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Un ecomuseo dell’Ipca, per non dimenticare

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Ve la ricordate l’Ipca di Ciriè, la “fabbrica del cancro”? Probabilmente no, perché certe notizie si vogliono rimuovere il più presto possibile dalla memoria collettiva. Eppure è stata forse la prima vertenza che ha posto al centro dell’attenzione pubblica la salute in fabbrica e nello stesso tempo le relazioni fabbrica-ambiente.

Perché ciò accadesse il prezzo è stato tremendamente alto: 134 operai su 527 addetti, sono morti, la maggior parte, per cancro alla vescica. Lavoravano, senza protezione alcuna, alla produzione di coloranti all’anilina. Fino a che due di loro, prima di morire, consapevoli del dovere di non più tacere, per salvare i loro compagni, rischiarono il tutto per tutto.

Si chiamavano Benito Franza e Albino Stella. L’avvocato cui si rivolsero li avvertì sulla lotta tra Davide e Golia che stavano per intraprendere. Non si tirarono indietro. È a loro che si deve la fine di un incubo. Non ce la facevano più a vedere i loro compagni pisciare sangue, lasciare le impronte colorate dei loro corpi sulle lenzuola del letto, e le gocce di sudore a segnare i loro percorsi in bicicletta dalla fabbrica a casa. Non ce la facevano più ad assistere a quella morte annunciata.

Il loro coraggio, a far breccia in un muro di colpevoli omertà, incontrò il coraggio dei giudici e di un pretore, Enzo Troiano, che con il processo penale aprì la strada alla lunga stagione dei processi per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il processo finì riconoscendo e condannando i colpevoli. Tuttavia se la cavarono con poco.

oi sono venute altre storie, non meno esecrabili. L’Interchim, rilevato l’impianto, ne fece un luogo di stoccaggio di rifiuti altamente tossici che invece si era impegnata a smaltire. Negli anni novanta i movimenti ambientalisti e sindacali cittadini hanno continuato la battaglia degli Stella e dei Franza. Il Comune di Ciriè acquisì l’area facendosi carico della bonifica.

Con il finanziamento del Ministero dell’Interno sono stati smaltiti 5.677 fusti contenenti solventi, diluenti, residui di verniciatura, coloranti, reagenti; eliminati 4.660.220 chilogrammi di liquami tossici; bonificati 50 serbatoi e 13 vasche di decantazione.

La storia dell’Ipca non poteva essere definitivamente consegnata nell’oblio.

Il rischio era però di farne un Mausoleo triste e grigio, a testimonianza di una tragedia epocale, da mummificare come caso limite, incidente di percorso. Anche qui a dimenticare le drammatiche repliche dell’ACNA, dell’Amiantifera di Balangero, della SEA, dell’Eternit, piuttosto che di Marghera, di Manfredonia, di Taranto e di tutti i siti industriali in cui oggi stesso, nel momento in cui leggete queste righe, qualcuno paga con la vita il diritto al lavoro, magari nel Sud del mondo ove queste produzioni sono state massicciamente trasferite.

Invece l’IPCA di Ciriè, la “fabbrica del cancro” potrà  sì ricordare quei tragici avvenimenti -affinché non tornino-, ma rappresenterà  un orizzonte di speranza grazie al lavoro di Claire Roudenko Bertin.

Artista-maga, di famiglia originaria di Cernobyl, chiamata a esorcizzare una storia tragica, per restituirla al territorio, alla sua storia, alla sua memoria a un’identità  collettiva che non può dimenticare.

Nessuna amnesia su ciò che è successo, ma con l’esigenza di andare oltre. È per questo che Claire ha immaginato un percorso artistico che ha coinvolto il territorio offeso, dalla comunità di Ciriè, all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, all’Istituto d’Arte “Felice Faccio” di

Castellamonte.

C’è oggi un campo di Calendule, pianta cicatrizzante, fiorito sullo sfondo dell’IPCA.

Perché a Ciriè c’è bisogno di una cicatrice che guarisca il passato ma che lasci un segno a suo ricordo. Le cicatrici restano sui nostri corpi e accompagnano nel ricordo le nostre storie.

La ferita dell’IPCA deve rimanere su quel corpo della memoria collettiva di un territorio che è il paesaggio, ma deve stimolarci ad andare oltre.

Lo vogliono anche Cinzia Franza e Daniele Stella, carne di carne distrutte dalle lavorazioni all’anilina, carne di carne di coloro che seppero darsi il coraggio per denunciare cose che nella letteratura medica erano note da tempo, ma che vennero colpevolmente ignorate sacrificando, sull’altare del profitto a ogni costo, percorsi umani unici come quelli di tutti noi, travolgendo aspirazioni, progetti, affetti.

Gli sforzi congiunti del Comune di Ciriè e della Provincia di Torino si sono incontrati, in un progetto che sarà  inserito nella rete degli ecomusei che la Provincia di Torino ha dedicato al patrimonio industriale.

Che è fatto anche di tragedie e di vittime cadute per rivendicare un diritto, quello al lavoro, che la Costituzione repubblicana dichiara garantire a tutti.

Il progetto di ecomuseo sui “Colori della vita” in contrapposizione a quelli che hanno causato morte, ha coinvolto il territorio offeso, producendo vari interventi, dalle installazioni sul cortile della “fabbrica della morte” al campo di Calendule, al lavoro che con l’Istituto di Castellamonte ha prodotto i contenitori in ceramica per l’olio di Calendula, ispirati al seme della pianta.

L’inizio della vita, della rinascita. Il prato è fiorito, il progetto ecomuseo è partito, la bonifica dell’Ipca continuerà e il sito accoglierà i segni riconcilianti dell’arte accanto alle testimonianze della tragedia, l’archivio delle malattie professionali accanto all’orto botanico delle piante tintorie.

Tutto ciò a segnare la necessità  di riconciliazione dell’uomo con la natura, l’esigenza di ritrovare equilibri dai quali non si può prescindere se non si vuole soccombere se si vuole che la vita trionfi sulla morte; l’ecomuseo dell’Ipca sarà  anche questo, un monito alla superbia dell’uomo. Ne sarà  parte integrante il Centro Internazionale di Ricerca e di Documentazione “Albino Stella e Benito Franza” i cui obiettivi prioritari saranno:

1. conservare gli ambienti di lavoro dell’Ipca come memoria collettiva delle terribili esperienze dei lavoratori immolati sull’altare del profitto;

2. elaborare un progetto di riqualificazione del complesso industriale per conservare la memoria attualizzandola in prospettiva di miglioramento delle condizioni lavorative;

3. documentare le possibili altre circostanze di esposizione a lavorazioni insalubri negli ambienti di lavoro e di vita quotidiana, progettando un Centro studi sulle malattie professionali;

4. stimolare la riflessione sui temi di uno sviluppo sostenibile per l’uomo e l’ambiente, con progetti per le scuole e la costituzione di laboratori artigianali capaci di sperimentare forme d’uso dei colori e nuovi metodi per realizzarli in maniera naturale.

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