «fabrichiere» che doveva eseguirli infatti li conosceva benissimo e non aveva certo bisogno dei disegni per eseguirli. Sono, più probabilmente, il risultato dell’intenzione degli uomini di Èrcole di produrre una memoria amministrativa di ciò che si fa a Pornovolasco, un inventario illustrato e corredato delle indicazioni del peso di utensili fino ad allora impraticati e di cui l’azienda padronale si preoccupa di tenere memoria se in futuro fosse necessario reintegrarli7Bisognerà tornare su questa e altre rappresentazioni di pratici che ricorrono al disegno. Quando – come in questo caso – succede, ciò non sembra avere attinenza con la memoria del loro sapere. Sull’uso del disegno da parte dei “tecnici” sono decisive le considerazioni svolte in più occasioni da C. Maccagni. Ricordo tra l’altro: Considerarazioni preliminari alla letteratura di Leonardo in Leonardo e l’età della ragione, Milano, 1982; Il disegno di macchine come fonte per la storia delle tecniche del Rinascimento, in «Quaderni storici» n.70, a.XXIV, fasc. 1, aprile 1989 pp. 13-24; Leggere, scrivere e disegnare la scienza volgare nel Rinascimento, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», classe di Lettere e filosofia, s. III, XXIII, 2, Pisa, 1993, pp. 631-678. Come i pratici consideravano memoria delle loro esperienze è tema che meriterebbe di essere affrontato nella sua complessità. Per quanto attiene alla costruzione navale Luciana Gatti ha messo in chiaro in modo convincente come la memoria del maestro costruttore e più in generale la memoria del cantiere era affidata alla massa di «garbi», le seste che venivano tracciate per molti elementi che componevano lo scafo e che venivano utilizzate anche nell’attività di prelievo nei boschi. Connessa a quella della memoria è la questione del segreto a proposito del quale i casi da riferire sarebbero molti e tutti a toro modo significativi. Ad esempio, nel 1445, i Priori di Fabriano, preso atto che in tutta la Marca esisteva un solo artigiano in grado di costruire i moduli per fabbricare i fogli e prevedendo che con la sua morte la sua preziosissima arte sarebbe andata perduta, lo invitavano ad insegnare ad altri, in cambio di alcuni benefici, il modo di costruire e riparare i telai necessari alla produzione dei fogli. In altre parole non gli si chiedeva un disegno, delle misure, una descrizione, un modello da poter imitare; ma di istruire qualcuno nella sua arte. (G. Castagnari, Le principali fonti documentarie per la storia della carta dal XTV al XV secolo, in Contributi italiani alla diffusione della carta in Occidente tra XIV e XV secolo, Fabriano, 1990, pp. 29-61)..
Da Jacopo Èrcole voleva ghisa specialmente per farne palle da cannone. La ghisa, in molte città italiane, era venduta con altri semilavorati di ferro e acciai in botteghe di «ferrarezze» di proprietà di mercanti provenienti dall’area lombarda. Sono quasi sempre questi gli intermediari tra la committenza urbana e i pratici siderurgici. Conoscono i prodotti – come i pratici, anch’essi hanno loro segni per analizzarli -, i loro luoghi di provenienza, gli artefici; sanno tradurre in parole i bisogni della committenza. Sono gli unici che possono farlo con la competenza necessaria. A Ferrara è un mercante di «ferrarezze» che istruisce l’agente di Èrcole, e lo guida nel contatto con maestri da forno, carbonai, minatori a Gerola, a Bovegno, in vai di Sole e altrove8Per le costruzioni navali L. Gatti, Navi e cantieri della Repubblica di Genova (secoli XVI-XVIII), Genova, 1999, ha fatto notare come nel caso in cui il committente non era un esperto – ad esempio non un patrono, un comandante di nave – la costruzione della nave sullo scalo da parte del maestro d’ascia era in genere seguita, controllata da una persona che sapeva o perché faceva (ad es, un altro maestro) o perché era esperta dell’uso (come nel caso del patrono). Di quest’ultimo erano spesso i termini tecnici dettati al notaio durante la stipula del contratto che accompagnava la costruzione dell’imbarcazione che avevano lo scopo, oltre che di assicurare la sincera adesione del maestro al pano commerciale, la piena corrispondenza tra le sue scelte e quelle della committenza. Casi in parte diversi da quelli visti in siderurgia ma che come quelli danno l’idea della presenza di una varietà di figure intermediarie – non casuali, cioè funzionali alia produzione – tra la committenza e il pratico..
Circa quarant’anni dopo è di nuovo un mercante della Valsassina, da tempo abitante a Firenze dove aveva un commercio di «ferrarezze», a reclutare a Gardone Valtrompia, per conto di Cosimo I de’ Medici, il maestro da forno Giovanni de Tambonari che doveva «disegniare fornire et fabricare […] un forno alla bresciana andante da colar vena […]», simile – precisava l’accordo – a quello che lo stesso aveva da poco costruito a Isolasanta in Garfagnana per il duca di Ferrara”9M. Calegari, Forni alla bresciana nell’Italia del XV secolo, in «Quaderni storici», 24, 70, 1, 1989.. Cosimo sapeva del forno garfagnino – suoi agenti gliene avevano riferito – ma è un mercante di «ferrarezze» a stabilire il contatto con i luoghi dei pratici che potevano costruirglielo, così com’era successo per Èrcole e così come era successo, attorno alla meta del Quattrocento, nel Piacentino, dove ancora una volta erano stati alcuni mercanti a stabilire i legami tra il progetto siderurgico di Ferriere e i pratici provenienti dalla Valcamonica10C.M. Cipolla, Un’impresa mineraria del Quattrocento, in «Bollettino della Società pavese di storia patria», fasc. I, 1946..
3. I pratici: una comunità in movimento
C’erano limiti politici o logistici ad ostacolare i movimenti dei pratici?
Un aspetto della storia che mette in contatto Tachetto con Èrcole ritorna nelle storie di molti altri pratici. Nelle società italiane di antico regime – ma non solo quelle italiane – il pratico appare una risorsa collettiva, condivisa sia da privati sia da entità statali appartenenti a realtà geografiche anche molto lontane tra loro. Un fenomeno noto sin dal Medioevo e già da allora molto ben documentato. La parola emigrazione che è stata usata per descrivere i movimenti dei pratici non ne da una rappresentazione adeguata. Il loro infatti e un movimento stabile, continuo, sollecitato, accompagnato o più spesso preceduto da mercanti o proprietari di fondaci e negozi. L’area dei loro movimenti può essere più o meno vasta ma ciò non cambia i termini del fatto. Rari i casi di un pratico che muove solitario alla ricerca di fortuna; più frequenti semmai le foghe di fronte al pencolo di finire m carcere per debiti.
L’impressione che se ne trae è che i pratici costituiscono una grande comunità, in parte itinerante, con propri circuiti, propri canali di comunicazione. Non interessa solo i costruttori di cattedrali; ci sono dentro maestri d’ascia, costruttori di mulini, paperai, conciatori, vetrai, fonditori di campane, minatori. Quasi tutta la popolazione degli “artisti” percorre l’Europa proprio come i loro prodotti dando vita a centri di produzione accomunati spesso con i rispettivi luoghi di provenienza dal linguaggio, da scambi di attrezzi da stabile afflusso di pratici o simili.
Una libertà, quella dei pratici, poco ben vista e in genere mal sopportata dai governi degli Stati di appartenenza. I decreti proibiti vi emessi dall’autorità statale – a Genova, ad esempio, il Senato – ora generali, relativi cioè a tutte le Arti, ora riguardanti un’Arte in particolare, sono frequenti. Il passaggio del Bresciano – a metà del XV secolo – sotto il controllo politico di Venezia provocò ad esempio una serie di decreti limitativi dei movimenti dei maestri da forno e di altri pratici metallurgici. Se mai ebbero effetto, fu così lieve da non lasciare tracce. Spesso è la reiterazione dei provvedimenti a sottolinearne l’inutilità. Quando, raramente, si va ai processi, i verbali che ne sopravvivono fanno capire come, da parte dei pratici, la libertà di movimento fosse giudicata come connaturata alla propria condizione, fondata sul diritto naturale che assicurava a chi non possedeva beni di fortuna di cercare ovunque fosse possibile l’impiego della propria arte. Ma i processi e gli scontri sono rari proprio perché dietro ai movimenti dei pratici stanno la finanza, la politica, il commercio. E i mercanti non sono da meno dei pratici nel difendere la loro prerogativa: il diritto a far produrre e commerciare seguendo il “naturale” interesse della mercé.
A Veltri, capitale europea della manifattura della carta, a poca di stanza da Genova, si svolge nel 1565 con grande presenza di pubblico il processo a Francesco Fabiano, un giovane mercante accusato di aver fatto costruire e di far funzionare una cartiera nel dominio di Milano11Qui e di seguito i riferimenti a vicende della manifattura genovese della carta sono tratte dal mio M. Calegari, La manifattura genovese della carta (sec. XVI-XVIII), Genova, 1986.. Ha fatto costruire gli impianti – ruote e pile – da maestri d’ascia voltresi e produce carta sottraendosi al controllo della competente magistratura genovese, i Censori. Francesco è imputato ma a piede libero; al contrario dei due maestri d’ascia che sono stati incarcerati e «astretti a dare sigurtà» di non andare più a lavorare fuori Dominio. Tutti e tre, Francesco e i due maestri, sostengono con argomenti diversi un unico principio. Francesco, che durante il processo si definisce «homo libero», «urla» che la giurisdizione dei consoli – e vi comprende quella dello stesso governo – non ha alcuna «bailia» su di lui e che al suo diritto a «negoziare» nessun potere è autorizzato a porre limiti. Da parte loro i due maestri d’ascia – processati separatamente da lui – sostengono che la giurisdizione dei consoli e delle magistrature ha un limite insormontabile nel fatto che gli artisti «non possono stare senza lavorare». Anche loro – sostengono – come i nobili e i mercanti, costituiscono una «nazione», e la facoltà di muoversi per cogliere le occasioni migliori è l’unica che gli permette di difendersi dagli alti e bassi della produzione e dai casi della vita.
È difficile che la repressione si abbatta sull’artista che muove per il mondo a offrire i sui servigi. Se ciò accade è per motivi occasionali, come potrebbero essere l’ostilità di gruppi mercantili e imprenditori dell’area di provenienza dell’artista. Sono questi infatti – insieme ai mercanti di cui si diceva sopra – tra i principali agenti dei movimenti dei pratici. Persone o gruppi finanziari interessati a moltiplicare i centri di produzione, accedendo così a nuove risorse e incrementando il loro giro d’affari oltre ad aumentare la loro influenza sulla popolazione dei pratici mentre ne assicurano la possibilità di crescita.
A Genova dalla metà del Quattrocento, la «Maona» del ferro, una compagnia commerciale, importa vena elbana, la fa lavorare nelle ferriere del vicino Appennino e ne commercializza i prodotti, semilavorati o finiti, nei suoi fondaci sparsi in diverse città del Mediterraneo12M. Calegari, Strategie commerciali e tecnica di produzione: la Maona genovese del ferro e la siderurgia ligure di antico regime, in «Studi & Notizie» del Centro di studio sulla storia della tecnica del CNR presso l’Università degli studi di Genova, 14, 1986, pp. 3-18.. Dall’inizio del Cinquecento la sua attività è in forte espansione; un ritmo che forse mette in discussione un ulteriore ricorso alle risorse locali da parte degli impianti esistenti. Resta il fatto che la stessa compagnia decide di estendere l’area della produzione a regioni lontane come la Corsica, la Sicilia e la Sardegna. Ma per poter assicurare l’omogeneità del prodotto e la regolarità produttiva non ha altra strada che quella di trasferirvi pratici provenienti dal Genovesato (magister foci, magister malti ecc.) in grado di costruire e far funzionare ferriere simili a quelle che si trovano nel territorio da dove gli stessi provengono e dove già hanno lavorato per la Maona. Proprio come la compagnia mercantile che durante la prima metà del Seicento progetta il trasferimento in Spagna di un buon numero di maestri «da papero» per stabilire là nuovi centri di produzione sotto il proprio controllo e produrre carta con le caratteristiche e i metodi ampiamente collaudati nell’area voltrese. E come il gruppo di imprenditori genovesi delle costruzioni navali che, a metà Settecento, avvia la costruzione di vascelli a Cartagena, facendovi arrivare legnami tratti da tutta l’Italia e presumibilmente maestranze o almeno capi maestri13L. Gatti, Le navi di Angelo M. Ratti, “imprenditore” genovese del XVIII secolo, «Quaderni» del Centro di studio sulla storia della tecnica del CNR presso l’Università degli studi di Genova, cit., 18, 2001..
I casi sono così tanti che il loro elenco potrebbe continuare per pagine. Qui l’argomento è stato toccato solo per sottolineare come la cultura del pratico comprenda un duplice senso di appartenenza: al gruppo familiare e locale da un lato e dall’altro alle occasioni che possono darsi ovunque, in un territorio privo di limiti geografici che non siano quelli dettati dalle coeve – spesso precedenti – relazioni commerciali. Esperienza gergale quella del pratico ma non marginale: anzi. Un altro aspetto che nell’indagarli è opportuno tenere presente.
4. La coesistenza di pratiche analoghe e la questione del “progresso”
Alla fine del Quattrocento, quando Èrcole d’Este si era messo alla ricerca di un pratico capace di colargli palle da cannone, il minerale di ferro era lavorato – nell’area europea – sostanzialmente in tre modi: in un forno – come quello di Tachetto – che produceva ghisa che poi aveva bisogno di un ulteriore impianto per essere trasformata in ferro; in un fornello chiuso, a forma di manica, che produceva un blumo di acciaio grezzo e, infine, in un focolare aperto14In proposito la letteratura è sterminata. Mi limito a due titoli: La siderurgie Alpine en Italie (XIIe-XVIIe siecle)”, cit.; The importance of Ironmaking. Technical Innovation and Social Change (Norberg Conference, 8-13 Maggio 1995), 2 voli., Stoccolma 1995.. Si tratta in tutti i tre casi di soluzioni stanziali, stabili e gli impianti ricorrono all’energia idraulica tramite ruote da mulino. I primi due modi sono presenti in area europea almeno dal XIII secolo; del terzo invece, il focolare aperto, le prime prove documentali risalgono al XIV ma non si può escludere che sia coevo dei precedenti. È anche facile immaginare come nella stessa area il ferro fosse prodotto anche in precedenza – esiste in proposito una documentazione archeologica convincente – in impianti che non corrispondono se non in parte a quelli elencati. È però tra XIII e XIV secolo che i tre modi assumono una precisa caratterizzazione l’uno rispetto all’altro.
Anche se dello scavo – effettuato nel corso degli anni Settanta del Novecento – del forno di Lapphyttan nella Svezia meridionale non esiste ancora una versione definitiva dei risultati, i reperti disponibili e la datazione di quelli ceramici grazie al radio carbonio autorizzano a dire che il forno – aerato con forza idraulica – produceva ghisa in un periodo tra 1200 e 1400; un’approssimazione un po’ insoddisfacente dovuta in parte all’epoca in cui i rilievi sono stati fatti. Sicuramente al XIII secolo risalgono invece gli impianti che producono ghisa posti nell’area alpina italiana, nei dintorni di Livigno nell’alta Valtellina, in Val Gerola (quella di Jacopo, in bassa Valtellina), in Val di Scalve (BG) e a Pisogne nel Bresciano. Infine scavi relativamente recenti, in Germania, nella Marchische Sauerland, hanno documentato l’esistenza nell’area di due forni impiegati per produrre ghisa che dovrebbero risalire al XIII secolo e le cui caratteristiche sembrerebbero molto simili a quelli analoghi esistenti in area italiana nel XV secolo. Non esistono elementi per stabilire priorità di sorta tra gli impianti accertati15Rinvio per una visione d’insieme al volume di imminente pubblicazione per il Cinquantenario del Gruppo Riva, dove la sezione Ferro, ghisa e acciaio: modi di produzione in Europa tra XIII e XVII secolo è a cura di E, Baraldi; ad essa hanno collaborato: J.F. Belhoste, A, Jockenhovei, E. Landsteiner, R. Uriarte, A. Williams, C. Wilims.. Neppure tracce di contaminazione di pratiche tra l’area svedese e quella italiana. Lo stesso con l’area tedesca. Inutile ricordare quanto la questione della priorità sia scivolosa. L’idea che una soluzione tecnica abbia un’unica origine è molto più difficile da dimostrare della sua opposta.
L’Austria Interna e il Palatinato sono invece dal XIII secolo la terra di elezione del ferro prodotto nei fornelli a manica alimentati da mantici idraulici e dotati di magli anch’essi mossi idraulicamente. Una pratica che si riprodurrà fino al XVIII secolo anche se durante lo stesso periodo l’organizzazione della produzione avrà nelle due regioni segni diversi; nell’Austria interna, al contrario che nel Palatinato, ci sarà separazione fisica tra gli impianti che facevano i blumi e quelli dove venivano ulteriormente ridotti.
La pratica di produrre ferro in un fornello aperto alimentato anch’esso idraulicamente è documentata nel Chiavarese, nel Genovesato, nel Savonese e nella Toscana centro occidentale. In queste regioni e in seguito anche in molte altre, in Piemonte ad esempio, la soluzione del focolare aperto permane a lungo, a volte fino alle soglie dell’Ottocento.
Tre modi di fare, che potrebbero però rispondere ad un numero più elevato di pratiche, e che mostrano nei secoli successivi una loro autonoma capacità di diffusione e di trasformazione intema. Succede per il forno da ghisa e per il fornello chiuso dell’area austriaca dove secolo dopo secolo si registra un aumento del peso dei blumi prodotti; succede nel focolare aperto appenninico16E. Baraldi, Historical resources relating to the Medilerranean Iron and steel industry, in L’obtenciò del ferro per procediment directe entre els segles IV y XIX, Actes del 6è curs d’arqueologia, (Andorra 2-5 Ottobre 2000), Andorra, 2001, pp. 79-99.. Tre tipi di impianti, di processi e di pratiche che lievitano ma tra le quali non risulta vi siano state contaminazioni. Pratiche che crescono e si perfezionano – non solo nei luoghi di origine ma anche in quelli dove nel corso dei secoli si trasferiscono grazie ai movimenti di pratici come Jacopo – ma i cui tronchi storici restano distinti. Coesistono, si conoscono reciprocamente ma non comunicano, almeno nel senso di avere conseguenze sul modo di fare dei rispettivi pratici. Semplicemente perché costoro operano diversamente, in base a esperienze diverse, facendo riferimento a segni diversi.
Il fatto può apparire singolare specie se si pensa che nel corso dell’età moderna l’Europa registra una straordinaria moltiplicazione degli impianti che producono ghisa e ferro; fatto reso possibile dalla capacità di irradiazione che hanno le sedi storielle delle rispettive pratiche. In area austriaca, quando vi sorgono a partire dal XVI secolo, i forni da ghisa sono opera di Sassoni e Valloni. Lo stesso succede in area francese, dove dalla fine del Quattrocento e a cominciare dalle province del Nord – Normandia, Champagne e Borgogna – a costruire i forni da ghisa giungono specialisti valloni provenienti dai Paesi Bassi e cioè dalle regioni di Liège e Namur: proprio la contea di Namur che dalla metà del Trecento aveva a sua volta registrato l’immigrazione di pratici provenienti dall’area tedesca17A- Gillard, L’industrie duferdan les localités du Comte de Namur et de l’entre-Sembre-et-Meuse de 1345 a 1600, «Pro civitate», collection Histoire, Série in 8°, 29, 1971.. Dalla Bergamasca invece provenivano i pratici che dall’inizio del XVII secolo avevano costruito nel Delfìnato una quindicina di forni da ghisa e le fucine necessarie alla sua riduzione. Nell’Italia centrale, tutti i forni da ghisa costruiti dalla metà del Quattrocento sono opera di pratici provenienti dalle valli lombarde, dal Bresciano e dal Bergamasco. Senza quei «forestieri», impiegati ormai da decenni a servire «per ministri e lavoranti di forni» – scriveva nel 1583 un funzionario di casa Medici — gli impianti granducali avrebbero dovuto smettere di funzionare18Archivio di Stato di Firenze, Magona l6l8, 21 Giugno 1583..
Quali osservazioni si possono fare di fronte a queste semplici constatazioni? Almeno due: che in antico regime, la coesistenza di pratiche diverse finalizzate a produzioni in parte analoghe è cosa normale e prosegue durante almeno quattro secoli, a volte in aree contigue, senza per questo determinare la fine dell’una a favore dell’altra. Significa ancora che le ragioni del permanere o del cessare di quelle pratiche in quelle società vanno cercate in un complesso di relazioni che non sono riconducibili al loro appartenere ad un livello tecnico piuttosto che ad un altro: una storia che si limitasse ad osservare il passato attraverso questa lente difficilmente riuscirebbe convincente. E improprio riportare alle società di antico regime definizioni – come la classifica delle pratiche in avanzate e arretrate – tipiche del nostro contemporaneo modo di ragionare. Meglio non indagare le pratiche mettendole a confronto in base a classifiche costruite col senno di poi o in base ad una analisi di costi e rendimenti. Almeno fino a quando non si riesca a mettere a fuoco la massa di variabili che entra nel calcolo economico19E. Baraldi, Cultura tecnica e tradizione familiare. La Notificazione sopra i negozi de’ ferramenti e delle ferriere di Domenico Gaetano Pizzomo, padrone di ferriere a Possigliene nel XVIII secolo, «Quaderni» del Centro di studio, sulla storia della tecnica del CNR presso l’Università degli studi di Genova, 10, 1984..
5. Il “miglioramento”
Durante il plurisecolare periodo di coesistenza delle diverse pratiche siderurgiche ognuna di esse conosce perfezionamenti: nel caso degli impianti citati, tutti aumentano la produzione giornaliera, quella della singola campagna e la produttività. Quali sono le motivazioni che spingono il pratico a innovare un modo di procedere rompendo con una esperienza canonizzata e quindi col consueto adeguamento a modelli precedenti? Tra le molte ipotesi che si possono fare vale la pena di ricordarne almeno due. Entrambe riguardano il rapporto tra la committenza e il pratico.
Sono noti casi, ad esempio nella cantieristica navale, negli arsenali militari e in quelli marittimi, in cui il destinatario del prodotto ne lamenta un difetto o addirittura propone o suggerisce l’opportunità di una modifica. Luciana Gatti ha ad esempio segnalato casi in cui il «patrono», colui che comanda e possiede almeno in parte l’imbarcazione, segnala al cantiere oltre gli eventuali difetti dello scafo che gli è stato consegnato, l’opportunità di modificarlo in alcune parti o di costruirlo – in qualche sua parte – diversamente da come avviene di solito20L. Gatti, Navi e cantieri, cit.; EAD., Una cultura tecnica: i costruttori di navi, (in preparazione per una Storia della cultura ligure promossa dalla Società Ligure di Storia Patria).. Si danno casi infatti in cui il patrono o il committente si rivolgono al cantiere proponendo alcune misure che si capisce essere non canoniche, per cui il maestro d’ascia costruttore dovrà, nel metterle in opera, curare un adeguamento della struttura. Casi simili si conoscono per gli Arsenali di terra. Il cannone fuso in Arsenale e sperimentato sul campo di battaglia ritorna a volte al luogo d’origine o è l’occasione per farvi arrivare informazioni circa i difetti riscontrati e a volte qualche proposta di modifica21Si veda il lavoro di G. Cerino Badone in questa stessa pubblicazione..
Più in generale, l’occasione per innovare o esaminare la possibilità di modifica di una pratica è il frutto del contatto del pratico con un nuovo prodotto. A volte – ad esempio nella manifattura della carta – il mercante si presenta al paperaio con un risma di carta prodotta altrove e gli chiede di fame una uguale o molto simile. Non sa come il pratico potrà farla, neppure il pratico lo sa. Non è neppure detto che, anche se riuscirà a farla uguale, la faccia esattamente con gli stessi procedimenti con cui è stato prodotto l’originale.
Anche i “rapporti di produzione”, o più semplicemente gli accordi che si stabiliscono tra la committenza e il pratico hanno una grande importanza nel determinare il comportamento di quest’ultimo e la sua propensione ad una qualche modifica del suo modo di fare. Jacopo e suoi sono pagati a «ora di forno». Accertato che la qualità del minerale e del carbone siano quelle volute sta al maestro assicurare – e se ne è capace migliorare – la produttività dell’impianto e di prolungare la campagna.
Nel Genovesato la Maona forniva al maestro che operava nella ferriera o ferreria – questo localmente il nome dell’impianto a fornello aperto dove si riduce il minerale – una precisa quantità di vena, a saldo della quale il maestro doveva fornire una certa quantità di semilavorati o di prodotti finiti in ferro. Il contratto prevedeva che se il maestro – a carico del quale c’era la manutenzione dell’impianto, la spesa per il carbone e il soldo per i restanti mèmbri della sua squadra – fosse riuscito a produrre oltre il necessario a ripagare la vena avrebbe dovuto comunque cederlo alla Maona a prezzi previsti dal contratto. Era interesse del mercante che il maestro producesse il più possibile ma se ciò non fosse avvenuto il maestro sarebbe rimasto indebitato con la Maona; una condizione che rasentava la servitù. Nella ferriera genovese i rischi di impresa erano tutti del maestro, pratico chiamato a gestire anche una complessa rete commerciale. Le sue possibilità di guadagno erano erodere le posizioni dei collaboratori – operai o fornitori di servizi – e aumentare la produttività del minerale e più in generale dell’impianto – mettendo autonomamente sul mercato il surplus eventualmente prodotto e dolosamente nascosto al mercante. È un aspetto del rapporto tra mercante e artista che si manifesta anche nel settore tessile e su cui Carlo Poni, ormai anni fa, ha scritto pagine fondamentali22C. Poni, All’origine del sistema di fabbrica: tecnologia eorganizzazione produttiva dei mulini da seta nell’Italia settentrionale(sec. XVII-XVII,), in «R.S.I.», 1976, fasc. III, pp. 444-497..
Qualcosa del genere succedeva anche nella manifattura genovese della carta. Il contratto che stringeva il maestro al mercante si intitolava compositi» laborerii e la sua versione definitiva compare nei minutari notarili a partire dagli anni Venti e Trenta del Cinquecento23M. Calegari, La manifattura cit., pp. 21-24 e p. 103.. Dopo quella data non risulta che esistano contratti diversi dalla compositio. È il segno del radicalizzarsi dei rapporti tra il gruppo professionale, i pratici o, come erano detti a Genova, i «paperai» e il mercante.
Nella compositio maestro e mercante convenivano m quale cartiera di proprietà del mercante il maestro doveva portarsi a lavorare con la famiglia, la durata del contratto (in genere un anno), le condizioni del suo rinnovo, gli strumenti delle rispettive contabilità, la penale prevista nel caso di inadempienze del maestro e le fidejussini offerte da quest’ultimo a garanzia della sua solvibilità. In cambio di precise quantità di stracci – le cui caratteristiche col tempo non sono più indicate – il maestro si impegnava a fornire un preciso numero di risme di carta di varie qualità. Quanto alla mercede, i contratti si limitavano a registrare che essa doveva essere quella usuale sulla piazza: un silenzio reso più sospetto di fronte alla meticolosità del resto del contratto.
Il mercante rivendicava esclusivamente per sé la commercializzazione del prodotto onde evitare che il «paperaio» usasse ai suoi fini una eventuale maggiore capacità di far rendere gli stracci, indicata nel documento come superplus (nel corso del tempo anche con «crescio» o «crescimento») o con la formula «lo più che avrà avantasiato» La possibilità di produrre «crescio» era importante e il mercante – per convincere il «paperaio» a dichiararlo – si impegnava a pagare per esso una mercede maggiore.
Qui stava il cuore del contratto. Il «paperaio», unico conoscitore e responsabile del processo di produzione, poteva forse, grazie ai segreti della sua pratica, aumentare la resa degli stracci. Avrebbe così potuto dare al mercante la carta pattuita nella compositio e mettere segretamente sul mercato quella prodotta in più, rafforzando la sua posizione contrattuale e creando per giunta una modesta ma comunque pericolosa alternativa sul mercato locale. Da parte sua il mercante era ben deciso ad ostacolarlo: ne andava il suo controllo sulla forza lavoro e sul mercato, per non dire della perdita dei vantaggi derivanti dalla possibilità di vendere carta in quantità superiore a quella concordata.
A partire dal 1530 la compositio registra le tensioni tra i due eruppi provocate dal fatto che i paperai, decisi a sollevare la loro sorte, si impegnano a fondo a migliorare la produttività degli stracci. Va da sé che le maggiori rese della materia ottenute dal paperaio si ritorcono, neppure troppo alla lunga, contro di lui. Esse vengono infatti progressivamente inglobate nel minimo di produzione previsto dalla compositio e per il maestro si ripropone di continuo il problema di superarle.
È una sorta di rincorsa che si protrae un decennio dopo l’altro. Se attorno al 1520 la resa concordata è di 50 balle per 100 quintali di stracci, nel 1555 essa sale a 60 balle; dieci anni dopo le balle da produrre sono diventate 65 e, nel 1595, 75. Attorno al 1640 la resa prevista dalla compositio è di oltre 80 balle; il tetto viene raggiunto nel corso della prima metà del Settecento: 90 balle.
Si capisce che l’innalzamento della resa è strettamente connesso alle caratteristiche del prodotto richiesto dal mercante e in generale all’alleggerimento dei fogli e al peggioramento della qualità che interessa tutta la manifattura genovese della carta durante l’età moderna. Ma restano da spiegare i modi con cui il pratico nel corso di due secoli realizza il raddoppio della produttività in un edificio da carta le cui caratteristiche – numero di tine, martelli e squadra di operai – restano stabili. Un problema su cui è possibile formulare solo ipotesi, utili forse per reinterrogare fonti relative ad altri settori della manifattura.
La compositio suggerisce che nella manifattura della carta il pratico, il maestro sia poco interessato all’innovazione del processo in generale, essendo questo noto al mercante e posto sotto al suo controllo. Sia invece attento ad operare su quelle variabili che, mantenendo inalterati i luoghi e le condizioni contrattuali del processo, ne aumentano la produttività attraverso tecniche e accorgimenti il più possibile lontani dagli occhi del mercante. In altre parole: i modi e i luoghi dell’innovazione sono dettati dalla logica contrattuale che sottostà alla compositio. Che lo denunci o no, il maestro guadagna sul «crescio», cioè sulla sua capacità di far rendere la materia prima oltre il pattuito col mercante. E cioè guadagna se all’interno di un quadro definito da precise costanti tecniche – l’edificio fornito dal mercante – e da alcune variabili (manodopera, stracci e altro di qualità più o meno buona) riesce ad elevare il rendimento minimo convenuto della parte del sistema tecnico posto sotto il suo esclusivo controllo. Una macchina che accelerasse la produzione (maggiore quantità nell’unità di tempo) o una che permettesse un maggiore sfruttamento della materia prima non gli porterebbero alcun tornaconto, giacché andrebbero ad iscriversi tra le costanti del sistema tecnico, quello controllato dal mercante.
Una situazione che è ben rappresentata da alcuni episodi come, nella seconda metà del Cinquecento, il tentativo da parte di alcuni mercanti voltresi di introdurre in cartiera il «battolo da papeli ad acqua». Si trattava di un maglietto per battere le risme di carta che avrebbe avuto il compito di sostituire uomini e donne che facevano lo stesso lavoro con mazze di ferro e di legno e che per questo avevano osteggiato a fondo l’innovazione. I vantaggi, avevano detto i papera; nell’occasione, sarebbero stati tutti del mercante, a carico del quale fino a quel momento erano andate le spese di battitura e lisciatura.
Altre erano le pratiche sviluppate dai maestri, esclusive e per i propri fini, ben diverse da quelle auspicate dai mercanti. Alcune di esse si spingono ben oltre il limite del lecito e spesso si configurano come vere frodi. Come il ricorso a «certe graticelle che si pongono alle pile di marmo perché li stracci pisti non purghino bene…e vi rimane più materia che fa più peso». Erano vietatissime e oggetto degli strali di mercanti e Censori, ma sembra che ogni maestro vi facesse ricorso. Così come erano molti i maestri che riciclavano scolature e spurghi provenienti dalle pile «invece che lasciarli alli scarichi» o facevano un eccessivo ricorso alla calce per accelerare artificialmente la macerazione degli stracci e aggiungendola poi alla tina per appesantire i fogli che via via ne traevano. Potevano risultare così del peso concordato.
Erano pratiche che mercanti e Censori chiamavano «delittuose». Appartenevano però a buon diritto a quel provare e riprovare, al consapevole staccarsi da una pratica canonizzata per affrontare territori più incerti. Un percorso non troppo diverso da quello di altre sperimentazioni più nobili alle quali, in questo e in altre settori, si devono far risalire i “miglioramenti” di molte pratiche produttive dell’antico regime.
Note