La natura è ricca di beni e risorse, ma è anche bizzarra e fa le cose come pare a lei e non come fa comodo a noi. Per due milioni di anni i nostri progenitori sono vissuti raccogliendo frutta, bacche e radici e nutrendosene, oppure catturando con la caccia gli animali. In tempi (relativamente) molto più recenti, a partire da diecimila anni fa, altri nostri progenitori hanno imparato a coltivare alcune piante “economiche” per trarne cibo o fibre ed hanno imparato ad addomesticare alcuni animali per ricavarne carne, latte, pelli – sono cioè passati dallo stato di raccoglitori-cacciatori a quello di coltivatori-allevatori.
Anche allora gli esseri umani hanno dovuto adattare alle proprie necessità il cibo e le fibre e la pelle che la natura aveva predisposto per funzioni biologiche che non tenevano proprio nessun conto dei bisogni e delle industrie umani.
Si può immaginare che negli ultimi duecento anni gli scienziati, quando hanno avuto fra le mani le conoscenze e gli strumenti della chimica e della fisica, hanno cercato di copiare la natura e di fabbricare artificialmente quei beni in cui la natura mostrava così poca fantasia. La ricerca di surrogati delle fibre tessili, dei coloranti, della gomma, delle pelli, eccetera, è stata ispirata anche dal fatto che molti prodotti naturali si trovavano soltanto nei lontani paesi coloniali, erano rari e costosi. Così, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i chimici sono stati capaci di fabbricare i primi coloranti e le prime fibre artificiali e le prime resine sintetiche.
Gli anni ruggenti della chimica sintetica si ebbero fra il 1910 e il 1940 con i progressi delle tecniche di catalisi. Un catalizzatore è una sostanza chimica che non interviene direttamente in una reazione; la sua presenza fa però aumentare la velocità di reazioni che sarebbero altrimenti molto lente. Anche nel parlare corrente si usa il termine “catalizzatore” per riferirsi a un atto o ad una persona che facilita certe azioni.
Fu così scoperto che certe molecole molto semplici, come l’etilene o il cloroetilene (cloruro di vinile), che si formano dal petrolio o dal carbone, hanno una struttura chimica che comprende atomi di carbonio uniti con “doppi legami”. È come se due atomi di carbonio fossero uniti con due braccia ciascuno: delle due, una può sciogliersi dal legame e unirsi con le braccia liberate da altre molecole simili. Così un gran numero di molecole, ciascuna costituita da due atomi di carbonio come l’etilene, possono unirsi con un gran numero di altre molecole, ciascuna costituita da coppie di atomi di carbonio dotati di doppi legami, dando luogo alla formazione di “polimeri” (in greco “poli” significa molti e “meros” significa peso). I polimeri sono molecole in cui si ritrova per molte volte una successione di unità, di uguale “peso”, di una molecola semplice (come l’etilene) che si chiama monomero (sempre in greco “mono” indica uno).
La liberazione di uno dei due doppi legami, in modo da unire fra loro più molecole simili, è facilitata da adatti catalizzatori: a seconda delle molecole di partenza (monomeri), della temperatura, della pressione e dei catalizzatori, si ottengono innumerevoli polimeri, tutti diversi fra loro. Il sogno di “liberarsi” dalla natura, di “copiare” la natura, anzi di ottenere prodotti ancora migliori, addirittura fatti “su misura” per i bisogni umani, sembrava realizzato.
In realtà, nel caso del polietilene – o politene, come si chiama comunemente, che è poi la materia con cui sono fatti i sacchetti della spesa o quelli neri in cui si mette la spazzatura – alcuni tipi sono fragili, altri tipi si rammolliscono o fondono in seguito a riscaldamento; alcuni tipi possono dare dei filamenti che però si prestano male come fibre tessili, altri tipi possono essere distesi in fogli più o meno sottili o possono essere “stampati” sotto forma di piatti o bottiglie. Sempre alla ricerca di surrogati del cotone, della lana, della seta, del legno, del cuoio, sono state preparate e provate centinaia di macromolecole ottenute con diversi processi, addizionate con vari composti chimici, tutte rivelatesi più o meno soddisfacenti.
Nonostante tutti gli sforzi, resta il fatto che una borsa o una poltrona di pelle appare differente e meno pregiata rispetto ad una “di plastica”; anche le più raffinate fibre tessili sintetiche non raggiungono alcune doti che siamo abituati ad attribuire alla seta o alla lana. Insomma, senza sapere niente di chimica e di catalizzatori, nella gran varietà di materie offerte dal regno della natura, i nostri progenitori avevano, con pazienza, selezionato dei prodotti così buoni che facciamo ancora fatica a imitare.
Una svolta rivoluzionaria nel campo delle materie plastiche si è avuta proprio quarant’anni fa quando il chimico italiano Giulio Natta (1903-1979) ha scoperto dei catalizzatori capaci di polimerizzare il propilene, una molecola rivelatasi fino allora poco maneggevole. Il propilene ha tre atomi di carbonio, due dei quali sono uniti con un doppio legame.
Il polimero – anzi i vari polimeri – del propilene si sono rivelati dei materiali resistenti al calore e agli sforzi meccanici, suscettibili di fornire dei filamenti adatti come fibre tessili, per la produzione di cavi più resistenti di quelli di ferro, per la fabbricazione di bottiglie, contenitori e serbatoi resistenti agli acidi, insomma, in un gran numero di applicazioni.
Il prof. Natta per questi suoi studi, nello stesso tempo teorici e applicati alla soluzione di problemi industriali, ebbe il premio Nobel per la chimica nel 1963, insieme al tedesco Ziegler che aveva ottenuto, in maniera indipendente, risultati simili. Il processo Natta è oggi seguito per la produzione del polipropilene in tutto il mondo e il polipropilene è una delle materie plastiche più diffuse nel mondo, prodotto in diecine di milioni di tonnellate all’anno.
Se le materie plastiche sono così importanti economicamente, se forniscono manufatti che talvolta hanno proprietà straordinarie, perché sono così spesso oggetto di contestazione da parte del movimento ambientalista?
Il fatto è che bisogna distinguere fra usi a vita lunga e usi a vita breve dei manufatti di materia plastica: di polietilene, polipropilene, cloruro di polivinile, polistirolo, e di decine di altre macromolecole che, nel parlare corrente, vengono comprese nel termine “la plastica”. Quando vengono impiegate per il rivestimento di fili elettrici, per la copertura di edifici, per la fabbricazione di mobili o di parti di macchine e di autoveicoli, di tubazioni per l’acqua, di pavimenti, le materie plastiche possono presentare addirittura dei vantaggi rispetto alla gomma, al legno, alla lamiera, al cuoio, alla ghisa. Le materie plastiche sono resistenti agli agenti atmosferici e agli acidi, sono leggere, durature: la contestazione è rivolta agli usi frivoli e a vita breve dei manufatti di plastica, specialmente all’uso nei sacchetti usa-e-getta per la spesa, nei voluminosi e spesso inutili imballaggi, nel rivestimento dei fascioli di riviste e giornali.
Una volta usati per pochi giorni, spesso per pochi minuti, il tempo di portare la spesa dal negozio a casa, questi milioni di tonnellate di materie plastiche vengono gettati via e vanno ad aggravare i problemi di smaltimento dei rifiuti solidi. La proprietà di essere inattaccabili dagli agenti esterni, una virtù se le materie plastiche sono usate per tubi o coperture di edifici, fa sì che i rifiuti di manufatti di plastica siano praticamente indistruttibili quando vengono messi nelle discariche, o buttati nei fiumi o sulla superficie del mare o nei campi. Alcuni tipi di materie plastiche commerciali, se vengono bruciate negli inceneritori, provocano un dannoso inquinamento dell’aria.
Il riciclaggio delle materie plastiche usate è ancora ai primi passi ed è ostacolato dal fatto che è difficile ottenere nuovi manufatti da materie plastiche di tipi molto diversi fra loro, miscelati come avviene nella raccolta domestica dei rifiuti.
Il futuro delle materie plastiche dipende dal coraggio di spiegare ai consumatori che, nelle applicazioni a breve vita, soprattutto negli imballaggi, bisogna usarne di meno per ridurre i costi e i danni ambientali nella fase di smaltimento. D’altra parte vi sono ancora probabilmente numerosi campi di applicazione in cui i manufatti di materia plastica possono sostituire con successo materiali naturali rari e costosi. L’accettabilità sociale delle materie plastiche dipende quindi da una corretta informazione dei consumatori e da perfezionamenti e innovazioni sia nel campo delle materie esistenti, sia in quelle di future macromolecole, forse ancora da inventare.