Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Un paesaggio storico: l’Oltregiogo genovese

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Accogliendo la sollecitazione di Giorgio Nebbia ripropongo, quale documento d’epoca, un testo edito nel 1993 dalla rivista “Urbs” di Ovada. Il fine non era scientifico o erudito, rappresentava piuttosto un aspetto dell’attività culturale e dell’azione civica dell’allora sezione “Novi Ligure-Ovada” di Italia Nostra, per qualche decennio isolata ma efficace propugnatrice di una azione di salvaguardia dell’ambiente naturale e storico dell’Oltregiogo, in sostanza i possedimenti diretti e indiretti di Genova all’epoca della Repubblica, e anche successivamente. Una storia lunga e complessa, del tutto aperta, e che forse merita di essere conosciuta. Nella generale perdita di memoria, la storia per quel poco che riesce a trasmettere o riportare alla luce è di utilità e non di danno alla vita.

Capitolo I – Lo spessore della montagna

Con queste note sicuramente sommarie, senza la pretesa di collocarci sul piano arduo ma di cui si avverte sempre più la necessità della storia dell’ambiente, si vuole suggerire le potenzialità e l’interesse di un incrocio tra i dati dell’analisi storica, desunti dalle tradizionali fonti archivistiche, interrogate secondo ottiche e sensibilità nuove, con quelli deducibili dall’esplorazione del territorio.

Qui ci limitiamo ad evocare a grandi linee una storia intensa e ricca, ma soprattutto inaspettata; infatti il territorio appenninico dell’Oltregiogo è un luogo oggi appartato e quasi remoto, almeno per il grande pubblico. Gli assi autostradali e ferroviari che lo sfiorano tangenzialmente sulle direttrici dalla Padania verso la Riviera genovese hanno avuto l’effetto paradossale di allontanare nel tempo un territorio che avvicinavano nello spazio. Può così capitare, anche al visitatore attento, di cogliere solo ciò che è più evidente, la giustapposizione di vecchi borghi e castelli ai segni forti del moderno, sullo sfondo di un’avanzante «naturalizzazione», causata dall’abbandono della montagna appenninica.

In realtà il vasto quadrilatero che ha come confini storico-naturali la destra del corso dello Stura e dell’Orba ad occidente, la sinistra del corso dello Scrivia ad oriente, lo spartiacque appenninico a sud e l’antica piana della Frascheta a nord, è stato interessato da vicende tanto intense quanto quelle che hanno segnato, in tempi molto più lontani e lenti, la sua evoluzione geologica, nel punto di contatto tra la catena alpina e quella appenninica. Area di confine, di contese e conflitti ma anche di comunicazione e di scambio dall’età romana sino ad oggi, regno da tempi immemorabili della foresta e delle acque primordiali, ha poi visto lo sviluppo di un reticolo di percorsi commerciali di crinale e di fondovalle da e per Genova, lo sfruttamento industriale del bosco, delle acque e di ogni risorsa naturale, già a partire dal medioevo, il costituirsi di un’economia contadina povera ma capace di alimentare robuste rendite urbane, l’impatto spesso sconvolgente delle grandi opere costruite in funzione dei bisogni cittadini (ferrovie, impianti idrici, autostrade, oleodotti, viadotti elettrici).

La collocazione amministrativa attuale ne fa un lembo estremo del Piemonte ma la sua storia e identità culturale sono da leggere innanzitutto in rapporto a Genova. Un rapporto per altro difficile, conflittuale, tutt’altro che di tranquilla integrazione. Ciò è dipeso innanzitutto dall’assetto politico stabilitosi in età moderna. La struttura dello Stato genovese nei secoli che vedono la nascita in Europa dello Stato moderno, la sua organizzazione territoriale, la scelta di non realizzare una centralizzazione regionale, sono l’espressione della politica di lungo periodo elaborata e realizzata dalla classe dominante. E’ l’oligarchia capitalisticagenovese che decide di mantenere un assetto statale «privatistico», sfruttando in tal senso anche le opportunità offerte dal diritto feudale, specie per ciò che concerne il controllo dei territori dell’Oltregiogo.

Il sistema genovese di controllo del territorio è impostato su una forma di «governo indiretto» e basato su una fitta contrattazione di obblighi e privilegi nei confronti delle comunità locali, le quali, a loro volta, cercano di destreggiarsi tra il rapporto con il governo della Repubblica e i potentati locali, in genere membri dell’aristocrazia genovese.

La strada che non verrà percorsa è quella che in altre situazioni porta allo Stato regionale territoriale. Ciò fa sì che la geografia politica della zona per tutta l’età di ancièn régime sia particolarmente complessa ed attenda ancora uno studio d’insieme. Basti pensare alla vicenda dei «feudi imperiali», tra cui Campo Ligure, che a significare la sua indipendenza dalla Repubblica genovese assunse la denominazione di Campo Freddo (da frei = libero) dando ripetute prove dell’attaccamento al lontano mondo asburgico, anche se feudatari sono ininterrottamente dalla fine del XIII sec. gli Spinola di San Luca. Ancora nel 1814 il feudatario e gli abitanti speravano di rimanere sotto l’Austria, come il Lombardo-Veneto, invece che entrare a far parte del Regno di Sardegna. In breve possiamo dire che c’è una forte frammentazione politica, utilizzata anche come risorsa da parte della classe dominante, sullo sfondo di una sostanziale omogeneità sociale, economica ed ambientale del territorio. Dopo l’unificazione nazionale la divisione amministrativa verrà utilizzata per una strategia del «divide et impera» che gioca sulla contrapposizione tra ligurie piemontesi come nel caso divenuto famoso e tuttora aperto dell’Acna in Valle Bormida, ma già collaudata allorché si presentò il problema dell’uso industriale e potabile delle acque dell’Appennino. Si tratta di conflitti dolorosi ma prevalentemente simbolici. Ben diversamente andavano le cose nei secoli precedenti quando la violenza «faccia a faccia» era molto alta e leguerre, sia pure di bassa intensità, erano continuamente all’ordine del giorno.

L’incidenza degli eventi bellici, vale a dire la forma concreta con cui la «storia» faceva la sua comparsa nelle valli e montagne dell’Appennino, fu certamente grande e paragonabile solo alle carestie dovute all’andamento climatico o alle epidemie succedutesi sino agli inizi di questo secolo. E non vi è dubbio che l’intreccio tra questi fattori modellò l’andamento demografico, almeno nelle sue grandi linee. Non dobbiamo però pensare chesu questo sfondo, su uno scenario deciso da potenze lontane e inaccessibili, la vita delle popolazioni scorresse sempre identica sotto il peso di un destino accettato fatalisticamente. Ciò che ci restituisce la ricerca, che si ingegna a trovare sempre nuove fonti per ristabilire un legame con quel «mondo che abbiamo perduto», è molto più vario, vivo e interessante di quanto non siamo indotti a pensare sulla base di rappresentazioni povere e stereotipate, che opprimono i cervelli per effetto di una acculturazione superficiale che ha il suo corrispettivo nella perdita di ogni capacità di controllo (e di conoscenza) delle risorse locali.

Nel nostro caso è necessario, prima di tutto, ridare alla montagna e alle sue genti un ruolo attivo.E’ stato il grande storico Fernand Braudel a sottolineare con forza il rapporto della montagna con il mare e la riviera; opposizione, conflitto di due mondi che vivono su tempi storici diversi e però anche legame inestricabile: per capire Genova e la Liguria non si può oscurare lo «spessore della montagna».

In termini geografici «l’intera regione si può ben rappresentare come una grande catena montuosa che si eleva fra due pianure: una pianura liquida (il mare) e la Pianura Padana» (M. Quaini).

E’ solo in tempi storicamente recenti che si impone l’esclusione della montagna, e questo avviene quando vengono meno i legami funzionali di età preindustriale tra la città e il territorio. Essi «si sono ormai perduti nella memoria e nella coscienza territoriale e ne rimangono solo parziali e mute tracce materiali» (Ibid.).

Sullo sfondo di un’antica economia silvo-pastorale si innescano i processi posti in atto dallo sviluppo della città di Genova. Sia pure con modalità peculiari essa riesce ad imporre la sua egemonia politica e a garantirsi così le vie di traffico verticali verso la Padania; contemporaneamente, per esigenze strategiche, blocca lo sviluppo della viabilità allo stadio delle mulattiere. La politica commerciale e militare genovese può essere esemplificata dal forte di Gavi che sbarra la Valle del Lemme e funziona per secoli da antemurale a protezione dell’Oltregiogo e della «metropoli».

Non meno importante è l’inserimento, a partire dal XIII sec., di una produzione paleo-industriale, facente perno sullo sfruttamento delle risorse locali (legno, acqua e manodopera), su un paesaggio solo marginalmente modificato dalla spinta propulsiva dissodatrice dei monaci benedettini e cistercensi. Una seconda fase colonizzatrice, decisiva per l’organizzazione del territorio, è quella che si sviluppa dal basso in risposta alla spinta demografica cinquecentesca.

E’ questa fase che fa sì «che il paesaggio agrario (sia) dominato dall’insediamento sparso (…) e costituito in prevalenza dalle cosiddette ‘cassine’, case sparse legate nella prima fase a una economia silvo-pastorale e successivamente anche all’espansione del seminativo. Nate come piccole proprietà, nel corso del Settecento e Ottocento vengono spesso accorpate in grandi proprietà e condotte in affitto o mezzadria» (M. Quaini, D. Moreno). Questa descrizione fotografa la situazione di gran parte del territorio, ma richiede anche una più stratificata decifrazione. Infatti «è difficile oggi ricuperare le tracce del paesaggio agrario feudale. La cesura storica della prima metà del sec. XIX ha prodotto effetti profondi su una struttura agraria che sino alla fine del sec. XVIII non coltiva il mais e accoglie la patata solo dopo il primo quarto dell’Ottocento» (Ibid.).

La violenza dei processi di trasformazione indotti dall’esterno è stata così efficace da cancellare intere epoche storiche, ambienti di vita, piccoli e grandi ecosistemi (ancora in età moderna era presente in modo massiccio la foresta primordiale!). Una ricostruzione, che qui possiamo solo abbozzare ed evocare, richiede un lavoro minuzioso e la valorizzazione di tracce e documenti i quali parlano solo più allo specialista.

In definitiva non dobbiamo lasciarciingannare dall’apparenza: questo territorio ora ci sembra appartato, marginale e quasi fuori dalla storia, ma questo è l’esito di un processo non una realtà originaria.

Anche se a grandi linee, vorremmo dare un’idea della intensità dei processi storici sviluppatisi in un ambiente che ora ci appare privo di una vita propria. Questa dimensione non può essere trascurata, essa infatti costituisce il retroterra del presente, non è sprofondata nel nulla ma è ancora operativa; se non si impara a riconoscerla si perdono occasioni preziose e si compiono scelte errate. Lo spopolamento degli ultimi decenni ha innescato un processo di rinaturalizzazione, esso però si dispiega in un ambiente che è stato costruito storicamente, quindi da un lato si ha la destrutturazione delle opere costruite attraverso secoli di laboriosità (case, boschi, suoli, fasce terrazzate, percorsi per gli uomini e le acque), dall’altro incursioni e appropriazioni di rapina che travolgono storia e cultura, ambiente e natura.

Questo lembo di Piemonte genovese può costituire un laboratorio per ricostruire un’ampia fase della nostra storia, che cronologicamente sta appena dietro di noi ma di cui sappiamo molto poco per la violenta accelerazionedeterminatasi nell’ultimo secolo. L’Oltregiogo ha visto il primo affermarsi, il fiorire e il tramonto di una economia del legno, facente perno sulla gestione delle risorse forestali: è questo il retroterra più significativo dal punto di vista ambientale e culturale.

Vi sono testimonianze di insediamenti preistorici e poi di età romana, con esercizio di agricolturae pastorizia, ma è plausibile sostenere che l’Oltregiogo, era in gran parte occupato dalla foresta primitiva quando nei secoli XII e XIII si ebbe una prima fase consistente di disboscamento e colonizzazione con l’impianto altresì di boschicoltivati (castagneto). La seconda fase è quella della colonizzazione cinquecentesca e seicentesca. In questi secoli si sviluppa un uso «industriale» del bosco che durerà fino all’Ottocento. E’ unfenomeno di grande interesse che solo di recente ha attirato l’attenzione degli studiosi. Alla base c’è ancora uno sfruttamento equilibrato anche se intenso di risorse ambientali rinnovabili. Gli ultimi due secoli sono invece caratterizzati da un consumo distruttivo, indifferente alla ricostituzione degli equilibri ecologici.

La terra di «Ombrosa» di cui narra Calvino ne «Il barone rampante» è nel Ponente ligure ma la vicenda è la stessa: «S’è cominciato quando vennero i francesi a tagliar boschi come se fossero prati che si falciano tutti gli anni e poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pareva una cosa della guerra, di Napoleone, di quei tempi: invece non si smise più».

La localizzazione delle industrie moderne sulla fascia costiera e l’urbanizzazione selvaggia di tutto il territorio affacciantesi sul mare hanno determinato uno squilibrio disastroso tra la riviera e la montagna. La Liguria di oggi costituisce un esempio clamoroso dei fallimenti della modernizzazione.Il Piemonte genovese, al di là dei confini amministrativi, incapace di realizzare uno sviluppo autocentrato, è da tempo entrato nella stessa spirale.

Capitolo II – Un territorio senza stato

L’economia dei primi abitanti di questi territori, su cui si hanno notizie documentate, è di tipo silvo-pastorale, con tradizioni di allevamento transumante lungo percorsi preistorici, conoscenza di forme arcaiche di metallurgia e pratica di un’agricoltura molto primitiva.

I ritrovamenti del neolitico sul versante sud del Tobbio e a Capanne di Marcarolo, oltre che agli sbocchi delle vallate appenniniche, confermano l’ipotesi di percorsi preistorici che saranno ripristinati dopo la parentesi romana e il venir meno della grande viabilità che aveva i suoi assi portanti nella via Postumia e nella Aemilla Scauri. Ai tempi della costruzione della Via Postumia risalirebbe la «formazione di un castellare sul crinale del Monte Poggio che corrisponde ad Alianus e di fortificazioni in corrispondenza dei resti rintracciabili del Castello di Fraconalto» (C. Fera et al.). Ed è ai piedi del Monte Tobbio che si svolge la grande battaglia nella quale i romani guidati dal console Q. Minucio sconfiggono i liguri. La presenza romana si mantiene sui margini dell’area che ci interessa; notevole importanza strategica aveva però la citata Via Postumia antica, che toccava l’alta Val Lemme, sull’asse Voltaggio-Fraconalto. Realizzata nel 148 a. C. essa andava da Genova a Piacenza passando per Libarna e Derthona (Tortona).

Le altre principali direttrici, sempre tracciate a preminenti fini militari, evitano l’orografia tormentata dell’Oltregiogo. Possiamo collocare in questo ambiente le popolazioni dei monti liguridi cui ci narra il geografo greco Strabone. Egli dice che si nutrivano di carni delle greggi, di latte e conoscevano una bevanda ricavata dall’orzo, dalle loro foreste ottenevano alberi di grosso fusto di qualità non inferiore al cedro, utilizzati per la costruzione delle navi. Portavano al porto di Genova legname, cavalli e muli, pelli, miele e ambra (proveniente via terra dall’Europa del Nord) in cambio ricevevano olio d’oliva e vino, migliore del loro che era aspro e resinoso. Una presenza romana molto più incisiva potrebbe essersi determinata in occasione dello sfruttamento delle sabbie aurifere degli affluenti di destra dell’Orba. In effetti uno sfruttamento su grande scala delle sabbie del Gorzente e del Piota è stato ipotizzato in riferimento alla presenza di estesi, e altrimenti inspiegabili, accumuli di grossi ciottoli allineati lungo le rive del Gorzente a monte di Casaleggio Boiro. In tal caso, considerato il necessario utilizzo di grandi quantità di mano d’opera, si potrebbe risalire all’epoca romana, con un aggancio alla mitica città di Rondinaria e all’effettiva esistenza di insediamenti romani alla confluenza del Piota nell’Orba (zona di Silvano d’Orba).

Di origine romana è un documento di straordinaria importanza che concerne proprio le popolazioni liguri delle nostre valli e montagne. Secondo G.D. Serra «il centro di Silvano deve il nome ai Silvani, antiche guardie forestali che custodivano la Fraschevera, regione boschiva che deriva il nome dalla vocefrascaria che designava le silvae minores, cioè le parti della primitiva Silva d’Orba degradata dall’uomo».

La Tavola di Bronzo della Polcevera fu trovata ad Isosecco da un contadino nel 1506 e venne studiata, tra gli altri, da Mommsen. Contiene una sentenza emessa nel 117 a.C. dai fratelli Minucii su designazione del Senato di Roma, per dirimere una controversia tra le tribù locali. Essa ci fornisce informazioni di fondamentale importanza sugli abitanti dei due versanti dell’Appennino. Roma deve intervenire per sanare un conflitto tra i Viturii (alta Valle Lemme), i Langanenses (alta Val Polcevera) e i Genuati. Sullo sfondo le altre tribù: i Dectunini (alta Valle Scrivia), i Cavaturini (Gavi), gli Odiati (valle Albedosa) e i Mentovini, abitanti della zona di Mercurolio. E’ quest’ultimo un luogo strategico dal punto di vista dei commerci, siamo a Capanne di Marcarolo dove convergono le mulattiere adibite soprattutto al commercio del sale, partendo a raggiera dalla Val Polcevera fino a Voltri. Dalla Tavola risulta con chiarezza che presso gli antichi Liguri la regola era la proprietà comune della terra, per altro già al momento della sentenza erano in atto processi di privatizzazione, così oltre al pascolo comune, ogni tribù aveva creato delle zone da cui le altre erano escluse (verranno chiamate poi «bandite»). Il tentativo della sentenza è di fissare le cose così come sono, bloccando ulteriori privatizzazioni. In effetti le comunaglie arriveranno sino a noi, specie nelle aree più appartate. In specifico nella Tavola della Polcevera il territorio era diviso in «ager privatus», «pubblicus», e «compascuus».

La struttura delle comunità menzionate richiama quella primitiva dei Liguri, basata sul «conciliabulum» ossia una federazione di «pagi» gravitanti attorno ad un luogo di culto e ad un pascolo comune. Ma sull’arcaismo si inserisce l’intervento disciplinatore e razionalizzatore romano.

Dopo la dissoluzione dell’Impero il quadro ambientale del territorio più attendibile è quello che ci fornisce Paolo Diacono, il quale, scrivendo nell’Ottavo secolo, ripetutamente fa cenno alla grandissima Selva dell’Orba indicandola come luogo di caccia preferito dai re longobardi.

L’assoluta predominanza dell’elemento bosco si può dedurre anche dall’etimologia del centro principale del territorio; a parte la più nota derivazione da vadum = guado, il nome di Ovada è stato fatto risalire a «oga» o «agoga» con il significato di «via incanalata naturale e artificiale per cui si fa scivolare la legna dal monte al piano», oppure anche al germanico «wald» = bosco.

Dopo il succedersi delle invasioni di popoli barbari, ultimi i Franchi, un momento di crisi acuta si ha ancora nel Decimo secolo con gli attacchi dei Saraceni; essi lasciarono un’impronta profonda nella mentalità e nella cultura, ed è a quel tempo e a quelle paure che si fanno risalire le torri di avvistamento disposte sulle alture, di valle in valle: a nord di Lerma sopravvivono i ruderi della torre dell’ Albarola, testimonianze ottocentesche ricordano quella in cima al monte Colma, dati certi si hanno su quella del Gazzolo (S. Cristoforo) e del castello di Parodi Ligure.

Quando l’imperatore Ottone I, cessate le incursioni saracene e ungheresi, riorganizza le tre marche dell’Italia nord-occidentale, il territorio compreso tra la riviera e il Po «è un’area di deserta loca, di luoghi desertici, coperti di selve, di acquitrini e paludi, di spazi brulli. Il grande ‘nemus’ di Savona che si estende a cavallo dell’Appennino, si salda qui con la selva d’Orba e con la Frascheta che dalla zona dell’attuale Alessandria si estende verso Tortona» (G.Pistarino).

In un’ambiente in cui le presenze umane sono rarefatte, l’unica forza organizzatrice dotata di strutture capillari è la Chiesa, che da poco ha concluso l’opera di evangelizzazione delle campagne edè la pieve che prende il posto dei ‘pagi’ e ‘vici’ del periodo romano. Tra le alture appenniniche e le colline del Monferrato le due pievi più importanti sono quelle di S.Maria di Prelo a cui fanno capo i centri di Silvano, Casaleggio, Lerma, Tagliolo, Belforte, Rossiglione, e quella di S. Maria di Lemore con Gavi, Monterotondo, Lungarolo, Parodi, Bosio, Tramontana, Castelletto, Campolungo, Fiaccone, Ronco.

Molto interessante è l’organizzazione delle pievi poste sul versante ligure e che hanno dipendenze al di là dello spartiacque, come la pieve di Santo Stefano di Langasco o quella di Ceranesi (val Polcevera) che lungo l’itinerario Praglia – Marcarolo ha competenza sulle chiese di San Bartolomeo di Livellato, San Lorenzo di Torbi, San Martino di Paravanico, Santa Croce diMarcarolo. Se ne deduce che: «le circoscrizioni religiose sono (…) organizzate su stretti corridoi di terra che attraversano le dorsali ripide dei monti raggiungendo i primi centri della pianura. Esse non rispondono (…) ad una logica di sfruttamento rurale del territorio, ma vanno interpretati come veri e propri distretti stradali, disposti lungo i valichi e incaricati di provvedere alla manutenzione di strade e ponti oltre il normale svolgimento delle funzioni ecclesiastiche». (A. Cagnana).

Accanto alle pievi debbono essere considerati i monasteri, in certi casi risalenti all’epoca carolingia, e che furono spesso distrutti nei disordini successivi, come quello di Giusvalla (Savona), o di S.Pietro di Vendersi in alta Val Borbera.

La prima fase è incentrata sull’attività dei benedettini (sec. X e XII), poi l’Oltregiogo è direttamente interessato dal ciclo cistercense, innanzitutto per l’insediamento e l’attività di S.Maria e S.Croce di Tiglieto. Con la costituzione (nel 952) delle tre grandi Marche, arduinica, aleramica e obertenga, il nostro territorio viene a trovarsi nell’area di confine tra queste ultime due. Assumendo come riferimento il bacino dell’Orba abbiamo da un lato il grande bosco di Ovada, gravitante sul corso d’acqua maggiore, che rientra nei domini aleramici, dall’altro il bosco di Sommaripa, che copre i bacini del Lemme, del Gorzente e del Piota, arrivando fino alla zona di Marcarolo nell’ambito della Marca obertenga. Se i confini sono tracciati dai feudatari laici, l’opera di lenta trasformazione del territorio fa capo a strutture ecclesiastiche.

Agli inizi dell’ XI secolo l’abbazia di S.Siro di Genova ottiene terre e diritti a Marcarolo, Voltaggio, Carrosio, Gavi.

Nello stesso periodo i benedettini di S.Maria di Castiglione (Parma) sono beneficiati dagli Obertenghi e danno vita ai monasteri di S.Eusebio di Gavi, S.Giacomo di Tassarolo, S.Remigio di Parodi.

La presenza di un monastero così lontano come quello di S.Maria di Castiglione, uno dei più potenti centri benedettini del secolo XI, è da collocare in una strategia di ampio respiro: «ci si rende conto, in quei centri sensibilissimi alle esigenze anche della vita terrena che sono i chiostri benedettini, che nell’area di confluenza tra la Bormida e l’Orba, il Tanaro, la Scrivia, il Po passano i percorsi destinati ad assumere importanza crescente come si intensificano i contatti tra l’interno e il mare, e la vita agraria e commerciale si ridesta nella valle Padana, e le navi da Genova riprendono il largo spingendosi sempre più a sud nel Mediterraneo occidentale, poi nel Mediterraneo orientale». (G.Pistarino): E’ la stessa strategia che ispira l’azione dei monasteri cittadini genovesi e che spiega la presenza nell’ovadese, nel secolo XIII, della Sacra di S. Michele della Val di Susa: si tratta di controllare e di ricavare sinergie, comeoggi si direbbe, dagli snodi e dagli itinerari del commercio lungo le vie che dal mare vanno Oltralpe e viceversa.

Una svolta è segnata dall’azione dei cistercensi: a Tiglieto, nell’alta Valle dell’Orba, viene fondata la loro prima abbazia italiana (1120). In conseguenza del grande impegno che essi profondono nella trasformazione dell’ambiente, sia attraverso il lavoro agricolo che contribuendo ampiamente allo sviluppo della tecnologia paleoindustriale, la loro azione è caratterizzata da una maggiore capillarità locale, da un più stabile radicamento nel territorio, reso possibile anche da più ampi margini di sicurezza. Dopo la fase romana quella cistercense rappresenta un secondo momento di attacco alle consuetudini comunitarie, in nome di una gestione maggiormente produttiva dell’agricoltura e della trasformazione della natura in genere. La Badia di Tiglieto è all’origine della fondazione del monastero femminile di Santa Maria di Banno nel bosco che si stende lungo le pendici del Monte Colma. E dal monastero di Banno dipende la costruzione di Santa Maria della Rocchetta, tutt’ora affacciantesi sul corso del Piota.

E’ possibile che ad epoche ancora anteriori faccia riferimento il toponimo Eremiti ai piedi del Tobbio: con il suo profilo inconfondibile si eleva oggi al centro del Parco di Capanne, allora nel «mezzo al grande bosco di Sommaripa».

Anche la fondazione del monastero di Santa Maria di Banno è da rapportarsi all’esistenza di un’antica via marenca (per il mare) che passava sulla costiera dove i cistercensi di Tiglieto decisero di far sorgere il monastero femminile di cui è sicura l’esistenza almeno dal 1203.

Nel corso del Duecento risulta in possesso di terre a Tagliolo e a Lerma (castagneti) e titolare di diritti sul bosco di Sommaripa.

Nel 1288 prende in locazione con un canone in denaro, i possedimenti di Santa Maria di Rivalta Scrivia nella zona della Bruversa (vale a dire della Benedicta). Nel secolo successivo è alleato con gli uomini di Rossiglione contro le pretese dei Polceveraschi sul bosco di Capanne di Marcarolo, una vertenza che si prolunga ancora in pieno quattrocento, con l’intervento dei Signori di Milano (Visconti e Sforza) che stanno premendo su questi territori, nel loro tentativo egemonico che coinvolge la stessa Genova.

Però dopo la metà del XV secolo le monache abbandonano Banno e si traferiscono a Sezzadio. La proprietà è venduta alle famiglie dell’oligarchia genovese e in breve lasso di tempo passa ai Doria, ai Centurione, agli Adorno, e infine agli Spinola di Lerma; a conferma del loro radicamento in queste terre. Resoconti del Settecento e Ottocento ci informano dei resti di un grande acquedotto che conduceva l’acqua dal Tobbio al mulino del monastero. Ancora oggi sul tessuto murario delle cascine dei dintorni sono visibili elementi lapidei provenienti dai ruderi del monastero.

Ad un altro ordine monastico apparteneva la chiesa di Santa Maria di Vesulla presso Masone, di cui si ha notizia nei secoli XII e XIII: sono i mortariensi che si occupavano soprattutto di proteggere i pellegrini, anche con l’uso delle armi. La loro presenza conferma che il nostro territorio è attraversato dai percorsi alquanto insicuri che vanno dalla Lombardia al mare. Per la stessa zona si è insistito ultimamente sulla presenza dei templari.

Verso il fine del XII secolo si fa molto incisiva l’azione dei monaci cistercensi dell’abbazia di Rivalta Scrivia; nel 1188 ottengono di poter ricavare legname da costruzione dal bosco di Sommaripa, nonché lo «jus boscandi, pascendi, et adaquandi». Ne11195 il marchese Guglielmo di Parodi dona al monastero l’intera «alpe di Palodio»; sono i territori che dal Gorzente vanno fino in cima all’alpe di Marcarolo, in cambio l’abate dovrà edificare una grangia e una chiesa. Nel 1206 risulta già edificata la grangia di Bruversa o Riversa (da rovere) che prenderà poi il nome di Benedicta. Faceva capo all’abbazia di Rivalta anche il monastero del Porale fondato nel 1208, titolare a sua volta di beni situati a Lerma, Casaleggio e nel bosco di Sommaripa. La vita della Benedicta risulta subito difficile, essa subisce continui attacchi e spogliazioni sia da parte dei Polceveraschi che degli abitanti della Val Lemme. I monaci per ricevere protezioni si rivolgono al Comune di Genova, poi, nel 1279, danno in affitto la proprietà ad Oberto Spinola capitano del popolo e signore di Casaleggio.

Dai documenti dell’epoca risulta che il grande bosco di Sommaripa copriva in pratica tutto il bacino del Piota e del Gorzente, su di esso gli uomini della comunità di Parodi avevano diritto di far legna e pascolare senza pagare alcun tributo -ricordiamo che storicamente Bosio, altro toponimo di derivazione arborea, era unito a Parodi, così come alcuni piccoli nuclei demici dei dintorni-. I contrasti di confine, soprattutto per il controllo della risorsa bosco, non interessavano solo le varie comunità di Oltregiogo; assieme ai potentati feudali ed ecclesiastici, anche i Polceveraschi si spinsero ripetutamente oltre lo spartiacque. Essi tentarono di penetrare nel bosco sia con acquisti che con metodi meno pacifici. La loro presenza ancora nel ‘500 è segnalata all’altezza delle cascine Nebbie e Ferriere, a monte dell’attuale lago della Lavagnina.

Dobbiamo abituarci a tener conto che i tempi di queste vicende, così strettamente intrecciati all’uso delle risorse ambientali, non sono quelli della «storia generale» o della cronologia appresa nelle scuole.

Così ancora agli inizi di questo secolo viene segnalato un conflitto tra i Polceveraschi e gli abitanti dell’alta Val Lemme: «agitasi antica una lite fra il comune di Mignanego, in val di Polcevera, e quello di Fiaccone, posto nell’altro versante, fra il Lemme e lo Scrivia, pretendendo i polceveraschi di portare il loro confine al di là del giogo, dove hanno esercitato il legnatico e il pascolo; sostenendo invece quei di Fiaccone, che il confine fra l’antica Plebs de Ceta e la Plebs Mignanici era, come deve essere tuttora, la linea naturale del displuvio» (G. Carretto). Come resistere alla tentazione di collegare tale disputa a quella affrontata nella Tavola della Polcevera di duemila anni prima?

Con la ripresa generale dei commerci del secolo XII, l’azione di colonizzazioone dei monaci si intreccia con il problema del controllo delle vie di traffico, che hanno ancora in Marcarolo il loro snodo principale. I monaci di S.Giustina di Sezzadio, quelli genovesi di S.Fruttuoso di Capodimonte e di S.Siro, i cistercensi di Tiglieto sono artefici di una lenta trasformazione del territorio, di un primo addomesticamento della natura selvaggia; la loro azione, la localizzazione dei loro insediamenti vanno lette in funzione del controllo del sistema viario, con il delinearsi della politica genovese nei confronti dell’Oltreglogo, volta non tanto ad una espansione territoriale quanto a garantire la libertà di traffico.

In presenza dell’intensificarsi dei commerci Genova è interessata a garantirsi nei confronti dei signori feudali, detentori del potere militare a livello locale, sia la sicurezza che la libertà di movimento. E’ in quest’ottica che già nel corso del XII secolo il Comune agisce verso i marchesi di Gavi e Parodi per mantenere sgombri e senza pedaggi gli itinerari della Val Lemme. L’evento che inaugura la strategia della Repubblica verso l’Oltregiogo è così descritto negli Annali del Caffaro: « I genovesi con un grosso esercito di cavalieri e di fanti valicarono i Giovi, preser combattendo Flacone, Chiappino, Montesco e Pietra Becaria; comprarono per 400 lire da Alberto marchese di Gavi il castel di Voltaggio con il suo reddito. E fu ne 1121». La politica genovese di penetrazione oltre Appennino si sviluppa lungo le direttrici della Valle Scrivia, Val Lemme, Valle Stura,e Val d’Orba. I Marchesi del Bosco, discendenti degli Aleramici e degli Obertenghi, sono costretti a ripiegare e a cedere il controllo del territorio, attraverso donazioni successive, infeudamenti e così via; il confronto e lo scontro si sposta poi in direzione del Comune di Alessandria, alla cui nascita, per altro, la stessa città ligure aveva dato un non trascurabile contributo. La posta in palio è il controllo dei collegamenti con la Lombardia ma anche Asti e i mercati francesi, anzi proprio la strada che per la Valle Stura e Ovada si dirigeva su Asti è, all’epoca, la più importante per il commercio internazionale tra l’Italia e la Francia.

Per battere la concorrenza di Alessandria, i governanti genovesi fanno ricorso più al denaro che alle armi, il loro obiettivo è «di giungere in queste valli alla proprietà diretta, alla diretta giurisdizione, attraverso acquisti effettuati con regolari contratti di compravendita» (G.Pistarino). Così nel 1277, nel 1289, nel 1293 i del Bosco e i Malaspina cedono al Comune genovese i loro possessi in Valle Stura e in Val d’Orba, tra i quali un posto particolare è occupato dal grande bosco di Ovada estendentesi sino al giogo di Voltri e il cui limite orientale è indicato «usque Mercurolium et usque ad confines nemorum de Summariva». Ne consegue che tra le due grandi foreste non vi era in pratica soluzione di continuità.

Sia dal punto di vista ambientale che da quello economico questi due grandi boschi rappresentano la maggiore realtà del territorio, tutta la storia successiva, almeno fino al secolo scorso, ruota attorno ad essi.

Per capirne l’importanza dobbiamo tralasciare di immaginare il bosco in modo mitologico, come uno spazio naturale, al di fuori della storia.

Pur mancando ancora una storia complessiva dei boschi dell’Oltregiogo condotta con metodi scientifici, possiamo compiere alcuni primi approcci alla conoscenza di un protagonista del passato che a nostro avviso dovrebbe tornare ad essere uno dei fulcri attorno a cui organizzare la vita di tutto il territorio.

Tenendo conto che l’attenzione degli estensori delle descrizioni duecentesche si concentrava sulle specie arboree di preminente interesse economico, si può sostenere che il bosco, al momento del dispiegarsi della ripresa economica medioevale, risulta suddiviso nelle «tre fasce boschive del castagno, del rovere e del faggio (castagnola, bruversa, faiga)» (E.Podestà). Il che è confermato dai numerosi riscontri toponomastici che a tutt’oggi è possibile effettuare.

Nella stessa epoca, che vede un primo sfruttamento «industriale» del bosco, Genova completa il suo controllo politico dell’Oltregiogo e sembra prossima la costituzione di un vero e proprio Stato territoriale, ma non sarà così. In ogni caso nel 1278, la città ligure, grazie alla mediazione del marchese di Monferrato, stipula con Alessandria un accordo che vogliamo richiamare perché delinea una razionalizzazione delle direttrici di traffico, che solo molto tempo dopo verrà compiutamente realizzata, tagliando fuori Marcarolo e le sue antiche mulattiere che scendevano verso la pianura attraversando tutta l’area dell’attuale Parco. L’accordo prevedeva che le due direttrici verso la Lombardia avrebbero dovuto convergere su Alessandria, provenendo l’una dalla Val Polcevera e poi la Val Lemme e Capriata, l’altra da Voltri verso Masone, la Val Stura e Ovada.

Rispetto alla situazione descritta da Paolo Diacono, possiamo constatare l’avanzamento dell’agricoltura e dei disboscamenti nella fascia collinare come indica chiaramente il toponimo Tagliolo.

Possediamo inoltre indicazioni precise, anche se indirette, sull’intenso disboscamento attuato a partire dal XII secolo. Il Comune di Genova dagli anni ’70 del ‘200 insiste con forza sulla protezione del bosco di Ovada, in quanto bene demaniale destinato ad alimentare l’industria cantieristica. D’altra parte negli atti di compravendita del notaio Giacomo di Santa Savina, operante ad Ovada dal 1283 al 1289, uno solo si riferisce ad un bosco mentre molti riguardano terreni coltivati, a conferma che la fascia collinare ha ormai subito un ampio processo di messa a coltura. Infine negli Statuti ovadesi del 1327 si moltiplicano i divieti di disboscare, di aprire radure, di tagliare legna nei boschi altrui o del Comune, per non dire nelle bandite o nei castagneti.

È chiaro che il bosco viene considerato una risorsa essenziale per la comunità, soggetta però a numerosi e pericolosi attacchi (ivi compresi gli incendi, di cui sono sospettati in primo luogo i pastori).

In mancanza di datazioni, più precise, si può far risalire alla svolta dell’XI secolo la moltiplicazione dei piccoli centri demici, specie nella fascia compresa tra Ovada e Silvano, da un lato, Gavi e Voltaggio dall’altro; l’aumento demografico, correlato ad un insieme di altri fattori, spiegherebbe questo primo ciclo di colonizzazione, almeno alle quote più basse, sia con l’introduzione di vigneti e seminativi che con l’impianto di castagneti da frutto.

Ci sembra possibile sostenere che la caratteristica degli insediamenti è data dai piccoli raggruppamenti di case, d’impianto ligure preromano; un riscontro si può avere per Mornese e Parodi e le loro frazioni, come anche per le Capanne di Marcarolo ma in questo caso si tratterebbe di una eccezione legata alle vie di traffico. Sino a prova contraria l’insediamento a quote più alte, nel territorio dell’attuale Parco, è caratterizzato dalle case sparse e risale al 1500-1600.

La prevalenza di alcuni nuclei abitati su altri è da rapportare al fenomeno dell’incastellamento per iniziativa dei feudatari, ovvero alla realizzazione di ripari fortificati (come il ricetto di Lerma).

Un caso a sé è costituito dal castello di Casaleggio Boiro, risalente in parte al 900 e per il rimanente al 1100. In età medioevale è dimora preferita deimarchesi del Monferrato, successivamente fu degli Spinola, dei Fieschi, dei Ristori e infine dei Guiglia. Si erge in posizione isolata, a nido d’aquila, su una delle strade per Capanne di Marcarolo.

Come abbiamo accennato, il Comune di Genova non ebbe l’obiettivo di costituirsi una base territoriale unitaria in direzione della Liguria interna e l’Oltregiogo.

La strategia di penetrazione, che nella prima fase ha in posizione preminente i monasteri cittadini, si pone come finalità il controllo delle vie di accesso alla città, e ciò sia per motivi economici che militari, ne va dell’esistenza e della sussistenza di Genova. Anche se quella dell’Oltregiogo è la via più rapida e diretta verso la Lombardia, i genovesi sono attenti a mantenersi aperta una seconda direttrice principale, quella che da Chiavari porta a Piacenza, facendo perno sul monastero di Bobbio.

Esiste poi un terzo fronte, il più importante di tutti, che qui non possiamo prendere in considerazione, quello del mare. Non dobbiamo però mai dimenticarlo perché senza di esso non possiamo spiegare nulla delle vicende politiche, economiche e sociali del nostro territorio. Lo stesso sfruttamento della principale risorsa locale, il bosco, dipende strettamente dalla proiezione marittima di Genova, sia per l’impiego del legno nella costruzione del naviglio che per la dipendenza della principale attività produttiva, la siderurgia preindustriale, dal minerale proveniente dall’isola d’Elba.

Già la prima fase di espansione Oltregiogo risalente agli anni 1130-1150, si delinea come l’acquisizione di punti strategici piuttosto che di un territorio. Viene innescato un meccanismo che si manterrà nei secoli: non è lo Stato masono singoli individui, famiglie e gruppi di famiglie che si creano i loro domini, ne fanno una base di potere da spendere nella lotta cittadina, un baluardo in cui ritirarsi in caso di sconfitta o di necessità, un retroterra sia politico che economico.

Ciò fa sì che i confini siano mobili, molteplici, inafferrabili. Se usiamo il concetto di limite, che individua e separa, non riusciamo a cogliere l’essenziale di questa vicenda che accomuna le popolazioni e il loro ambiente di vita. Qui lo Stato non ha segnato con la sua forza culturale e materiale una frontiera ben precisa, queste popolazioni si sono costruite un’identità transfrontaliera, vivendo in un territorio unificato dai modi di riproduzione della vita sociale e spezzettato da labili confini politici.

Qui la grande dorsale continentale alpina si incastra, nel ricordo di remoti cataclismi geologici, con gli Appennini tutti proiettati sul mare. Anche per la storia degli uomini, questa sembra essere la miglior chiave di lettura: nell’Oltregiogo si passa dal Mediterraneo al continente, ed è un passaggio né dolce né tranquillo. Per molti secoli, tolta la parentesi romana,le sole vie sicure che mettono in comunicazione il mare con la terra sono le mulattiere che corrono sui crinali; Capanne diMarcarolo è un crocevia di questi percorsi, qui avviene lo scambio tra i prodotti liguri e quelli lombardi e monferrini. La vocazione principale è al movimento, il legame con la terra e l’individualismo proprietario si affermano molto tardi.

Nel corso del XIV secolo il territorio dell’Oltregiogo è fortemente conteso a Genova da due potenti casate nobiliari: gli Spinola e i Doria, i primi controllano la Val Scrivia, i secondi hanno le loro roccaforti a Sassello, Molare, Tagliolo, Lerma, Mornese. Si affacciano poi i Visconti di Milano con le loro mire espansionistiche verso il mare. Si succedono gli scontri e i passaggi di truppe; sono le popolazioni locali e i loro beni a pagarne le spese. Tra i tanti episodi si può citare il passaggio dei soldati di Facino Cane (soprannominati «le belve») che nel 1409 si dirigono su Genova, d’accordo con un marchese di Monferrato, seguendo le vie di Capanne di Marcarolo. Il XV secolo è caratterizzato dalla presenza preminente di Milano, specie attraversol’azione di Francesco Sforza e delle famiglie nobiliari che gravitano nell’orbita milanese (ci riferiamo in particolare a quella dei Trotti). Senza prendere in considerazione i numerosi potentati minori e i complessi giochi di alleanze e divisioni, si può dire che un nuovo assestamento si avrà nel Cinquecento e sino alla fine della Repubblica; Genova si garantisce alleandosi alla Spagna e rinunciando, come del resto gli altri Stati italiani, all’autonomia politica. L’obiettivo di creare uno Stato moderno, pienamente sovrano sul proprio territorio, mai veramente perseguito dall’oligarchia genovese, diventa semplicemente impossibile.

Capitolo III – Le vie del mare

Ancora oggi i sentieri che salgono lungo le pendici dell’Appennino (Monte Colma, ecc.), ultimamente devastati dagli amanti dei «fuoristrada», vengono indicati dai più anziani come «vie del sale». C’è un fondamento di verità storica in questa terminologia. Il sale, merce di prima necessità, contribuì più di ogni altro prodotto all’apertura delle strade da e per il mare. Il controllo monopolistico del commercio del sale è perseguito tenacemente da Genova; si tratta comunque di un commercio antichissimo che prende slancio con l’espansione dell’emporio ligure. Il sale arrivava a Genova dalla Sardegna, Corsica, Spagna. Le navi che avevano scaricato il sale venivano poi caricate con merci che, in molti casi, erano transitate sui passi appenninici, lungo i percorsi che già conosciamo. Depositi di sale sono stati localizzati nei pressi del Monte Dente (Bric Saliera) sulla direttrice per l’Orba e l’abbazia di Tiglieto, così come nei pressi di Capanne di Marcarolo (cfr. il vecchio toponimo «cascina Salera»).

Le navi genovesi andavano a caricare il sale in Provenza, Spagna e Tunisia. E’ il Banco di S. Giorgio (dal 1450) che controlla questo traffico, inclusa la commercializzazione verso il milanese che è di dimensioni imponenti. Nel 1450 l’Officium Salis stipula un contratto di 23.000 tonnellate con il duca Francesco Sforza, di cui 7700, vale a dire l’equivalente di 55000 carichi a dorso di mulo, da spedire subito; su base annua si può calcolare una media di 150 muli al giorno in transito sui nostri itinerari. Sappiamo anche che il sale per la Lombardia, proprio per volontà dello Sforza, doveva passare per Ovada dove l’appaltatore di varie gabelle e condotte Nicolò De Fornaci, aveva preso in affitto dai fratelli Maineri dei magazzini per depositarvi la merce (con molte probabilità nel rione Voltegna). L’attività di ri-esportazione oltre Appennino costituisce un comparto fondamentale dell’economia genovese, proprio nei secoli in cui Genova è una capitale mondiale della finanza e del commercio. Perno di questa attività sono i muli e le mulattiere; anche quando è una grande potenza economica, Genova evita la costruzione di strade carrozzabili; è una scelta di carattere strategico militare, che va inquadrata nel peculiare modello statale genovese. La gran parte delle merci che arrivavano nella capitale ligure e nei borghi costieri così come quelle che venivano spedite oltre Appennino, per destinazioni che si irradiavano anche al di là delle Alpi, percorrevano gli impervi sentieri e superavano i «giovi» e le «colle» a dorso di mulo. Questo animale che si adatta perfettamente all’ambiente in cui deve operare, soppianta il cavallo e sopporta tutta l’espansione dei traffici della prima età moderna.

Non sappiamo se sia esatta l’etimologia di Mornese da Molonesio, collegato a mulo e mulattiere, in ogni caso rende l’idea dell’importanza di una tale professione per i borghi appenninici del nostro territorio.

Succedeva però abbastanza spesso, soprattutto per i traffici locali dall’Oltregiogo al mare e viceversa, che gli uomini e ancor più le donne fungessero da muli. Le cifre ricavate da uno studio sulla proprietà Raggi sono piuttosto impressionanti: un uomo per portare un carico di 49 Kgdi castagne secche sino alla riviera (25 Km circa) superando lo spartiacque, e tenendo conto del cammino di ritorno, prendeva lametà del salario giornaliero di un bracciante. Se si trattava, caso frequente, di una donna, il carico era dimezzato, ma anche la paga.

Centri come Mornese e Bosio, Lerma e Tagliolo, nonché Montaldeo e Parodi Ligure sono dei tipici borghi rurali di sommità, la cui localizzazione dipende dalla posizione strategica rispetto ai percorsi che si snodavano sulle creste dei rilievi dell’Appennino e del Monferrato. Essi rientrano poi nel vasto e capillare sistema difensivo facente perno sui numerosi castelli che sorgono tra le valli dell’Orba e dello Scrivia, attorno ai quali si sono sviluppati quasi tutti i borghi della zona. Sono in posizione isolata solo il castello di Lercaro presso Ovada e, di maggiore interesse, quello di Casaleggio Boiro, il più antico di tutti sulla strada che scende da Capanne costeggiando l’attuale Lago della Lavagnina.

Anche in questo caso l’obiettivo dei feudatari è di riuscire a controllare i percorsi delle mulattiere per poter imporre pedaggi alle merci; a tal fine, quando potevano, orientavano le strade lungo i loro possedimenti, colpendo con ogni mezzo chi cercava di girare al largo. A titolo esemplificativo riportiamo un episodio, interessante anche perché fornisce dati sul traffico di una delle merci più importanti: il grano. Per moltissimo tempo lo scambio fondamentale fu tra il sale e l’olio provenienti dalla marina con il grano che veniva dall’entroterra monferrino e padano. Nel 1552 uomini di Montaldo e Rossiglione «trasportando da Novi a Pegli 135 mine di frumento, giunti a Montaldeo svicolano sul confine di Lerma per Vallescura, entrano in territorio di Casaleggio e tornano in territorio di Lerma più a sud, sperando di farla franca. Mail castellano di Lerma vigila e riesce a sequestrare una parte dell’eccezionale carico di oltre 130 quintali, nonché 11 asini e un mulo, la retroguardia della lunga carovana». (E. Podestà).

E’ evidente che la tormentata geografia politica del territorio, con le frequenti, interminabili, dispute di confine, favoriva l’attività di tutti coloro che intendevano lucrare sul commercio, che costituiva la principale e più vulnerabile risorsa dell’Oltregiogo.

A metà del XVII sec. è la potente famiglia dei Guasco di Bisio che decide di darsi al brigantaggio in grande stile. Attestate le sue forze lungo i confini della Repubblica, utilizzando i territori del Monferrato e della Spagna (Stato di Milano) come «santuari», mira a taglieggiare sistematicamente il commercio genovese. Il governo risponde organizzando una spedizione militare affidata a soldati corsi affiancati da milizie di Novi, di Gavi e dei paesi della Val Lemme.

In effetti il banditismo in quest’epoca è endemico e strutturale, una statistica che copre gli anni 1660-1710 ci dà per tutta la Repubblica una cifra dl 4847 banditi, di cui 438 nella giurisdizione del Polcevera, 183 in quella di Ovada e 272 in quella di Novi. Le vie di traffico, l’andamento dei confini, l’esistenza di enclaves e la politica delle grandi famiglie genovesi proprietarie di feudi, l’organizzazione amministrativa della Repubblica, le forme di conflitto e di aggregazione nelle comunità locali (faide e parentele), sono tutti fattori che alimentano il banditismo, difficilmente collocabile per quest’epoca nei nostri concetti di devianza e marginalità. Anche se non c’è dubbio che le fonti archivistiche tendono a dargli una visibilità ben maggiore delle attività che non rientrano nella sfera criminale. La struttura attuale delle grandi vie di comunicazione fa sì che il territorio del Parco di Capanne sia raggiungibile solo dopo un viaggio che, anche se fatto in automobile, in base ai nostri criteri di misura del tempo e di confort risulta lungo e disagevole. Il che ne fa una periferia profonda; ma nel passato le cose stavano diversamente: la vicinanza al mare, con lo spartiacque a pochissimi chilometri dalle spiagge, e la posizione favorevole rispetto alla grande pianura padana lo resero per molti secoli un crocevia di traffici minuti, di entità trascurabile con i nostri parametri ma notevole in rapporto alle società ed economie del passato.

E possibile che l’origine e l’affermazione della stessa città di Genova siano da rapportare, più che all’esistenza di un approdo sicuro (non aveva tale caratteristica l’antico porto del Mandraccio) all’ubicazione rispetto alle vie dei traffici, ai passi dell’Appennino (G. Rovereto).

Risale all’età preromana il primo impianto di tracciati viari che privilegiano i percorsi di cresta; le capacità militari ed ingegneristiche dei romani consentono loro di tracciare strade di fondovalle che necessitavano di un’intensa manutenzione: abbiamo già ricordato la via Postumia (che probabilmente aveva anche una variante). Quando la grande viabilità romana viene cancellata dalla crisi del sistema di potere imperiale tornano in auge levie marenghe della preistoria che attraversano l’Oltregiogo con una fitta maglia di sentieri. E’ una scelta obbligata dato che in mancanza di interventi ingegneristici le vie di fondovalle risultavano impraticabili (frane, alluvioni, mancanza di ponti).

Gli itinerari di cresta erano poi consigliabili per motivi di sicurezza, anche se era difficile evitare i taglieggiamenti dei banditi spesso legati ai potentati locali. Sono tuttora identificabili sul terreno alcuni percorsi preferenziali od obbligati ma bisogna tener conto che si trattava in genere solo di direttrici schematiche «in quanto che al tempo dei trasporti someggiati le vie di comunicazione si frammentavano in una molteplicità di itinerari» (M. Quaini). Così nel 1751 il cartografo Matteo Vinzoni censisce, su incarico della Repubblica genovese, più di trenta itinerari che dall’Oltregiogo «calano alle spiagge del mare» tra Cogoleto e Rapallo.

L’itinerario che dalla Polcevera (Campomorone, Langasco, Pietra Lavezzara) sale al Passo della Bocchetta per immettersi nella Val Lemme, risulta oggi di interesse puramente locale; per molti secoli fu invece un tracciato di grande importanza per l’emporio genovese. Già la prima penetrazione di Genova oltre l’Appennino puntò su Fraconalto, spingendosi poi lungo la direttrice Voltaggio-Gavi-Capriata (ultima tappa prima degli itinerari di pianura).

Ricordiamo che solo l’importanza di questo itinerario spiega le imponenti fortificazioni erette sul monte che sovrasta Gavi. Per molti secoli lo sviluppo di questo avamposto genovese fu continuo, in concorrenza con Serravalle, legata a Tortona e Milano.

Solo nel Seicento il suo primato fu scalzato da Novi. Non meno interessante dal punto di vista storico-artistico è Voltaggio: esso «conserva ancora nella struttura storica la maggior parte degli attributi che le vennero dalla peculiare funzione di controllo delle tre importanti vie d’Oltregiogo che qui convergono: le due vie della Bocchetta (di Molini e di Fraconalto) e quella delle Capanne di Marcarolo. <<Un castello, dieci palazzi nobiliari, due conventi, quattro oratori, una chiesa parrocchiale dominata da un’imponente torre campanaria del XII secolo, un ghetto giudaico, due molini, diverse ferriere, resti di mura con un torrione, due ponti medioevali, stanno a testimoniare l’importanza del paese derivante dalle comunicazioni e non certo dalle sempre misere risorse agricole» (C.Fera).

Lungo la strada ed il torrente si sviluppano i centri più importanti e le prime attività manifatturiere; risale al XII secolo la vetreria i cui resti sono stati trovati all’altezza del Monte Leco, di poco posteriori sono le ferriere impiantate tra Molini di Fraconalto e Gavi.

Nel 1583 la Repubblica di Genova intraprende la costruzione di una strada commerciale scegliendo ancora il passo della Bocchetta e la valle del Lemme. L’opzione della Bocchetta rispetto al più facile valico dei Giovi, può essere dipesa dal fatto che nel secondo caso il percorso sarebbe finito nell’area dei feudi imperiali della Valle Scrivia.

Sulla base di un documento della metà del ‘700 è stato ricostruito il fitto reticolo di mulattiere che dall’Oltregiogo si irradiavano in val Polcevera, avendo come asse principale la via della Bocchetta. La descrizione dà conto della dislocazione delle truppe a difesa dei percorsi, e precisamente: 1) in località «Incisa» dove passava la strada che da Campoligure scendeva verso Torbi; 2) alla Madonna dell’Orto sotto Ceranesi, strada che da Campoligure per Livellato scendeva a Campomorone e Pontedecimo; 3) la via chedalla Benedicta passando per San Martino di Paravanico e per Santo Stefano di Lorvego scendeva a Campomorone; 4) la strada che da Voltaggio, per il monte Calcinaro, scendeva a Cravasco e quindi al Verde; 5) il “cammino reale” della Bocchetta…» (G. Casanova).

Oltre ai tradizionali commerci merita di essere segnalata un’attività che sembra svolgersi con particolare intensità lungo questo itinerario, come testimoniano i ritrovamenti di «neviere» nei pressi del passo della Bocchetta: pozzi profondi più di cinque metri in cui veniva accumulata la neve che d’estate con carri a due ruote trainati da 4-5 bestie veniva venduta in Riviera.

Nei punti più alti e ventilati sul versante in ombra dell’Appennino erano scavate le fosse in ripida pendenza, foderate di pietra. Ogni volta che nevicava i boscaioli vi gettavano neve in abbondanza bagnandola poi di notte con acqua ghiacciata. La neviera ricoperta di terra e frasche poteva conservare la neve ghiacciata fino in estate, quando veniva portata a Genova per i banchetti dei ricchi signori genovesi. C’erano due tipi di impianti, anche se poi i destinatari erano sempre gli stessi: le neviere dei castelli (come quello dei Malaspina a Cremolino) per un consumo estivo in loco, e quelle lungo la strada, un po’ in tutto l’entroterra gravitante su Genova, a quote anchepiuttosto basse (ricordiamo ancora in Val Lemme il toponimo «La Nevera» presso Bosio).

Le neviere della Bocchetta sono segnalate in attività ancora agli inizi del Novecento ma ormai il nostro itinerario ha perso tutta la sua importanza. Nel 1823 è stata aperta la strada Regia dei Giovi, a cui seguirà sulla stessa direttrice la prima ferrovia tra Torino e Genova. La seconda principale direttrice per l’Oltregiogo faceva capo a Voltri; dopo avere scavalcato l’Appennino le mulattiere sidirigevano verso Capanne di Marcarolo, luogo tradizionale di incontro e di scambio con i mercanti provenienti dalla Lombardia, ovvero lungo la valle dello Stura e dell’Orba. Nei primi secoli dell’età moderna Voltri fu un importantissimo centro per la produzione di carta di qualità. Le cartiere erano localizzate lungo i corsi d’acqua che scendevano dall’Appennino (Cerusa, Leira, Gorsexio), sfruttando la forza motrice idraulica.

Il grosso della produzione veniva esportato via mare ma una parte prendeva la via dei monti, lungo i sentieri appenninici. Lo stesso valeva per la materia prima costituita dagli stracci (di lino), per cui si parlava di «via della carta» e via «degli stracci». La più importante andava da Voltri a Marcarolo: «partiva dalla spiaggia presso la porta di Santa Limbania, o porta Cerusa, al limite occidentale del borgo, per la Canellona valicava l’Appennino al Giovo di Masone, detto allora ‘I Giovi’ (m 642) e, raggiunto sul torrente Stura il tracciato proveniente dal passo del Veleno, proseguiva, attraverso i Piani di Praglia per le Capanne di Marcarolo (…). Per la strada di Canellona passarono, nei secoli, innumerevoli ‘truppe’, nome che il popolo dava alle teorie di muli appesantiti da duplici fardelli, guidati da due mulattieri, uno in testa e un altro in coda» («La via della carta»).

Un’altra delle strade provenienti da Voltri percorreva la Valle dello Stura, toccando i centri di Masone, Campo, Rossiglione, per arrivare ad Ovada, e proseguire in direzione di Alessandria toccando Rocca Grimalda. Proprio qui esiste ancora, in straordinaria posizione panoramica, la chiesetta di Santa Limbania, protettrice dei mulattieri e cavallari; essa è il corrispettivo dell’analoga chiesetta di Voltri, nel punto di partenza di uno dei numerosi e rischiosi itinerari che scavalcano l’Appennino.

Sempre da Voltri saliva verso il passo del Turchino la strada «del Veleno», percorrendo la Valle del Leira; arrivata a San Pietro di Masone, un ramo si dirigeva verso le Capanne di Marcarolo, l’altro scendeva lungo lo Stura, congiungendosi con la via della Canellona. Solo nel 1872 viene aperta la carrozzabile del Turchino; venti anni dopo la ferrovia Genova-Ovada-Acqui.

Ha così termine la plurisecolare politica genovese che, per motivi di sicurezza, affidava alle mulattiere il collegamento con l’entroterra, la pianura e oltre. Da uno scritto anonimo dell’epoca si può leggere: «aperta la nuova via, la strada dei Giovi (cosiddetta della Canellona n.d.r.) non vide più salire e scendere da Masone a Voltri e da Voltri a Masone le povere donne coi fasci di ferro e legna, e coi sacchi di carbone e chiodi, compassionevole spettacolo di donne che battevano due e persino tre volte al giorno quella via e guadagnavano quaranta centesimi per viaggio».

E’ una scena che pur risalendo a non molti decenni fa ci riporta in un tempo remoto e profondo, in cui per generazioni si riprodussero le stesse fatiche, lungo gli stessi percorsi. Nel secolo scorso quelli che si dirigevano verso Capanne di Marcarolo per poi sciamare verso il Monferrato e la pianura (e viceversa) avevano ormai perso la loro importanza, limitata agli scambi locali; la svolta era già stata segnata dall’intervento razionalizzatore e pianificatore dell’epoca napoleonica, proseguito poi dal Piemonte sabaudo. Noi qui dobbiamo però recuperare una storia che assegna all’epicentro dell’Oltregiogo un ruolo vitale ed attivo per un lunghissimo periodo che sprofonda nella preistoria. Abbiamo già visto che alcuni dei percorsi del Ponente genovese si dirigevano verso Capanne, lo stesso vale per quello che è forse il più antico dei percorsi della Val Polcevera: all’altezza di Ceranesi invece di proseguire per la Bocchetta piegava in direzione dei «Piani di Praglia (m. 860) e a ridosso della dorsale del monte Orditano (950 m.), monte Poggio (m. 1081) e Bric Arpescella (m. 875), scendeva nella pianura ovadese evitando, sempre per costa, il fondovalle dell’alto e medio corso del Piota, affluente dell’Orba» (M. Quaini). È una mulattiera appenninica che attraversa interamente il nostro territorio, avendo come snodo Capanne di Marcarolo, il luogo dove secondo l’annalista cinquecentesco Agostino Giustiniani ogni giorno si faceva mercato tra genovesi e lombardi. Di qui secondo alcuni la derivazione etimologica da mercato; la sostanza non cambia se si fa derivare invece da «mercurius» nel senso di pila di pietra con funzione di indice stradale. E, a dire il vero, neppure se si accetta una recente ipotesi che sposta le «Capanne» del Giustiniani nel luogo dove attualmente ci sono i laghi del De Ferrari Galliera; in questo caso bisognerebbe ipotizzare una variante con il valico a Prato Leone e il percorso lungo il Gorzente piuttosto che lungo il Piota.

L’apertura delle carrozzabili di fondovalle e della ferrovia allontanò la «grande storia» dalla nostra zona, la cui vita si è attestata sui tempi lunghi di una lenta, progressiva, decadenza. Solo in occasione della seconda guerra mondiale fu teatro di eventi cosi tragici da riportarla per un momento su una ribalta di cui volentieri le sue popolazioni avrebbe fatto a meno. Il 6 e 7 aprile 1944 un forte contingente di truppe tedesche (granatieri) con l’appoggio di elementi della RSI condusse un massiccio rastrellamento su tutto il territorio dell’attuale Parco. Gli informatori avevano segnalato la presenza di accampamenti di partigiani particolarmente nella zona di Capanne di Marcarolo. In realtà le dimensioni dell’operazione erano suggerite da considerazioni strategiche che tenevano conto di un vasto teatro di guerra, nel cui ambito l’Oltregiogo veniva a ricoprire nuovamente un ruolo cruciale come ai tempi della Repubblica genovese. Nell’eventualità, ritenuta molto probabile, di uno sbarco alleato sulla costa ligure l’area attorno al Monte Tobbio era al centro delle direttrici di movimento previste per le truppe tedesche. Questo spiega l’efficienza brutale dell’operazione e le dimensioni della medesima (B. Mantelli). Una relazione del comando germanico di pochi giorni dopo recita: «Nella zona del Monte Tobbio (circa 19 Km a Sud di Novi Ligure) la 356 divisione di fanteria ha condotto a termine un’azione antipartigiana […] nel cui ambito già 366 persone atte al lavoro, che si trovavano nel territorio infestato dai banditi, sono state rastrellate e inviate nel Reich per essere utilizzate come lavoratori coatti».

In realtà non si trattava solo di questo, della imposizione in forma schiavistica moderna di un vecchio destino di migrazione e lavoro: il rastrellamento si concluse in un eccidio con 145 morti fucilati e 368 prigionieri. Dei 191 deportati della Benedicta (sede del comando partigiano) 144 morirono sicuramente nei Lager. Il che significa che a causa di quella sola operazione 300 giovani, quasi tutti dei paesi vicini, vennero uccisi. La cascina della Benedicta fu fatta saltare per aria. Nel luogo delle fucilazioni è stato eretto un monumento.

Capitolo IV – Le industrie nelle campagne

La localizzazione delle industrie nelle campagne è un fenomeno ampiamente documentato e costituisce una tappa significativa nel processo di industrializzazione che interessa molti paesi europei tra il medioevo e la rivoluzione industriale: le sue cause sono molteplici.

Per quanto riguarda la siderurgia appenninica non può essere trascurato l’esaurimento delle risorse boschive sul versante marittimo con la conseguente concentrazione degli impianti nelle valli della Bormida, dell’Erro, dell’Orba e dello Stura, dove esistevano ancora imponenti riserve forestali. Non è questa, per altro, l’unica causa della localizzazione degli impianti; a parte più complesse considerazioni d’ordine sociale ed economico, si tenga conto che a partire dall’XI secolo cominciano a diffondersi, a livello europeo, le prime applicazioni dell’energia idraulica alla metallurgia; di qui una spinta a localizzare gli impianti presso i corsi d’acqua (e quelli del versante padano erano preferibili per portata e regolarità).

L’origine delle ferriere in Liguria è attribuita ai benedettini; nel secolo XII avrebbero attivato due impianti nell’Appennino savonese (Osiglia e Ferrania). Quando nel secolo successivo si hanno le prime notizie di ferriere nelle valli dell’Orba e dello Stura, in loco sono presenti anche i cistercensi che nel 1120 hanno edificato l’abbazia di Tiglieto (filiazione di La Ferté). Essi diedero un contributo innovatore alla siderurgia, almeno sino all’introduzione dell’altoforno; è quindi possibile ipotizzare che abbiano avuto un ruolo nella rapida diffusione delle ferriere nel nostro territorio, divenuto l’area di maggiore concentrazione di tutto l’arco ligure-appenninico.

La prima notizia concernente le ferriere in Valle Stura risale alla fine del XIII sec. (1293). E’ un’attività che prosegue sino al secolo scorso, allorché chiuse definitivamente le ferriere (1881) basate sul sistema del «basso fuoco», continuò ancora per qualche tempo l’attività delle fucine che producevano chiodi utilizzando ferro importato.

In uno dei momenti di massima espansione (1673) in Liguria ci sono 47 ferriere, 13 di esse in Valle Stura. Alla fine del XVIII sec. sono solo 7, però ancora nel 1807 viene aperta una nuova ferriera a Campo Ligure.

Il «basso fuoco» era anche detto «forno alla catalana» perché inventato nella prima metà dell’XI sec. in Catalogna. Con l’introduzione dei mantici idraulici viene aperta la strada agli altoforni. La tecnologia del ferro delle nostre valli rimane però attestata sul metodo dal «basso fuoco», venendo a costituire un esempio notevole di «inerzia tecnologica», il che è stato spiegato analizzando il retroterra sociale ed ambientale che faceva da supporto alle ferriere feudali e protoindustriali dell’Oltregiogo (M.Calegari).

Non bisogna comunque dimenticare che in tutta Europa fino al XVIII sec. il combustibile generalmente usato per la fusione era il carbone di legna (a causa di problemi tecnici connessi all’impiego del carbon fossile). Quindi anche in questa prospettiva il grande protagonista, il «soggetto» attorno a cui ruotano le vicende qui abbozzate, è il bosco.

Dalla fine del XIII secolo Genova controlla il minerale di ferro dell’isola d’Elba che, dalla seconda metà del secolo, risulta ampiamente importato in città, sia per rivenderlo in Lombardia e un po’ in tutto il Mediterraneo, sia per farlo lavorare nelle ferriere di Oltregiogo. I dati in questa prima fase sono scarsi, ma risulta che nel secolo successivo la maggior parte del ferro destinato alla Liguria finiva nelle ferriere della Valle Stura, della Val d’Orba, alimentate con il legname dei due grandi boschi di Ovada e di Sommaripa.

La vicenda delle ferriere appenniniche entra in una nuova fase alla metà del XV secolo, quando in Genova viene costituita la società della Maona dell’Elba; essa ha il monopolio del minerale elbano e lo fa lavorare nelle ferriere appenniniche, per poi commercializzare tutto il ferro semilavorato da queste «industrie». Il meccanismo messo in piedi è di grande interesse e costituisce un’esemplificazione notevolissima dei rapporti città-territorio nello specifico contesto ligure-piemontese.

Lo stesso mantenimento della tecnica del basso fuoco rispondeva al disegno di sfruttare capillarmentele risorse locali (manodopera, legno, acqua…) e di controllarne indirettamente la gestione attraverso il conduttore della ferriera, diciamo cosi l’imprenditore locale, su cui si scaricano tutti gli oneri e i rischi del funzionamento dell’impianto, senza poterne ricavare vantaggi dato che la Maona ha in mano la commercializzazione e la determinazione dei prezzi.

Per quanto riguarda la localizzazione delle ferriere lungo i corsi d’acqua dell’Oltregiogo, anche quando il progetto della Maona si esaurisce, l’accento deve essere posto sul contesto sociale:non essendovi alternative tutti gravitano attorno alla ferriera. Così già emergeva dalle descrizioni dei contemporanei. Un osservatore inviato dal Granduca di Toscana per individuare le cause della concorrenzialità dei ferri genovesi notava: «v’è abbondanza di homini che tutti si esercitano in tal misterio si di carboni come di maestranze et in somma fanno tutta l’intera arte da per loro et altro esercizio non fanno né possono fare in quelle montagne et vivono di castagne et sino alle donne portano i carboni in capo alle ferriere (…) et fino alli ragazzi de cinque o dieci anni lavorano e fanno li chiovi» (G. B. Capponi, 1598). Non diversa la descrizione del borgo di Masone da parte di Filippo Casoni, avvocato del feudatario ai primi del Seicento: «Tutti gli abitanti o sono maestri da carbone o da ferro o da chiodi. Le donne medesime e i putti in questi esercitii si esercitano (…) onde tutti d’ogni sesso e d’ogni età fanno il loro impiego nel bosco…». La tesi di Casoni è volta a dimostrare «essere di sua natura il territorio di Masone un bosco applicato a ferriere»; l’obiettivo è di tenere legata la popolazione all’industria impedendole di orientarsi verso l’agricoltura, ovvero di partecipare al movimento allora in atto di colonizzazione dei boschi. La cosa oggi ci può apparire singolare, ma lo stesso problema siera già presentato sia in Inghilterra che in Francia: i lavoratori appena potevano abbandonavano le fonderie per le fattorie!

Sulla stessa linea si pone il tentativo posto in atto nella seconda metà del ‘600 dal feudatario di Campo, Domenico Spinola, il quale cerca di realizzare il monopolio della lavorazione del ferro costituendo un consorzio tra proprietari e pagando gli operai con monete spendibili solo nei suoi magazzini. Sono metodi diffusi, tipici di un feudalesimo industriale che è pronto a ricorrere ad ogni espediente.

In Valle Stura ancora in pieno Ottocento i lavoranti nelle officine produttrici di chiodi dovevano sottostare al truck system (pagamento in natura).

Come abbiamo visto i capitalisti genovesi erano interessati soprattutto al controllo commerciale sulla materia prima e sul prodotto lavorato. Alla fine del XVI secolo essi lasciano spazio a nuove figure di imprenditori locali, ad un tempo proprietari e conduttori degli impianti. I Pizzorno di Rossiglione ne sono un esempio significativo anche se con pochi altri riscontri. Il loro patrimonio è ricco e diversificato ma fa perno sui boschi. E’ di lì che provengono il carbone e le castagne, la moneta con cui vengono pagati i carbonai e i mulattieri.

«L’area di servizio che alimenta dicarbone gli impianti abbraccia un territorio molto vasto compreso fra l’Orba, Ovada e le Capanne di Marcarolo. Sono centinaia e centinaia i carbonai che tagliano gli alberi tra novembre e aprile e appiccano il fuoco alle carbonaie nei mesi di luglio e agosto; e centinaia sono i portatori, uomini,donne,bambini che trasportano il carbone nelle ferriere; in fine ci sono i mulattieri che assicurano i rifornimenti di vena e portano sulla costa i manufatti di ferriera » (E.Baraldi).

Da ogni punto di vista l’indotto era più importante della ferriera. In base ai dati che fornisce Domenico G. Pizzorno per i primi del ‘700, un impianto consumava in media 12.000 sacchi di carbone all’anno. E’ un dato confermato da ciò che sappiamo sulla «Ferriera del Lago», a Campo, di proprietà Spinola, situata alla confluenza del torrente Ponzema nello Stura. Nella stessa epoca risulta che, su base annua, fondesse 10 tonnellate di minerale grezzo, oltre ai rottami, consumando 13.000 sacchi di carbone vegetale. Il che vuol dire che ogni ferriera divorava in un anno più di mille alberi di alto fusto. La pressione sul bosco era tale da spingere a cercare fonti energetiche alternative, così alla fine del ‘700 viene ottimisticamente segnalata lungo il rio Morgone, che scende dalle pendici del Tobbio per portarsi sul Lemme, la presenza di vene di «carbon fossile, da cui sembra potersene ricavare in quantità e risparmio del grandissimo consumo di legna» (Nicolò Bellante, medico di Voltaggio). È in quest’epoca, in effetti, che in Europa avviene il passaggio dalla civiltà del legno a quella del carbon fossile, secondo lo spartiacque individuato da Fernand Braudel, ma da noi e un pò in tutta la penisola si continua a produrre carbone di legna, in certe zone (pistoiese) sino ai nostri giorni. Nell’Oltregiogo uno dei mestieri su cui si concentra l’attenzione dell’imprenditore rossiglionese è sparito da poco, senza lasciare tracce, cancellato bruscamente come quasi tutto il ciclo pre e protoindustriale. Sempre il Pizzorno ci spiega quali erano gli alberi utilizzati per ricavarne carbone. Aggiungiamo solo che la documentazione da questo punto di vista è molto vasta, anche perché su tutto l’arco appenninico sono frequenti i conflitti di confine e giurisdizionali connessi allo sfruttamento del bosco per le carbonaie, oltre che per altri usi più tradizionali e scontati.

Dalla rovere, dal faggio e dagli alberi «selvatici» si ottiene un carbone forte che rende il ferro «più acre e meno pastoso». Utilizzando alberi domestici e particolarmente il castagno si produce un carbone «leggiero» che brucia più rapidamente e rende il ferro «più pastoso, buono e dolce», migliore per la produzione di chiodi.

Ciò che bisogna assolutamente evitare, è la «tagliata», cioè il taglio integrale del bosco per farne carbone. Ma proprio questo avvertimento ci informa che era una pratica ormai diffusa. Egli mette in guardia anche dalla eccessiva stagionatura e in questo caso il pericolo sono i ladri. Particolarmente esposti sono i terreni più lontani, gravitanti sull’ovadese e sotto una diversa giurisdizione: in un caso 1400 piante «di carbone in piedi» furono trafugate dai boschi di Tagliolo.

Quando scrive i suoi «Ricordi» la parabola della siderurgia appenninica pre-industriale è ormai entrata in una fase di lento declino ma la crisi finale dei bassi fuochi si avrà solo con la metà del XIX secolo anche per l’adozione decisa del libero scambio da parte di Cavour. Per gli operai delle ferriere e dell’indotto la prospettiva è l’emigrazione transoceanica o verso le nascenti industrie della costa. Contemporaneamente alla lavorazione del ferro si sviluppa nell’Oltregiogo quella del vetro.

Alla base di entrambe c’è la stessa risorsa: il bosco. Sono stati censiti in valle Stura sette vetrerie, altri impianti sono stati identificati in val Lemme (in particolare la vetreria del monte Leco). La prima documentazione risale al XIII secolo; in valle Stura il ciclo del vetro sembra chiudersi già nel corso del XV sec. in coincidenza con il forte sviluppo delle ferriere. Anche in questo caso il legno, assieme all’acqua, era la risorsa fondamentale; serviva per la combustione nella fornace, dove avveniva il processo di fusione della silice (ricavata dalla quarzite presente in loco); alimentava le «calcinare» (ne è stata individuata una ai piedi del Monte Pracaban); forniva sodio e potassio ottenuti dalle ceneri della combustione del legno di faggio.

Sembra che dalle vetrerie di Masone nel XIV secolo siano stati prodotti i vetri per la torre di Capo di Faro, poi diventata la celebre Lanterna di Genova.

Nello stesso periodo in cui si infittiscono le ferriere, tendono invece a scomparire le vetrerie (oggi documentate più che altro a livello di toponomi). «Nel corso del XVI secolo l’industria diffusa scomparve dell’Oltregiogo e si ridusse nelle aree di Altare Montenotte e Genova Cogoleto» (C. Costantini). Altra presenza paleo o pre-industriale è quella delle cartiere. E’ una vicenda successiva ma in parte simile a quella del vetro: in entrambi i casi i centri produttivi principali rimasero localizzati sul versante ligure.

Il coinvolgimento dell’Oltregiogo nell’industria della carta riguardava inizialmente commesse di attrezzature in legno per le cartiere rivierasche. Nel corso del ‘600 ci fu da parte dei patrizi genovesi un tentativo di decentramento della produzione nei loro feudi dell’entroterra (Masone, Campo, ecc.). Se ne può riscontrare traccia nel «Cabreo» delle proprietà Spinola di Campo Ligure (risalente al 1784) dove è segnalato un «Edificio che ora serve di Cassina» e che sino alla metà del Seicento aveva ospitato una cartiera. L’episodio più significativo fu però la costruzione di un edificio da carta da parte di G.B. Serra, feudatario di Mornese. In un Atlante del 1644 si può leggere: «Al fiume Gorzente confina il territorio di Palodio (Parodi) con quello di Mornese in un piano detto Iselle ove è un rio che sbocca nel detto fiume Gorzente fra la cassina del quondam Santino Repetto e l’edificio da carta del Sig. Gio Batta Serra».

Questi nel 1636 aveva fatto costruireuna cartiera chiamandovi a lavorare maestranze voltresi; nella zona possedeva anche un mulino, una fornace da calce e una fornace da mattoni. La cartiera, per altro, agli inizi del secolo successivo risulta già abbandonata. Ai primi dell’800 in una relazione per il nuovo proprietario, marchese Giorgio Doria, si parla di un «grandioso fabbricato mezzo distrutto ad uso di cartiera, a cui era inserviente la stessa acqua che va al molino» e si avanza la proposta di rimetterlo in attività, perché è possibile avere la materia prima, gli stracci, a prezzi inferiori, risparmiando sul trasporto; infatti in quel tempo gli stracci, che servivano per produrre carta di qualità, «dai paesi suddetti della Lombardia si mandano continuamente a Genova». Non se ne farà nulla perché il ciclo delle industrie di origine medioevale dell’Oltregiogo si sta definitivamente chiudendo.

Un’altra produzione legata al bosco era quella della calce. Calcinare a legna sono state individuate sia sul versante marino che su quello continentale dell’Appennino, accanto alle testimonianze archeologiche segnali precisi ci vengono dalla toponomastica. Le pietre venivano cotte nella calcinara che consumava la legna dei boschi vicini, di solito l’impianto e il bosco erano dello stesso proprietario. Una «cotta» durava una dozzina di giorni e il fuoco doveva essere sorvegliato in continuazione per mantenere la giusta temperatura. Con 250 q. di legna si facevano sino a tre «cotte».

Tra gli impianti che operavano nel territorio qui preso in considerazione segnaliamo per il XVII sec, le fornaci da calce di Casaleggio, coinvolte nel plurisecolare contrasto con gli abitanti della Polcevera a proposito dello sfruttamento delle risorse boschive nella zona gravitante sull’attuale lago della Lavagnina.

Impianti industriali come le fornaci da calce e da laterizi erano alimentati prevalentemente con fascine. Per il carbone vegetale consumato dagli impianti siderurgici di tipo catalano-ligure occorrevano invece piante intere. Ricordiamo infine che fino a tempi recenti la risorsa bosco ha sostenuto l’attività di molte piccole segherie e di un’industria del mobile ormai esauritasi che ha avuto il suo centro più noto in Ovada.

Tutti gli impianti produttivi che abbiamo menzionato, ai quali sarebbero da aggiungere almeno i mulini del comparto alimentare, si basavano, oltre che sul lavoro umano e animale, sullo sfruttamento del legno (la biomassa!) e dell’acqua. Il territorio non offre molte altre risorse, però la sua complessa composizione geologica fa sì che in passato e anche attualmente abbia alimentato progetti di sfruttamento dall’esito, peraltro sempre molto inferiore alle aspettative.

La ricerca dell’oro (e in minore misura dell’argento) ha variamente interessato i corsi d’acqua dell’Ovadese;la documentazione più ricca e continua nel tempo riguarda il Gorzente sede di uno sfruttamento, forse, di età romana. Nel Medioevo i diversi potentati feudali accamparono diritti sulle sabbie aurifere e le magre quantità di metallo prelevato dai pescatori d’oro. Così i Marchesi del Bosco nel 1212, quelli di Monferrato nel 1355, infine i Gonzaga di Mantova dalla metà del XVI sec. Questi ultimi tentarono anche uno sfruttamento diretto in miniera. Vari tentativi di passare ad una fase industriale si effettuarono nel corso dell’Ottocento. Nel 1843 è ottenuta la concessione ed inizia lo sfruttamento delle miniere «Moglia Ferraio» e «Alcione Mazzetta», ad esse si aggiunsero nel 1871 e 1872 le miniere «Cassinotto» e «Frasconi» sempre in Val Gorzente. Nel 1852 viene costruito uno stabilimento metallurgico per la preparazione dei lingotti in località Lavagnina. I suoi ruderi, sommersi dalle acque del lago di compensazione, affiorano in periodi di siccità. La «Società Anonyme des Mines d’or du Gorzente» di Lione, assunto il controllo delle miniere, cercò di introdurre innovazioni produttive ma a fine secolo decise di abbandonare la coltivazione.

Rimase in attività, sotto controllo belga, la miniera Frasconi. Alla confluenza del rio Tana nel Piota venne allestito un piccolo stabilimento di amalgamazione, ma nel 1913 anche l’ultima miniera venne definitivamente chiusa. Nella seconda metà dell’Ottocento ci fu un limitato sfruttamento di miniere di rame nella valle del Lemme, a sud di Voltaggio, sino all’altezza del Monte Leco. Una concessione viene rilasciata nel 1859 per la miniera di rame «Biscia», su una superficie di 394 ettari. Descrizioni successive parlano di un giacimento cuprifero sviluppantesi per 4 chilometri in direzione nord-sud, accompagnato da ammassi di pirite; in particolare alle falde del Monte Leco la mineralizzazione era costituita da pirite accompagnata da magnesite, asbesto e talco. Lo sfruttamento continuò in modo saltuario sino al 1907: Una ripresa, con la costruzione di uno stabilimento in località Pian di Maxina, si ebbe in connessione alle esigenze belliche: «dal 1939 al 1943 furono estratti 374,866 tonnellate di minerale con tenore di rame variabile dal 4,05 all’8,79%, e furono prodotti 43,213,5 quintali di talco» (G. Pipino).

In questi mesi l’alta Valle dell’Orba è stata messa in subbuglio dal paventato sfruttamento con miniera a cielo aperto, a poca distanza dall’abbazia di Tiglieto, di un giacimento di rutilo (titanio); anche perché assieme al rutilo e più abbondante di esso c’è l’asbesto blu, il più pericoloso per la salute umana.

Capitolo V – “Ingentissima silva”

Paolo Diacono cita più volte la «vastissima selva di Urbe», luogo abituale di caccia dei re longobardi. Essa ricopriva ancora gran parte dell’Oltregiogo quando Genova vi impose la sua egemonia. Il patrimonio boschivo comprendeva i «boschi camerali» di Ovada e Palodi (Parodi ligure), direttamente controllati dalla Dominante, le «comunaglie» e i boschi privati. Questo è il quadro a grandi linee di una realtà resa intricata dal sovrapporsi del sistema politico e giuridico feudale. L’obiettivo di Genova, ripetutamente proclamato ma solo parzialmente realizzato, è la salvaguardia della sua sovranità sui boschi camerali. In particolare il «grande Bosco di Ovada», secondo una sentenza del 1317 con la quale Genova ne ribadiva il pieno possesso, si estendeva su tutto il bacino dell’Orba sino alla sponda sinistra dello Stura arrivando alle alture che sovrastano Voltri e Cogoleto. Il territorio dell’attuale Parco naturale di Capanne rientrava invece nel bosco di Parodi, detto anche di Sommaripa. Al suo vertice superiore c’è la zona di Marcarolo, di cui l’annalista Agostino Giustiniani nel 1536 ci fornisce una descrizione ponendo l’accento sulla sua importanza per la cantieristica ligure: «Alla sommità del giogo in un luogo chiamato Capanne, che fanno 20 fuochi in circa, havvi un bosco di 12 miglia abbondante di materia per la fabbrica dei navigli».

E’ un’attività che prosegue ancora fino alle soglie del nostro secolo, con un’evoluzione tecnica intrecciata ai saperi locali difficile da ricostruire. Un geografo attento conoscitore della montagna appenninica scrivendo negli anni Venti, ci parla ancora dei «tronchi delle roveri e dei faggi secolari dai quali si traevano le grandi chiglie, i dritti di prua, le costole, il fasciame, mentre i frassini fornivano gli alberi e i pennoni» (G. Rovereto). Gli studi più recenti hanno stabilito che «gli assortimenti navali sono prodotti attraverso una forma di governo non ceduo del querceto» (D. Moreno). E’ un sistema colturale che oggi risulta cancellato non solo dalla memoria ma anche dal paesaggio ma che ebbe nel passato, almeno fino al XVIII sec., grande importanza economica e tecnica. Il suo sviluppo impone un controllo che impedisca lo sfruttamento, al di fuori delle modalità ben precise della rovericultura. Si apre qui un campo di conflittoche risulta con evidenza dalle fonti dell’epoca. In una lettera dei Sindacatori dell’Oltregiogo, funzionari incaricati di compiti ispettivi da parte della Repubblica, risulta questa situazione per l’anno 1568: «da Gavi a Voltaggio… il bosco… è molto distrutto e guasto, tagliatovi di molti arbori di qualità e quantità per fare legnami da garibo e da far carboni in grandissima quantità. Ed essendo il danno molto grande se gli ne dà notizia accio che possino provvedergli come gli parrà meglio». I dati disponibili ci fanno propendere per l’individuazione di due fasi principali nella colonizzazione e disboscamento del territorio: la prima si delinea in modo netto a partire dal XII sec. ed ha come centri propulsori le strutture monastiche, produce insediamenti a maglia molto larga,principalmente o esclusivamente lungo le vie di traffico, anche in zona montana come nel caso della Benedicta o dell’Abbazia di Tiglieto. Si può ipotizzare che alle quote più alte questi insediamenti abbiano modificato di poco la presenza preponderante dell’incolto, l’impronta silvo-pastorale già individuata dalla rarefatta documentazione antica. Ben più incisiva fu la colonizzazione sviluppatasi a fine Medioevo; in questo periodo c’è il tentativo, solo in parte riuscito, di diffondere in modo capillare l’agricoltura e la pastorizia, con una trasformazione profonda dell’ecosistema della montagna appenninica. E’ una fase che ha prodotto l’insediamento sparso che possiamo ancora riconoscere nel nostro territorio, ma i contadini vengono sconfitti sul terreno del controllo delle risorse strategiche, connesse alle attività preindustriali delle valli e ai bisogni della città di Genova. E’ in ogni caso una vicenda complessa che attende ancora una ricostruzione storica puntuale; i dati che possediamo confermano una modifica profonda dell’insediamento in seguito alla colonizzazione dei boschi. Questa era una delle poche possibilità per tentare di sfuggire alla miseria.

Alla fine del ‘500 il doge Matteo Senarega ci informa che dalle «vicine montagne delli Spinoli, de Fieschi e de’ Doria […] la Pasqua et ogni altra festa principale calano a Genova una gran quantità di montanari, uomini e donne, per cagione di dimandare elemosine».

In quel momento un paese come Rossiglione ha una popolazione di circa 2200 abitanti, quasi tutta accentrata in due borghi (Inferiore e Superiore); la popolazione delle cascine ammonta a poche decine. Sono proporzioni che mutano radicalmente nel periodo successivo. Ciò avviene anche a Masone dove il feudatario aveva esplicitamente propugnato la tesi che la popolazione dovesse dedicarsi alla monocultura del ferro, bloccando ogni sviluppo del seminativo a danno dei boschi. La pressione dal basso (anche per le scelte politiche ed economiche della Dominante) in qualche modo riesce ad imporsi. Una statistica del 1678 assegna infatti 958 abitanti alle cascine sparse e 314 al borgo accentrato di Masone. E’ un’ulteriore conferma della grande ondata di colonizzazione tra 1600 e 1700, solo ritardata dal tentativo «industrialista» della finanza nobiliare genovese.

La colonizzazione dei Boschi d’Ovada è di carattere popolare e povero: «nella sua fase più intensa tra il 1590 e il 1615, le funzioni abitative della casa si trasferirono alla cassina, un tempo edificio funzionale, destinato a fienile o a ricovero temporaneo, ed ora abitazione permanente» (C. Costantini). Sembra certo che la pressione sui boschi, con il diffondersi dell’insediamento sparso, abbia determinato un primo sensibile attacco alle «comunaglie» ma non bisogna, anacronisticamente, pensare ad una privatizzazione. Ricordiamo a titolo esemplificativo che il bosco del Gazzolo, a quote molto basse, sull’altopiano tra Castelletto, Capriata e San Cristoforo, sarà privatizzato solo alla vigilia della Iguerra mondiale.

Nella zona montana, per effetto delle modalità della colonizzazione, prevale la cascina isolata e monocellulare: un edificio di modeste dimensioni (da mt. 5 x 6 a mt. 7 x 10) con annessi i rustici. Edifici più complessi con pianta ad «elle» o rettangolare e cortile interno sono di età più tarda e fanno parte di grandi proprietà che comprendono decine di cascine. Nelle alte valli questo è l’assetto proprietario prevalente lungo tutta l’età moderna ed è presente ancora in pieno XX secolo.

L’accresciuta pressione antropica sul territorio, sia dal lato delle attività silvo-agro-pastorali che da quello dell’industria rurale ha determinato una progressiva espansione del castagneto a scapito dei boschi di rovere e di faggio, vale a dire delle essenze che da un punto di vista botanico costituiscono i boschi climax delle valli Orba e Stura.

L’introduzione della coltivazione del castagno si fa risalire all’XI-XII secolo. L’inserimento di Genova nel mercato internazionale dei grani (seconda metà del XVI secolo) ha per effetto di spingere la castagnicoltura nell’entroterra che ripiega sull’autoconsumo. I grandi proprietari davano in affitto i castagneti e il canone era costituito da quantitativi di castagne secche. La debolezza contrattuale dei contadini ci è rivelata dalla diffusione di contratti di colonia parziaria in base alla quale 2/3 del prodotto andavano al padrone. E’ vero che gli affittuari ricevevano dal bosco altre risorse (combustibili, strame e foraggio) in ogni caso essi finivano con l’indebitarsi ed essere costretti a vendere i loro lotti di terra: un cattivo raccolto era una tragedia per la famiglia contadina.

La situazione non migliora con l’introduzione, nel XVIII secolo, del mais, infatti all’aumento del raccolto di cereali fa riscontro un calo vistoso della produzione delle castagne secche.

In base a studi condotti sull’aziendaRaggi, erede delle grandi proprietà dell’abbazia di Tiglieto, risulta che lo sfruttamento intensivo del bosco per la produzione di carbone era tra le cause della crisi dei castagneti (i dati si riferiscono al Settecento e sono stati elaborati da G. Doria e G. Sivori). La ferriera dei Raggi consumava da 1380 a 2180 sacchi di carbone all’anno (evidentemente c’è un’utilizzazione dell’impianto molto più bassa che in valle Stura); un sacco pesava Kg 31,77 e un albero grosso di castagno forniva dai 10 ai 15 sacchi di carbone. In tal modo venivano consumati annualmente da 110 a 175 alberi grossi di castagno. Non esiste un censimento preciso del numero di ferriere in attività per vari secoli su tutto il bacino dell’Orba, in ogni caso è evidente che la risorsa bosco venne consumata al di là delle possibilità di reintegro, anche perché accanto alla siderurgia vanno considerati numerosi altri tipi di sfruttamento. Nel caso citato, alla metà dell’Ottocento, i boschi di latifoglie risultano quasi completamente scomparsi dalla conca di Tiglieto.

Le condizioni di vita delle popolazioni contadine nel XVII e XVIII secolo, per come risultano documentate dalla monografia di G.Doria su Montaldeo, sono spesso spaventose, si succedono anni di carestia, a cui si intrecciano e sovrappongono le epidemie. In certi momenti, ad esempio verso la fine del Seicento, l’unica prospettiva dei contadini è di mangiare erba come le capre allo scioglimento delle nevi; i mesi peggiori vanno da gennaio a maggio quando tutte le scorte sono ormai esaurite. E’ possibile che l’andamento climatico particolarmente avverso abbia agito come concausa della miseria contadina. Per il territorio di Mornese sono segnalate nevicate intensissime già a novembre (esse provocano vittime in località Roverno) e poi ancora a maggio, con la necessità di scaricare i tetti dalla neve.

Dopo la fase cinquecentesca della colonizzazione contadina si ha un progressivo accentramento della proprietà, il quale se da un lato può essere ricondotto a dinamiche locali, dall’altroconferma un arretramento storico generale dei contadini in età moderna. La situazione è bene esemplificata proprio nella zona di Capanne di Marcarolo, dove, nella seconda metà del ‘700, su 60 cascine solo 2 erano ancora in mano ai conduttori diretti, tutte le altre erano in affitto sotto il controllo di due grandi proprietari: i nobili Spinola e i borghesi Pizzorno. Tale struttura proprietaria era funzionale allo sfruttamento industriale e commerciale del bosco, per cui nel corso del secolo successivo, quando il dato demografico sarebbe stato favorevole a una nuova fase di colonizzazione, si ebbe piuttosto l’espulsione permanente di quote di popolazione; essa si affiancava alle migrazioni stagionali verso il Monferrato e la Lombardia; la crisi vera e propria si ebbe solo con la chiusura del ciclo plurisecolare della civiltà del legno.

Mentre nella zona collinare prendeva piede la piccola proprietà coltivatrice, nella montagna appenninica si manteneva dominante la grande proprietà: accanto a tentativi di creare aziende modello, come quella del barone Giulio Podestà, le presenze più consistenti erano segnate dai possessi fondiari di enti quali l’acquedotto De FerrariGalliera, gli Ospedali Civili di S. Martino, l’opera Pia De Ferrari Brignole Sale (zona di Voltaggio).

Una fonte molto importante e suggestiva per la conoscenza delle tecniche utilizzate per coltivare il bosco sul territorio dell’Oltregiogo è costituita dal manoscritto, risalente alla metà del XVIII secolo del rossiglionese e grande proprietario Domenico Gaetano Pizzorno, che abbiamo già utilizzato trattando delle ferriere. L’autore, che aveva terreni in molte aree dell’attuale Parco di Capanne, si rivolge ai propri figli e discendenti allo scopo di istruirli innanzitutto sulla conduzione di un’azienda ad un tempo forestale, agricola e industriale. Come risulta dal manoscritto le proprietà accumulate da questa famiglia di Rossiglione erano molto estese: oltre a possedere beni immobili (tra cui ferriere e magli) in territorio di Rossiglione, possedeva anche terreni in Ovada, Lerma, Tagliolo, Masone e Capanne di Marcarolo.

In dettaglio, nel 1729 la famiglia Pizzorno possedeva 37 castagneti, cascine, terreni, case in paese, 3 fucine e 3 ferriere, denominate «Moglia», «di Stura», «Sant’Anna». Sono anche interessanti le indicazioni circa il valore dei beni immobili: risulta che il primo posto è occupato dalle ferriere e dai castagneti, per un valore che oscilla dalle 5000 alle 8000 lire genovesi; per una comparazione si tenga conto che una casa è valutata 20 lire e che al palazzo della maggiore famiglia del paese (gli stessi Pizzorno) è assegnato un valore di 4000 lire.

Il Pizzorno dedica una parte importante della sua opera alla trattazione del tema: «Redito che può ricavarsi da boschi delle Capanne di Marcarolo», di cui ci fornisce una descrizione di realistica efficacia:«in tempo nuvolo quasi sempre vi fanno nebie densissime e li venti par, chequivi piantino la loro sede, là grande Altezza di quelle sommità fà, che vi regni un’Aria Fresca d’Estate, e d’Inverno freddissima, ed ‘Oridissima; Le Stalle allora, i Fienili ed’il fuoco sono li reparamenti continui di quelli Colloni e Uomini, che sogiornano in detti Abituri. L’Essere anche li stessi assuefatti a quel Clima par, che si adattino al naturale dell’Interperie, e perciò ò non Le sentono o non Le curano» (pag. 203 del manoscritto). La sua azienda è di dimensioni paragonabile a quella degli Spinola a Campo, e dei Raggi a Tiglieto.

Comprende otto «cassane» e sette «alberghi» che ci confermano la centralità della castagnicoltura nel comparto agricolo appenninico. Ma l’interesse del grande proprietario è volto in altre direzioni: quello del ferro «è il principale negozio che si convenga alla nostra casa per essere eretta su castagneti e boschi coi quali si ha un annuo provento di carboni». Per cui quando parla dei suoi manenti di Capanne l’accento batte sul loro ruolo di mulattieri e di mastri ferrieri, di cui apprezza la capacità nella coltivazione dei castagneti, criticandoli però per essere «andati estirpando tutti li boschi con sciantarne li tralci e le radici, e tagliarli in tempi inconvenevoli». In sostanza gli imperativi economici del contadino sono diversi da quelli del proprietario, pur sullo sfondo di uno stesso sapere tecnico.

L’espansione del paesaggio del castagneto da frutto è stata opera dei contadini piccolo proprietari nel corso del XVI e XVII secolo. Ma lo sviluppo della grande proprietà e della siderurgia preindustriale, con la sua forte domanda di carbone, tende a. colpire quest’assetto, a marginalizzarlo, per cui quando il Pizzorno scrive i suoi «Ricordi», la tendenza in atto è il passaggio dal «castagnativo» al «bosco selvatico», integralmente destinato alla produzione di carbone. E’ una tendenza a cui il nostro si oppone, non a caso egli fornisce ampie indicazioni per la cura del castagneto, con una complessa sistemazione del terreno per il drenaggio e la raccolta delle acque piovane, la zappatura, il rincalzamento, le concimazioni, la pulitura dal «brugastro» ecc… Ma di molti altri alberi tratta il Pizzorno con grande competenza e fornendoci la possibilità di riallacciare un legame con un passato di cui non sappiamo più nulla. Nelle sue pagine gli alberi riacquistano una loro identità. Noci, tigli, faggi venivano piantati presso i bedali e gli impianti che sfruttavano la forza motrice dell’acqua: servivano per stabilizzare il terreno e riparare i tetti «dalli turbini e venti impetuosi e per conseguenza anche dalliincendi».Ma chi «alligna assai d’intorno alli bedali e le ferriere» è l’olmo che «serve per alberi da maglio e per altri cento lavorij».

Il frassino, lamenta il nostro, risulta «esterminato dai confini di Campo e Rossiglione perché tutto ancora piccolo si porta in Monferrato per accopiarlo e impalarlo alla vigna»; bisognerebbe invece farne una «esattissima coltura» e ricavarne legname per botti da vino. Quanto all’ontano non si dovrebbe venderlo per farne carbone ma coltivare per la produzione di pali che «alla marina si vendono molto cari» perché servono «per sondare i fondamenti e ne abbiamo l’esperienza nelle Fabriche di Portofranco che sono quasi tutte erette su pali di detto legname, ed in mille altre parti si usano nella città di Genova e per le Riviere».

A maggior ragione non si dovrebbe fare carbone della rovere – e sono questi i boschi di Marcarolo – ma coltivarla secondo l’elaborata tecnologia della rovericoltura, per ricavarne «alberi da linea», «alberi curvi» e «alberi forenti», così come è stabilito dall’ingegneria navale dell’epoca.

I suggerimenti del Pizzorno ai figli sono in ogni loro parte un’espressione tipica della civiltà del legno; si consideri questo passo: «…bisogna avere quest’attenzione ogni anno di farsi trapiantare de’Fo, Carpi, Frassini, Roveri, Olmi, One da noi dette Verne, Celeghe selvatiche, alberi di Castagno edaltre piante proporzionate, che tutte servono ad uso delle medesime ferriere per fare alberi da maglio, maglietti, zocchi, oberghetti o sia cinmazoli, canate, seitri, ruote, volti delle canate per li quali sono anche buoni i Pioppi, da noi detti Albere che presto crescono di una grossezza smisurata, e sono anche buoni per fare tavole, per dividere i carboni nelli carbonili; e così tutti li suddetti alberi sono buoni per fare dei manichi,o pure delle traverse, stanghe e altre mille cose necessarie e per gli edifizi e per le fabbriche». Il Pizzorno si pone in sostanza l’obiettivo di uno sfruttamento razionale del bosco; egli cerca di equilibrare lo sviluppo dei boschi che producono «legname da fabbrica», destinato in primo luogo alla cantieristica ligure, con la produzione di carbone per le ferriere, che considera il cuore economico della sua azienda, ma a cui non è disposto a sacrificare il meglio della risorsa bosco. In tale prospettiva considera boschi da coltivare con ogni cura quelli ad alto fusto, a cominciare dal castagneto da frutto, mentre considera incolti i boschi cedui, sottoposti a taglio. Come ha sottolineato D. Moreno nei suoi studi, la posizione del grande proprietario rossiglionese è concettualmente opposta a quella delle successive scienze forestali.

E’ difficile dire quanto il progetto di Pizzorno abbia potuto essere attuato; al di là della vicenda economica della sua azienda, esso si scontrava da un lato con la pressione contadina sul bosco, specie per l’allevamento del bestiame, dall’altro con la scorciatoia della destinazione a combustibile di enormi quantità di legname, compromettendo i «boschi allevati» su cui si erano formate le conoscenze tecniche dell’imprenditore rossiglionese.

Del resto la «modernizzazione» attuata attraverso i regolamenti forestali del Regno di Sardegna nel secolo successivo non sarà meno distruttiva. Essa opererà una cesura col passato in nome, della scienza contro le pratiche e i saperi locali, secondo un modello che diventerà operativo sia per la società che per la natura. Fu così possibile creare, con molteplici e inconsapevoli apporti disciplinari, una rappresentazione così potente che ancora oggi domina il cervello della gente: «persuadere che il bosco prima dell’età della selvicoltura scientifica fosse concepito come un’entità naturale e misteriosa dai suoi utilizzatori, premessa questa ad una mentalità economica che ammetteva come conseguenza la distruzione della risorsa» (D. Moreno). Al contrario anche le aree oggi considerate marginali (ritornate ad essere nell’immaginario collettivo «deserta loci»), abbandonate a se stesse o a pratiche di rapina, erano sedi di complesse elaborazioni e stratificazioni storiche, di conflitti di interessi, di saperi costruiti sulla base di una conoscenza ricchissima di ogni aspetto dell’ambiente naturale e costruito.

Capitolo VI – Un futuro nel passato

Nel corso dell’Ottocento e del Novecento il mondo complesso dell’Oltregiogo subisce processi profondi di destrutturazione, gli equilibri, pur sempre instabili e mutevoli, tra ambiente e risorse, natura e società locale, saltano per lasciare il posto ad una effettiva marginalizzazione, ad uno svuotamento di significati, ad una perdita di autonomia, innanzitutto culturale, tale da farne uno spazio vuoto, o meglio un ostacolo, per comunicazioni sempre più rapide tra la costa e le città della pianura.

Forse solo ora che la riviera è lo specchio del fallimento della deriva metropolitana, l’attenzione comincia a rivolgersi ad un territorio che richiede per altro di essere conosciuto, nelle sue caratteristiche attuali ma anche nella sua storia, perché le due cose sono congiunte, anche se non è facile ristabilire un collegamento con un passato che nell’immediato non ci dice più nulla. Ci proponiamo qui solo di far sorgere qualche curiosità, di predisporre ad un atteggiamento di ascolto, per fermare l’abbandono e impedire il consumo distruttivo.

Qualche soprassalto in tale senso, anche da parte degli abitanti dei fondovalle, si manifesta in occasione delle alluvioni (più o meno a cadenza decennale).

Esse non costituiscono certamente un fenomeno nuovo, nuovo è invece l’utilizzo speculativo del disastro che alimenta in un gioco perverso la sua riproduzione: l’alluvione diventa così una risorsa da sfruttare economicamente e politicamente. Se per il passato essa era un indicatore dello stato di salute dell’ecosistema montano, oggi ci segnala anche altri pericoli non meno esiziali per l’ambiente e per la società.

Le alluvioni in Valle Stura sono sufficientemente documentate a partire dal 1500; non si possiedono invece serie sistematiche per il Piota e per il Lemme, cioè gli altri due principali affluenti di destra dell’Orba nel cui bacino è compreso il territorio qui preso in considerazione. Utilizzando una ricerca di L. Oliveri forniamo alcuni dati schematici: nel 1545 a Campo vengono abbattute alcune case; nel 1594 viene danneggiata una cartiera e alcune ferriere; il 5 ottobre 1644 e il 19 agosto 1646 due alluvioni danneggiano ferriere e maglietti. Lo stesso anno è segnalata una inondazione del Piota che nei pressi di Lerma investe il mulino e le ferriere lì localizzate. Per il Seicento, a conferma di una forte piovosità o comunque di effetti rovinosi delle piene, abbiamo qualche indicazione anche per il Lemme: tra il 1610 e il 11702 il torrente in piena abbatté quattro volte ilponte di Borgonuovo a Gavi. Il 26 agosto 1702 si ha un’alluvione disastrosa con vittime in tutta la Valle Stura, a Masone è distrutta la ferriera del rio Masone, a Campo la ferriera Ponzema, a Rossiglione il principale impianto siderurgico della zona, denominato«Le Ferriere» per antonomasia, esse, nota un cronista dell’epoca, «forse non più si rialzeranno perché il fiume Stura ha cambiato letto ed è sottentrato per buona parte in loro luogo»; il 16 ottobre dello stesso anno nuova alluvione; il 30 ottobre 1705 l’alluvione dà il colpo di grazia a diversi impianti per la lavorazione del ferro; nel corso del ‘700 si succedono inondazioni e piene più o meno gravi, sino al 1793 quando le ultime ferriere della zona vengono nuovamente colpite. La correlazione tra inondazioni e sfruttamento industriale delle risorse boschive sembra plausibile ed è stata sottolineata con vigore sia da studi locali che da opere ormai classiche come «Uomo e Natura» di G.P. Marsh, scritto poco dopo la metà del secolo scorso e in buona misura incentrato sugli effetti negativi dello sfruttamento indiscriminato del bosco.

Nel corso dell’800 le notizie di gravi inondazioni sono più scarse, si ricordano quelle del 1833 e del 1841. Sono tutti dati, ovviamente, che andrebbero correlati con quelli pluviometrici o, almeno, con una ricostruzione su scala locale di clima e piovosità. In ogni modo il nostro secolo è caratterizzato da una ripresa in grande stile delle alluvioni disastrose, con abbattimento di ponti ed edifici: nel 1903; il 24 giugno 1915; l’ottobre 1925; il settembre 1931; il novembre 1934; il 13 e 14 agosto 1935 (sono i giorni del disastro di Molare); e arriviamo alle alluvioni disastrose degli ultimi tempi, nel 1970, 1977, 1987.

Le testimonianze storiche confermano che agli inizi dell’Ottocento assume ulteriore slancio il massiccio disboscamento della montagna appenninica, che aveva già causato verso la fine del Settecento la distruzione delle faggete di cresta; la conservazione e riproducibilità della risorsa bosco che presiedeva in qualche misura allo sfruttamento per usi «industriali» o come legname da opera, lascia il posto all’ampliamento del pascolo e, in certe zone, dei seminativi.

Questa fase coincide infatti con la diffusione del mais e della patata. C’è maggiore disponibilità alimentare per la famiglia contadina, il che sostiene l’incremento demografico, ma in realtà l’economia locale è più povera, meno diversificata, il lungo ciclo preindustriale con il suo capillare indotto (specie nel settore dei trasporti) si sta chiudendo. Unica alternativa è l’emigrazione e questa volta permanente, spesso oltreoceano.

Per la prima volta dopo circa otto secoli la castagnicoltura regredisce e perde la posizione centrale che aveva occupato nel sistema di funzionamento e riproduzione della civiltà appenninica.

In una «Descrizione del Genovesato» di metà Ottocento si può leggere: «I castagni sono selvatici o innestati; i primi si tagliano il più delle volte a ceppaia, gli altri ad albero e per frutto; i primi per far pali, cerchi di barile ecc.; gli altri servono a far combustibile di legna o carbone, o a far tavole quando vecchi e improduttivi. I tagli a ceppaia si ripetono di dieci a quindici anni, secondo i luoghi e la volontà del padrone». In questo scritto si sostiene che «erano altre volte assai più estesi e belli i castagneti, e quindi molto più proficui, anche per la legna da ardere che si cavava da’ loro tronchi e rami, per il carbone utile nelle magone, per le foglie di strame con cui aveva più concime da stalla». La decadenza è imputata al «moderno egoismo», vale a dire allo sfruttamento individuale del bosco, per cui «ad ubertose amene foreste ora successero sterili deserti». In ogni caso sino agli inizi del ‘900 il castagneto da frutto è essenziale nell’economia della montagna appenninica; oggi ne restano solo più poche testimonianze sparse. I boschi di castagne sono ridotti a cedui o abbandonati, con problemi gravi dal punto di vista idrogeologico, messi in evidenza dalle alluvioni disastrose degli ultimi decenni. Resti materiali molto interessanti della civiltà del castagno sono gli «aberghi», impianti dove avveniva l’essiccazione delle castagne. A nord-est di Capanne, nei pressi del lago Badana e del lago Bruno abbiamo il «Bric degli Alberghi» e il toponimo «gli Alberghi», frequente in tutto l’Oltregiogo. L’«abergu» poteva far parte delle cascine oppure essere costruito direttamente nel bosco; era diviso in due piani: in quello superiore su un pavimento di assi venivano poste le castagne, di sotto vi era il focolare che doveva essere alimentato di continuo finché il calore non avesse fatto lentamente seccare le castagne. Il fumo usciva poi dal tetto fatto di «scandole» ovvero tegole di legno. Eliminata la buccia, le castagne potevano essere consumate o commercializzate, intere oppure sotto forma di farina, ottenuta per macinazione in uno dei numerosi mulini ad acqua dello Stura o del Lemme. In loco il legno del castagno veniva usato per costruire una grande quantità di attrezzi e utensili, oltre che quasi tutte le strutture, suppellettili, ecc., delle case dei montanari. Dal punto di vista commerciale l’impiego principale era quello energetico come combustibile, sia domestico che industriale. Fino a tempi relativamente recenti dal ceduo di castagno si ricavavano grandi quantità di pali per vigna, venduti in Monferrato.

L’ultimo ciclo di sfruttamento industriale del bosco di castagno è stato legato al tannino, presente in grande quantità in tutta la pianta, e impiegato per la concia delle pelli.

Lo sfruttamento delle risorse locali assume una fisionomia del tutto nuova con lo sviluppo della società urbanizzata e industrializzata. In questa fase, che possiamo datare dalla metà del secolo scorso ad oggi, il controllo delle risorse sfuggì completamente dalle mani delle popolazioni locali, e l’antica dipendenza dalla «metropoli genovese» viene riproposta in termini che evidenziano la perdita di peso politico ed economico dell’Oltregiogo.

Per il suo carattere esemplare e per l’impatto sul territorio ricordiamo la vicenda del controllo e dell’utilizzo delle acque.

Nel 1853 una convenzione siglata da Cavour concede a P.A. Nicolay il diritto di raccogliere e incanalare verso Genova le acque dello Scrivia. Già nell’anno successivo ha inizio la distribuzione dell’acqua; a nulla valgono le proteste degli agricoltori tortonesi. Sempre nel 1853 la città di Genova si offre di costruire a proprie spese la strada del Turchino per Ovada in cambio delle acque dei torrenti Stura e Vezzulla. Nel 1868 viene presentata una richiesta di prelievo di 400 litri al sec. dall’alto corso dello Stura, principale affluente dell’Orba.

La svolta decisiva si ha con la costituzione della Società dell’acquedotto De Ferrari-Galliera che, ereditando una concessione del 1869 ai fratelli Bruno, punta a sfruttare le acque che alimentano il Gorzente, nell’area compresa tra la costa Lavezzara, il monte Orditano, il monte Figne, al di là dello spartiacque ma a brevissima distanza dalla val Polcevera.

Nel 1873 ottiene una concessione per derivare 250 litri al m/sec., con un bacino di un milioneduecentomila metri cubi e l’impegno a realizzare un canale di compensazione per restituire 150 litri al m/sec. per la Valle d’Orba. A partire dal 1883 iniziano i grandi lavori di costruzione degli impianti; il prelievo passa a 500 litri al m/sec. e poi a 600, il bacino a sei milioni di metri cubi. Solo in un secondo tempo viene realizzato il lago di compensazione della Lavagnina. I laghi Lavezze, attuale lago Bruno e Lungo, forniscono anche energia per le centrali idroelettriche di Genova, tra le prime in Italia; in particolare a Isoverde sorge la prima centrale per la produzione di corrente continua: una presa dal lago Bruno attraverso una galleria di tremila metri porta l’acqua alle turbine. È così che nel nostro Paese inizia l’era dei serbatoi, le prime grandi infrastrutture sono proprio quelle realizzate per sfruttare le acque del Gorzente, accumulate e convogliate alle turbine per produrre energia.

Nel 1893 la Società avvia la pratica per passare da una concessione di novant’anni ad una concessione perpetua, ottenuta nel 1906. A nulla servono le proteste di contadini ed agricoltori della piana irrigua da Capriata a Boscomarengo che vedono andare in crisi la loro economia (grave siccità nel 1907). Poco prima della prima guerra mondiale il De Ferrari-Galliera completa i suoi impianti con la costruzione del terzo lago: il lago Badana, proprio sotto la costa Lavezzara, ricchissima d’acqua. La capacità complessiva dei bacini arriva a 12.375.000 metri cubi; una vasta porzione di territorio è stata trasformata; la Società intraprende campagne di rimboschimento a base di conifere; i paesi del bacino del Gorzente e del Piota debbono pagarel’acqua al De Ferrari-Galliera.

Per dare un’idea della fortissima pressione genovese sulle risorse idriche del nostro territorio ricordiamo che a fine secolo parte anche il progetto Zunini per la derivazione delle acque dell’Orba alle sue sorgenti che prevedeva originariamente un prelievo di mille litri al m/sec., poi concretizzatosi con la realizzazione della diga di Ortiglieto e la catastrofe del 13 agosto 1935. Un altro versante della modernizzazione che per il territorio dell’Oltregiogo è ancora ampiamente da studiare concerne la privatizzazione dei boschi e, comunque, le contrastate procedure attraverso cui si afferma il concetto di proprietà assoluta. Così le riserve cameralicon la fine della Repubblica di Genova entrano a far parte del demanio e da quel momento gli usi consuetudinari sono fortemente limitati, mentre i comuni perseguono una politica di alienazione nei confronti dei privati lungo tutto l’Ottocento.

Le servitù collettive di pascolo, esistenti da tempo immemorabile su ogni tipo di proprietà, vengono ora sempre più limitate, come ogni forma di uso collettivo della risorsa bosco (foglie per il bestiame, rami per scaldarsi, ecc.). L’economia contadina viene così colpita nelle sue basi storiche ma è tutto un sistema economico-sociale che entra in destrutturazione alimentando un’emigrazione non più temporanea ma definitiva.

A titolo esemplificativo riportiamo i dati sulle cascine del territorio di Campo: nel 1873 se ne contavano più di 200 con circa duemila abitanti, nel 1981 erano ridotte ad una cinquantina, nella maggior parte dei casi abitate solo saltuariamente.

Quanto alle cascine di Marcarolo, che contarono per tutto l’Ottocento circa 500 abitanti, la crisi demografica si sviluppò dopo la prima guerra mondiale e fu irreversibile; dopo il 1960 inizia un vero e proprio tracollo. La proprietà Pizzorno si era sfaldata da tempo, entrando a far parte del grande patrimonio immobiliare del barone Podestà, che si estendeva da Marcarolo a Voltri; quella degli Spinola perse ogni significato economico, divenendo nellaseconda metà del ‘900 poco più di una tenuta di caccia, sino a quando le cascine, in parte ormai diroccate, non vennero vendute alla Forestale e successivamente alla Regione Piemonte (R. Botta, F. Castelli).

La crisi della plurisecolare economia montana è resa con molta efficacia da una testimonianza raccolta dagli autori citati: «Dopo la guerra del ’15 i castagni li han tagliati, cominciavano a seccare, avevano la malattia. Anche in tempo di guerra ne han tagliati, per fare l’acido tannico, facevano gli acidi per la guerra. Ma poi del ’27, del ’28, del ’30 ne han tagliato, oh! avevano un po’ di malattia, ma c’era il commercio, c’era… insomma i padroni han venduto, ma mica dei quintali: qui vendevano dei 600-700 mila quintali! (…) Veniva gli ‘orbaschi’, venivano dall’Orba a tagliare: sceglievano quelle belle, si capisce, quelle indicate per quello che serviva, e poi andavano dentro con la sega, e tagliavano e segavano». (Paolo Merlo, classe 1907, cascina Cascinetta).

Come abbiamo visto i paesi dell’Oltregiogo assunsero una fisionomia completamente rurale solo in tempi relativamente recenti, nei secoli precedenti un insieme di dati ci indica che sia le attività connesse ai trasporti, sia quelle di tipo industriale legate allo sfruttamento del bosco fornivano significative occasioni di occupazione. Nel corso dell’800 anche gli abitanti delle zone montane, a quote in cui non potéimpiantarsila coltura della vite, dilatatasi nelle colline assieme al diffondersi della piccola proprietà, dovettero legarsi al ciclo produttivo agricolo piemontese e lombardo: le migrazioni stagionali verso le terre del Monferrato, della Lomellina e così via, sono tra le poche alternative ad un abbandono definitivo e senza speranza. Per coloro che abitano più vicino allo spartiacque l’avvio dello sviluppo industriale genovese dalla metà dell’800 offre qualche prospettiva occupazionale. In questo caso il pendolarismo, prima della costruzione della ferrovia, è settimanale, ancora lungo gli stessi antichissimi percorsi di sempre.

A dire il vero, la chiusura delle ferriere non determinò la fine immediata della lavorazione del ferro, rimasero in attività un certo numero di fucine che producevano principalmente chiodi, esportati all’estero. Le condizioni di lavoro erano durissime; molti uomini, donne e ragazzi erano impiegati nel trasporto a spalle, da e per la Riviera. E’ l’ultimo, faticoso, ciclo di un’attività che risale alla preistoria.

La durezza delle condizioni di lavoro rende comprensibile il favore con cui fu accolta l’introduzione dell’industria tessile, che, specie per le donne, dava una nuova prospettiva occupazionale. Di contro l’ostilità dei proprietari terrieri che ancora agli inizi di questo secolo cercano di ostacolare l’impianto di industrie che possono offrire occasioni occupazionali alternative e quindi di sottrarre loro il controllo del mercato della manodopera (è quel che succede nell’Ovadese per gli stabilimenti tessili dell’industriale e uomo politico Brizzolesi).

A partire dal ‘700 si comincia ad avere notizie di piantagioni di gelso per l’allevamento del baco da seta. In valle Stura vengono impiantate filande che danno lavoro a donne e ragazze. Ancora sul lavoro femminile e minorile si basa la successiva industria cotoniera. A parte la manodopera, questi impianti sfruttavano le risorse idriche locali. In molti casi essi venivano localizzati in edifici che precedentemente avevano ospitato le ferriere e le cartiere. L’industria serica ebbe poca fortuna, quella del cotone invece riuscì ad avere un certo sviluppo, senza per altro porre basi solide. La crisi degli anni ’30 e la ristrutturazione degli anni ’50 ne segnarono il declino e la progressiva marginalizzazione.

Oggi il Piemonte genovese subisce le conseguenze dell’avvenuta deindustrializzazione ligure; in modo ricorrente si ripresenta il rischio della localizzazione di industrie inquinanti come in Val Bormida ed in Val Scrivia: a livello locale sono pochissime leaziende attrezzate ad affrontare le continue ristrutturazioni tecnologiche ed organizzative.

Sia pure in un contesto completamente mutato, le risorse ambientali, se gestite avendo di mira il bene collettivo, sono l’unica seria garanzia di un futuro vivibile.

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