Hosea Jaffe, L’apartheid intorno a me. Autobiografia, Jaca Book, 2018
Questo libro di Hosea Jaffe (1921 – 2014) è tanto attuale quanto scomodo, spesso urticante; non è difficile prevedere che riceverà poca attenzione, riteniamo quindi, nello spirito di questa rivista, segnalarlo a chi voglia fare i conti con la realtà in cui siamo immersi e con la storia del 900, o, più precisamente della modernità. Jaffe è stato un militante politico, uno storico e, soprattutto, un economista critico che ha individuato nel razzismo il dispositivo fondamentale alla base dello sviluppo e storia del capitalismo. In questa ottica il Sudafrica, dove era nato da genitori russo-ebrei e vissuto sino all’esilio, è un laboratorio del sistema di domino capitalistico, non un fenomeno marginale, una eccezione rispetto al corso normale della storia. Al contrario, con la sua stessa vita, Jaffe testimonia e sviscera una struttura di ingiustizia che la conquista europea del mondo, nelle sue diverse fasi, ha imposto a tutti i popoli, utilizzando costantemente il razzismo nei confronti dei “non bianchi” come strumento principale di legittimazione e conferma di una pretesa superiorità naturale, da tradurre non solo in pratiche spontanee ma anche in apparati legislativi, norme discriminatorie, provvedimenti ordinari e di emergenza.
Jaffe rovescia radicalmente la prospettiva eurocentrica, ereditata dagli Usa, non a caso intrisi di razzismo, e percorre la storia degli ultimi secoli, sino all’accelerazione novecentesca, dal punto di vista dei “non bianchi”, fornendo ampie prove di quanto il razzismo abbia compenetrato non solo gli schieramenti borghesi ma anche la sinistra nelle sue varie coniugazioni. Jaffe, in un tale contesto, critica l’eurocentrismo di Marx e di Engels, accusandoli apertamente di razzismo. Un punto che dovrebbe essere esaminato con attenzione dagli specialisti che in molti paesi, incluso il nostro, si stanno occupando di Marx, mentre sono ridotte al minimo le forze politiche di ispirazione o fede marxista. D’altro canto Jaffe, collocabile in area trockista, per tutta vita legato al Non European Unity Movement of South Africa, è, a modo suo, un difensore delle lotte e delle realizzazioni del comunismo novecentesco, a partire dall’URSS per arrivare a Cuba; questa sua posizione si spiega con il ruolo che attribuisce ai paesi socialisti novecenteschi nella lotta anticoloniale.
Lo sguardo rovesciato, spiazzante, con cui Jaffe guarda il mondo risulta in modo netto nella tesi, presente in alcuni suoi scritti, secondo cui le fabbriche dovrebbero essere localizzate in Africa, dove ci sono le materie prime di cui hanno bisogno, piuttosto che in Europa, molto più adatta allo sviluppo dell’agricoltura. In effetti uno sviluppo industriale poté esserci solo in Sudafrica ma basato sul duplice sfruttamento della popolazione di colore e delle miniere, a partire da quelle di diamanti. Per altro, la struttura razziale e coloniale che ha analizzato e contro cui si è battuto Jaffe, non è stato affatto superata dalla fine del colonialismo politico –in Sudafrica dell’apartheid-. Essa è pienamente operativa e senza la sua conoscenza, analisi critica (e battaglia politica), poco si comprende di quel che sta succedendo, comprese le migrazioni che gettano nel panico gli europei e tutti i popoli “ricchi” o che si percepiscono tali, perché razzialmente superiori. Ma l’ordine della modernità e la sua costituzione materiale, fustigate da Jaffe, non reggono più, e a poco serve, se non a infliggere sofferenze inutili, e a perdere tempo, riproporre vecchie, catastrofiche, ricette di soluzione finale. Non importa se sensato o insensato, progressivo o meno, il moto della storia ha unificato il mondo; esistono limiti invalicabili ma non esistono più confini. Opporsi a questa conclusione, e alle politiche che ne dovranno conseguire, significa consegnarsi alla guerra delle razze, in cui tutti saranno perdenti e perduti.