Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Ghiaccio

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Chi ha inventato la vita, così come la conosciamo, aveva bisogno di acqua liquida, cioè di un corpo planetario la cui temperatura fosse compresa fra 0 gradi Celsius e 100 gradi Celsius; come i lettori ben sanno, alla attuale pressione atmosferica. al di sotto di zero gradi l’acqua è solida; al di sopra di 100 gradi l’acqua è allo stato di vapore; ma anche a pressioni differenti l’acqua resta liquida in un intervallo di temperature abbastanza piccolo.

Per realizzare il suo progetto il nostro “inventore” doveva mettere la terra ad una distanza giusta dal Sole, in modo che potesse ricevere una quantità di calore tale da tenere la Terra ad una temperatura molto superiore a quella dei freddissimi spazi interplanetari circostanti, che sono a circa meno 270 gradi Celsius, ma da non superare la temperatura di 100 gradi Celsius. Non solo: l’inventore, che aveva buone nozioni di termodinamica, sapeva anche che se avesse lasciato nuda la superficie della Terra, questa avrebbe irraggiato nello spazio gran parte del calore ricevuto. Un  po’ come succede con la Luna, che non è poi tanto distante dal Sole, rispetto alla Terra; la superficie della Luna diventa caldissima quando riceve direttamente la radiazione solare e diventa freddissima quando il Sole “tramonta” al suo orizzonte lunare. In queste frasi “caldo” e “freddo” sono riferite alle sensazioni che abbiamo noi umani terrestri.

Per realizzare il suo fine di assicurare alla Terra una temperatura “media” tale da conservare, su gran parte della sua superficie, l’acqua allo stato liquido, l’inventore ha coperto la superficie del pianeta Terra con una coltre di gas, l’atmosfera. L’atmosfera all’inizio era molto differente da quella attuale; lentamente si è trasformata come composizione chimica e come trasparenza alla radiazione solare; adesso assicura un flusso di energia in entrata e in uscita tali da tenere la superficie del pianeta alla temperatura e pressione adatte, appunto, a conservare l’acqua liquida. L’atmosfera insomma fa passare una certa quantità di radiazione solare e permette la fuoriuscita, dalla superficie della Terra, della stessa, più o meno, quantità di energia solare, in modo da tenere la temperatura terrestre ad un valore medio relativamente costante che, oggi come oggi, è di 15 gradi Celsius.

Un valore medio, va sottolineato, perché, per la forma sferica della Terra, l’intensità della radiazione solare che raggiunge la superficie terrestre è molto diversa dal centro ai “poli”; se nelle zone equatoriali e tropicali la temperatura media annua è superiore a 15 gradi, ai poli e nelle zone ad elevata latitudine la temperatura media scende molto al di sotto di zero gradi Celsius. L’inventore della Terra doveva cioè fare i conti col rischio che una parte dell’acqua nelle zone “fredde” si trasformasse in acqua solida, cioè in ghiaccio.

Se tutti gli oceani polari si fossero trasformati in ghiaccio non ci sarebbe stata vita; allora il nostro “inventore” ha fatto in modo che l’acqua solida fosse “più leggera” dell’acqua liquida e quindi galleggiasse in superficie lasciando gran parte dell’acqua sottostante allo stato liquido, tale da consentire la vita.

Se ci pensate, ci voleva della bella fantasia a fare l’acqua H–O–H così com’è. Ricordate? abbiamo parlato nel numero precedente, dei legami che gli atomi di idrogeno e di ossigeno stabiliscono fra di loro e con le molecole degli esseri viventi e inanimati presenti sui continenti e nei mari. Non basta: bisognava fare in modo che l’acqua si trasformasse in ghiaccio, quando fa freddo, lentamente e che ridiventasse liquida altrettanto lentamente in modo da assicurare un graduale flusso di acqua liquida verso le valli e i mari.

Dal momento che c’era, l’inventore della vita sulla Terra ha fatto altre due cose importanti e utili. Visto che contava molto sull’acqua, ha fatto in modo che il passaggio dell’acqua dallo stato di vapore a quello liquido e a quello solido avvenissero con rilascio di calore, e che i fenomeni inversi, il passaggio dallo stato solido di ghiaccio a quello liquido e dell’acqua liquida allo stato di vapore richiedessero un assorbimento di calore. In questo modo l’acqua, nei suoi cambiamenti di stato, funziona da grande termoregolatore del pianeta: “porta via” calore nei posti troppo caldi, facendo evaporare l’acqua la quale restituisce lo stesso calore nei posti freddi, scaldando l’aria circostante quando passa dallo stato di vapore a quello di acqua liquida e di ghiaccio (neve, grandine).

L’altra importante furbizia riguarda i caratteri del ghiaccio. Sapendo che l’acqua liquida, nello scorrere lungo le valli dei continenti, avrebbe disciolto i sali solubili e disgregato le rocce superficiali e che tutto sarebbe finito negli oceani arricchendoli di sostanze disciolte, e che il mare così fatto sarebbe stato inadatto per l’irrigazione, le abitazioni, eccetera, il grande inventore ha fatto in modo che il ghiaccio si formi privo di sali, sia cioè una grande massa di acqua solida “dolce”.

Oggi come oggi la massa di acqua esistente sulla Terra è di circa 1.400 milioni di miliardi di tonnellate, quasi tutti nei mari e negli oceani; la massa del ghiaccio esistente sulla Terra, nei ghiacciai, nei poli, eccetera, ammonta al non disprezzabile valore di 60 milioni di miliardi di tonnellate; a titolo di confronto si pensi che l’acqua che scorre sulla superficie dei continenti per tornare al mare è di appena 40 mila miliardi di tonnellate; da questa relativamente piccola quantità di acqua dipende la vita vegetale, animale, dipendono le fabbriche e le città e le campagne che, tutte insieme, hanno bisogno, sull’intera Terra, di circa 2 mila miliardi di tonnellate di acqua.

Se un osservatore straniero, ignorante dei terrestri e di geografia, ci guardasse dallo spazio chiamerebbe il nostro pianeta mare-ghiaccio e il nome della geo-grafia dovrebbe essere più opportunamente mutato in idro-grafia.

Certo i nostri più antichi progenitori si sono accorti che per far crescere le piante occorreva acqua priva di sali, che l’irrigazione con acqua di mare “bruciava” (il termine è assolutamente improprio, letteralmente) le colture e che l’acqua di mare era assolutamente sgradevole e insopportabile da bere. Chi abitava vicino al mare, chi abitava nei climi freddi, chi navigava sui mari deve certamente essersi accorto che “leccando” un pezzo di ghiaccio ci si dissetava perché l’acqua “dentro” il ghiaccio era priva di sali, anche se si era formata sulla superficie degli oceani o di un lago salato.

A questo punto si trattava di capire che prendendo del ghiaccio, dove era disponibile, si poteva ottenere acqua potabile anche vicino ai mari. Non dovunque, perché una parte dei grandi ghiacciai polari è costituita da acqua salina ghiacciata; sono costituiti da acqua dolce i ghiacci galleggianti, come gli icebergs, e i ghiacciai continentali.

Che la natura offrisse, con il ghiaccio nei mari freddi, un sistema di dissalazione devono averlo osservato in tanti fin dai tempi antichissimi; se ne trovano notizie nei resoconti dei grandi e lunghi viaggi oceanici. Il navigatore James Cook, nel secondo dei suoi viaggi australi sulla nave “The Resolution”, nel gennaio 1773 aveva fatto ricorso alla fusione dei ghiacci di 15 tonnellate di icebergs galleggianti per approvvigionare di acqua dolce potabile il suo equipaggio.

Ad un vero e proprio processo di dissalazione per congelamento dell’acqua di mare pensò Anton Maria Lorgna (1735-1796), capitano dell’esercito della Repubblica Veneta e professore presso il Collegio militare di Verona. “Sembra strano – scrisse nel 1786 – che non essendoci forse chi non sappia che l’acqua marina perde alquanto di sua salsedine nel congelarsi, nessuno abbia pensato giammai di trar profitto di questo fenomeno”. E così Lorgna volle riprodurre in laboratorio il fenomeno che la natura fa su larga scala nelle zone fredde della Terra.

Si fece portare a Verona l’acqua di mare da Venezia e aspettò l’inverno per poter far congelare una parte dell’acqua marina; quando la temperatura scese sotto zero Lorgna mise dei vasi pieni di acqua di mare all’aperto e osservò quello che succedeva; non tutta l’acqua si trasformava in ghiaccio: Lorgna allora separò il ghiaccio che si era formato in superficie (si è detto prima che il ghiaccio è “più leggero” dell’acqua liquida) nei vari vasi e lo fece fondere. Osservò così che l’acqua fusa aveva una salinità minore di quella dell’acqua di mare di partenza, mentre l’acqua sottostante il ghiaccio, che era rimasta liquida, era molto più salata di quella marina originale. Come mai l’acqua ottenuta per fusione del ghiaccio era ancora salata? si trattava di acqua di mare che era rimasta “dentro” il ghiaccio o aderente alla superficie? Lorgna prese allora l’acqua ottenuta per fusione del ghiaccio e la mise in un altro vaso e fece congelare anche questa; l’acqua ottenuta per fusione del ghiaccio così ottenuto, in superficie nel nuovo vaso, era molto meno salata.

Era allora vero che il ghiaccio è privo di sali e la salinità osservata nell’acqua ottenuta dalla fusione del ghiaccio del primo esperimento era dovuta all’acqua di mare aderente al ghiaccio. Per farla breve Lorgna, sempre partendo dall’acqua di mare, fece dei congelamenti e fusioni successivi, provò a lavare con acqua dolce la superficie del ghiaccio e verificò che l’acqua ottenuta alla fine, dal ghiaccio, era priva di sali. “Alla fine, scrisse Lorgna – non ebbi come residuo alcun vestigio salino né sedimento”. Lorgna aveva insomma inventato un processo di dissalazione dell’acqua di mare.

Imbaldanzito dal successo si mise a cercare di ricuperare acqua dolce da tutti i liquidi salini che aveva a disposizione, compresa… l’urina. Dopo averne fatta congelare una parte Lorgna racconta che, “estratto il ghiaccio, lo lavai tre volte in acqua pura, poi lo feci liquefare e lo filtrai; non era altro che acqua schietta e limpida e senza odore, senza sapore e non distinguevasi dall’acqua di fonte”.

L’interesse di questo racconto sta nel fatto che negli Stati Uniti sono stati messi a punto dei processi per ricuperare acqua potabile dall’urina degli astronauti a bordo dei veicoli spaziali, certamente senza sapere niente di Lorgna e dei suoi esperimenti veronesi di quasi due secoli prima.

Il sistema di dissalazione per congelamento è rimasto di limitato interesse pratico, fino a quando non sono stati inventati dei processi per la produzione artificiale del freddo. In tempi più recenti alcuni esperimenti sono stati fatti nel 1940 presso l’Istituto Superiore di Sanità di Roma. Negli anni successivi l’interesse per la dissalazione fu rivolto soprattutto ai sistemi di distillazione, di cui esistevano tecniche perfezionate, anche se era facile costatare che l’energia necessaria per trasformare il ghiaccio in acqua dolce è sette volte minore di quella necessaria per trasformare l’acqua liquida in vapore nella distillazione.

Una breve resurrezione dell’interesse per la dissalazione per congelamento si ebbe negli anni cinquanta del Novecento ad opera di un certo Alexander Zarchin, un ingegnere ebreo emigrato, già anziano, dall’Unione sovietica in Israele nel 1949; per tutta la vita aveva inseguito il sogno di un sistema per ottenere acqua dolce dal mare per congelamento e successiva fusione del ghiaccio ottenuto. Davanti alla situazione di scarsità di acqua dolce in Israele Zarchin elaborò una ingegnosa soluzione: invece di trasformare l’acqua presente nel mare in ghiaccio portandola a contatto con una superficie fredda, pensò di congelarla facendone evaporare una parte: l’acqua liquida infatti passa allo stato di vapore anche a bassa pressione, assorbendo una grande quantità di calore; una quantità sufficiente a trasformare in ghiaccio sette chili di acqua per ogni chilo di acqua evaporata.

Il processo Zarchin consisteva in grandi camere piene di acqua marina, nelle quali, con grandi ventilatori, veniva aspirata l’aria e il vapore acqueo che a mano a mano si formava portando via calore alla massa restante che in parte si trasformava in ghiaccio.

L’idea era ingegnosa anche se richiedeva vari accorgimenti. Zarchin aveva messo a punto un sistema per far formare il ghiaccio sotto forma di piccoli cristalli che venivano poi lavati, per eliminare l’acqua marina rimasta aderente alla superficie dei cristalli,  con  parte dell’acqua dolce ottenuta dalla loro fusione. Alla fine, dalla fusione del ghiaccio si otteneva acqua dolce di qualità adatta come acqua potabile o per l’irrigazione. L’energia consumata per azionare i ventilatori veniva in parte ricuperata riportando facendo condensare il valore acqueo per contatto con il ghiaccio che si era formato. In questo modo si otteneva acqua dolce sia dal raffreddamento del vapore acqueo, sia dalla fusione del ghiaccio. Il processo Zarchin era quindi, insieme, un sistema di dissalazione sia per congelamento sia per distillazione.

Il sistema funzionava perché Zarchin aveva inventato anche un ventilatore molto leggero, capace di spostare, con basso consumo di energia, grandi masse di aria e di vapore acqueo Il primo impianto Zarchin fu installato nel porto israeliano di Eilat sulle rive del Mar Rosso e produceva 1000 metri cubi di acqua dolce al giorno. Il processo destò grande interesse; una unità, capace di produrre 450 metri cubi di acqua dolce al giorno, fu acquistata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e fu installato nel Laboratorio di Bari, in una traversa della circonvallazione, nella zona industriale. Credo che abbia funzionato poco e con scarsa convinzione. Zarchin morì e il suo processo non ha avuto molto seguito. Una descrizione, con fotografia, del processo Zarchin, e anche notizie degli esperimenti di Lorgna si trovano in un libro intitolato “Il problema dell’acqua”, pubblicato all’editore Cacucci di Bari nel 1969. Credo che l’editore ne abbia ancora qualche copia.

Ma non è finita: se è vero che un fattore limitante della diffusione dei sistemi di dissalazione per congelamento è rappresentata dai consumi di energia, perché non sfruttare l’energia della natura che, gratis, produce acqua dolce solida nelle grandi distese dei ghiacci? Purtroppo i ghiacciai di acqua dolce e gli icebergs – i grossi frammenti galleggianti staccatisi dalle calotte polari – sono lontani dai paesi aridi privi di acqua. Qualcuno però ha pensato di “prendere” degli icebergs e di trascinarli, con dei rimorchiatori, in qualche porto delle zone aride. La prima proposta fu fatta dall’oceanografo John Isaacs della Scripps Institution, a La Jolla, negli Stati Uniti; poi due ricercatori americani, Hult e Ostrander, fecero uno studio più dettagliato; nel 1977 nell’Università di Ames, negli Stati Uniti, si tenne una intera conferenza su “acqua dolce dagli icebergs”.

Naturalmente non è facile “impacchettare” un iceberg e trasportarlo a grandi distanze; una parte dell’acqua fonde durante il lento viaggio attraverso gli oceani ma, a conti fatti, resterebbe ancora sufficiente acqua solida da far fondere e alimentare degli acquedotti. Un principe saudita aveva

addirittura costituito una società per studiare come trasportare un iceberg contenente 100 milioni di tonnellate di acqua solida a 14.000 chilometri di distanza per rifornire di acqua dolce la città di Gedda, in Arabia. Gli australiani hanno pensato di catturare gli icebergs dell’oceano australe, come aveva fatto Cook, e di trascinarli a Perth o Adelaide, in Australia.

Insomma: dalla granita alla lotta alla sete: ne abbiamo di debiti col ghiaccio.

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