Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Ecologia e femminismo

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Mi permetto, laicamente e rispettosamente, a inizio di questa mia riflessione ad alta voce, due citazioni da Papa Francesco.

La prima è una frase pronunciata in occasione della Messa celebrata a Santa Marta a Roma il 2 dicembre 2017: 


“ La donna porta l’armonia che fa del mondo una cosa bella”.

La seconda citazione è tratta dall’Enciclica Laudato si’, nella quale Bergoglio cita a sua volta San Francesco quando scrive:

“ La violenza che c’è nel cuore umano si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo tra i più poveri, i più maltrattati e abbandonati c’è la nostra offesa e devastata terra che “geme e soffre le doglie del parto”

San Francesco, Cantico delle Creature.

Dunque la madre Terra, la donna Terra, emblema del dolore e insieme della vita e della vitalità del pianeta.

Per i nativi americani Navaho vi era il culto della Madre Terra e del Padre Cielo e anche tra i popoli andini la Pachamama è la terra, femmina, la grande madre comune, fonte prima della vita, che dà il nutrimento. Molto diffuso in tutto il Sud America è il culto della grande dea generatrice, una delle esperienze spirituali più profonde tra gli indigeni, spesso assimilata e mescolata al Cristianesimo e quindi identificata nella Vergine Maria. E questa Terra, Madre e Natura simbolizza la fertilità delle piante, degli animali e delle donne.

E’ prodiga e tollerante ma di fronte all’indifferenza può ritirare la sua protezione. Proprio come la Natura che talvolta è matrigna. Il contadino andino, prima di tracciare un solco nella Terra Madre chiede il suo permesso. Il primo di agosto in diversi parti del Sud America si festeggia la Pachamama, dove pacha sta per tempo e spazio.

Ho scritto nella locandina di presentazione di questo evento:

“E’ evidente che ecologia e femminismo sono stretti in un abbraccio che genera pensiero critico ma anche la possibilità di partecipare al cambiamento. E’ con i piccoli gesti quotidiani che si dà forza o si indebolisce la nostra vita e lo stesso pianeta. Nella connessione tra femminismo ed ecologia c’è una forte coincidenza tra pensiero e pratica, tra essere e fare, tra ideale a concretezza. La liberazione dalle catene degli stereotipi, dal sessismo e dalla misoginia è anche la liberazione dalle catene che imbrigliano il controllo e lo sfruttamento della natura senza limite e senza misura. Curare l’essenza della propria vita, femminilità e identità di genere, prendersi cura degli altri, curare l’ambiente che è la casa di tutti, vuol dire seminare bellezza e non soccombere alla prevaricazione che distrugge e violenta.

Il senso della frase più nota del movimento delle donne, “il personale è politico”, significa che si parte dalle nostre scelte di vita come donne, dignità, diritti, studio, cultura, lavoro, impegno sociale e difesa del Creato, per fare pace con la terra-natura, per realizzarci come persone, per fare la differenza ed esercitare un protagonismo collettivo in quanto donne che nutre e migliora l’intera società.

Il termine ecofemminismo fu coniato nel 1974 dalla femminista francese Francoise d’ Eaubonne che nel suo libro “Femminismo o morte” si occupava della questione centrale che occupava il dibattito di quegli anni: la risposta alla sovrappopolazione, e alle conseguenze devastanti che avrebbe avuto sul pianeta, stava non tanto nella scelta di non riprodursi, ma nella capacità delle donne di emanciparsi dal “sistema del maschio” per esercitare liberamente il controllo della propria fertilità attraverso la contraccezione e nei casi estremi l’aborto.

La prima convergenza dell’ecologia con la liberazione delle donne è stata quindi la lotta per restituire loro la possibilità di gestire la demografia, ovvero riappropriarsi del corpo.

Storicamente l’eco femminismo ha uno sviluppo eterogeneo.

Esistono tuttavia due correnti di pensiero:

  1. la prima , l’ecofemminismo di tipo classico è essenzialmente spiritualista e considera le donne come biologicamente più vicine alla natura e al suo sistema.
  2. La seconda, cosiddetta costruttivista, cerca su basi più scientifiche di analizzare le condizioni storiche ed economiche nelle varie società.

Teorizza un metodo scientifico nel considerare la condizione delle donne.

Questa diversità di posizioni è stata a lungo studiata in particolare nell’Università di Valladolid in Spagna dove si è coniato il termine di Femminismo illuminato.

In generale il movimento ecofemminista si fa portavoce di una posizione che va oltre le rivendicazioni femminili, i diritti civili, politici ed economici, e anche oltre l’alternativa femminista come alternativa alla cultura maschilista.

L’ecofemminismo si dedica quindi ad affrontare e a superare i modelli discriminatori, attraverso una rivalutazione, una celebrazione e la difesa di tutto quello che la società patriarcale ha svalutato, sottostimandolo in quanto associato a ciò che riguarda la corporeità, le emozioni, la sapienza intuitiva, la cooperazione, l’istinto di cura, la capacità simpatetica e quella empatica. Elementi considerati minori

Mentre il maschile è celebrato perché accostato a concetti opposti:

teoricità, astrazione, intelletto, competizione, dominio e apatia (paradossalmente la scarsa capacità a mettersi in relazione che diventa un merito…).

Per la corrente di pensiero ecofemminista, il fatto che storicamente la proprietà dei terreni fosse maschile ha portato a un patriarcato che si sarebbe successivamente manifestato nell’eccessivo sfruttamento della terra e dei pascoli, nella fine del bene comune, nello sfruttamento delle persone in un’ etica di sfruttamento delle risorse, nella quale gli animali e la terra hanno valore solo come risorsa economica.

Postulando di fatto un nesso diretto tra l’ideologia capitalista, lo sfruttamento delle persone, il degrado ambientale e la proprietà maschile.

Secondo questa teoria, il degrado della natura, in particolare nel Sud del mondo, contribuisce al degrado delle donne rendendo difficili, faticosa, disumana la loro vita.

Un esempio che viene spesso fatto è quello del Kenya, dove le esportazioni di stampo capitalista hanno causato la scelta di monoculture nella maggior parte di terra agricola produttiva.

Ciò ha portato all’intensificazione dell’uso dei pesticidi, all’esaurimento delle risorse, alla perdita della biodiversità, alla diminuzione delle risorse alimentari per le popolazioni autoctone, alla delocalizzazione delle persone, in particolare le donne, verso terreni agricoli meno impoveriti e sfruttati.

Così la deforestazione in Africa, in Asia e in Sud America, pensiamo al polmone del mondo, l’Amazzonia, hanno avuto come conseguenza la perdita di boschi e foreste, di specie animali e vegetali, l’erosione del suolo.

E il degrado ambientale, sappiamo che non qualifica certo la produzione, la sua differenziazione, la sua salubrità.

Per l’ecofeminista indiana Vandana Shiva uno dei compiti dell’ecofemminismo è quello di ridefinire le società, a suo parere dominanti, nelle quali la produttività e l’attività delle donne vengono ritenute passive, se non hanno un’utilizzazione industriale. L’ecofemminsmo dovrebbe, in sostanza, ridefinire i valori sociali e le priorità.

Per esempio un torrente può soddisfare le esigenze di rifornimento idrico di una comunità senza dover essere necessariamente una fonte di produzione di energia elettrica, e così via.

Lei e altre importanti testimoni ci ricordano che la terra l’abbiamo avita in affido per averne cura, e dobbiamo restituirla alle nuove generazioni perché ne abbiano a loro volta cura e amore.

Ci rammenta che ogni volta che si distrugge la terra, un ecosistema, si sta mutando anche la vita sociale di intere popolazioni, si sta violando il diritto di uomini e donne a vivere dignitosamente, si sta negando una vita futura.

Le istanze della cultura ecologica ed ecofemminista cercano di trovare il modo di modificare la teoria della devastazione in nome del profitto , con una cultura del rispetto e con la cura del territorio che abitiamo.

Non possiamo certo prevedere le catastrofi naturali, dice Rossana Piredda, sarda del Comitato Gettiamo le Basi, ma potremmo evitare troppi danni e vittime e fare “manutenzione ambientale” che sarebbe fonte di nuova occupazione , restituire al nostro territorio la propria vocazione turistica e agro pastorale in maniera ecocompatibile. Che vuole dire avere risorse necessarie per vivere dignitosamente con una nuova economia che valorizzi le risorse energetiche, culturali, economiche e sociali che possono essere redistribuite in maniera equa.

Equità dunque è una delle parole chiave dell’eco femminismo.

Rossana Piredda vive in un isola, la Sardegna, che ha subito l’occupazione del suolo e del mare da parte di basi militari, con la Maddalena ceduta agli USA e utilizzata anche per la sosta di sottomarini nucleari. Ora i soldati americani se ne sono andati ma le bonifiche promesse per risarcire anni di occupazione non sono mai state fatte.

Che cosa è rimasto in quei magnifici fondali non è dato sapere.

Altra Sardegna: Salto di Quirra, Perdasdefogo, poligono militare interforce dove anche attualmente si sperimentano le nuove armi, dove le persone si ammalano, gli animali nascono deformi e nonostante le commissioni d’inchiesta sull’uranio che ha contaminato i terreni e le falde acquifere continuano gli esperimenti sulle armi di diffusione di massa. Di questo si occupano le donne dei comitati.

Sono di grande interesse nel libro “L’ecofemminismo in Italia” curato da Franca Marcomin e Laura Cima, le tante esperienze di donne attive nei movimenti e nelle associazioni ambientaliste, nei Comitati per la difesa dell’Ambiente e del Territorio, contro il nucleare, per l’acqua pubblica, le mamme della Terra del Fuoco, quelle dell’Ilva di Taranto che combattono per aumentare la speranza di vita dei loro bambini e di tutta la popolazione, le donne per la Pace e il Disarmo, le donne No Tav e quelle che si sono opposte al Tunnel del Brennero, alla Valdastico, le donne che in Valsugana si sono battute per aria e ambiente pulito quando è esplosa la vicenda della discarica abusiva ed anche le grandi criticità su ambiente e salute dovute ai fumi delle Acciaierie di Borgo Valsugana. Una piccola Ilva sul nostro territorio.

E poi le donne venete e anche trentine dei Comitati per la Salute della val di Non e di malosco, contro i pesticidi e per un’agricoltura biologica, ispirata al principio della salubrità dei luoghi, della salute di produttori e consumatori, della qualità del prodotto, della difesa del paesaggio. Le donne dei Gas, che si consorziano e mettono in comune conoscenze, attenzione al cibo, alla sua qualità, alla provenienza, che fanno rete e permettono alla comunità di rimanere unita in nome della sostenibilità alimentare

E poi le donne artigiane, le contadine, le pastore, quelle che coltivano e raccolgono le erbe, che trasformano le materie prime, forti di antiche e nuove conoscenze.

Tutte quelle quelle che tornano agli antichi mestieri, alla terra, alla difficile economia di montagna, che si impegnano in nuove nuove forme di turismo, diffuso, rispettoso, qualificante dei luoghi, dei paesaggi, del territorio e delle sue eccellenze, a portata di tutti e di tutte la tasche, in tutte le stagioni, contro il consumo usa e getta del territorio, quelle che ne conservano l’identità, le storie, le leggende, le biografie familiari e lo fanno in modo generoso, per metterla in comune, confrontarsi con quelle altrui. Che imparano e innovano mentre conservano, nobile parola da rivalutare nella sua accezione positiva. Parola divenuta suo malgrado rivoluzionaria.

E che dire delle tante donne impegnate nella battaglia, da noi vinta in Trentino, contro gli inceneritori?

Di tutte coloro che si occupano della riqualificazione e rigenerazione delle periferie, delle madri, insegnanti, cittadine che, soprattutto al Sud, si battono contro l’illegalità, contro le mafie, per il recupero dei luoghi ma soprattutto dei ragazzi coinvolti nel malaffare.

Che dire della maestre, e dei maestri, di strada che quotidianamente cercano di portare istruzione, civismo, creatività, cultura in ambienti deprivati e degradati, consegnati alla criminalità organizzata?

Sono davvero tante le donne che in prima persona si impegnano a difendere il proprio territorio dalle cementificazioni e dalle grandi opere inutili, dagli inquinamenti, per la messa in sicurezza degli edifici e dei corsi d’acqua, per le bonifiche, per i rifiuti zero, per i beni comuni (materiali e immateriali), per il recupero delle tradizioni e delle buone pratiche.

Per l’energia sostenibile e la salute del corpo e della mente. In un protagonismo femminile collettivo di cui forse neppure le stesse donne sono pienamente consapevoli. Ma la loro impronta al femminile si riconosce dentro questi grandi movimenti e momenti partecipativi che, nel tempo, hanno caratterizzato come particolarmente ricettivo,attivo e vivace il fronte della democrazia dal basso. Qui e nel resto del mondo.

E che dire delle tante donne insegnanti che soprattutto nella scuola primaria hanno lavorato all’insegna della formazione delle giovani generazioni? Leggo alcuni stralci, l’incipit, dal “Manifesto per l’Educazione ambientale del Futuro” che è del 2007 ma ancora incredibilmente attuale.

“Farsi nativi, riflettere sui luoghi, ritrovare radici, conoscenze, tradizioni, saperi della memoria. Farsi raccontare le fiabe, le antiche narrazioni del genius loci. La scuola all’aria aperta, quella che io nel mio libro Ciao maestra ho definito “il territorio come aula scolastica, deve saper recuperare, riparare, riusare (Langer, diceva che urge riparare il territorio), con l’ago e il filo della conoscenza aggiungo io, e del rispetto.

La cultura e anche la cultura materiale, deve salvare mondi, narrazioni perdute, lingue tagliate. Deve sottrarle al rimpianto, portarle al futuro.

L’educazione naturale si muove, porta con sé la sfida del viaggio, che è apertura all’altro, al nuovo, è incontro con lo straniero. E’ educazione globale che guarda all’uomo come specie tra le specie e lo considera abitante dello stesso pianeta.

Parliamo ai ragazzi attraverso i luoghi, parliamo di Korokocho, la discarica umana al centro di Nairobi, in cui vivono tre milioni di persone, rifiuti umani a loro volta, in Africa, dove si muore di fame, sete, guerre siccità e a causa dei cambiamenti climatici;

parliamo loro dei continenti di plastica che galleggiano sugli oceani. Portiamoli poi a fare visite guidate, ma non solo nei parchi e nei musei della nostra bella nazione, delle nostre belle città.

Portiamoli anche a visitare le periferie delle nostre città, gli alveari di cemento, gli enormi ipermercati incapsulati l’uno nell’altro, in cui sciamano folle di aspiranti consumatori. Veri e propri non luoghi, templi sacralizzati dall’urbanesimo di una cattiva modernità in cui svaniscono le relazioni di vicinato,insieme ai negozi di vicinato, il legame solidaristico si allenta in un progressivi deterioramento dei mondi vitali comunitari.

Facciamo scoprire loro come sono diventati i mari, le montagne, i deserti.

Facciamo scoprire che scarseggia l’acqua, che il suolo geme per l’illegalità (aspettiamo ancora una legge nazionale sul consumo di suolo, forse nel prossimo Parlamento), i rifiuti, il cemento, che il carico complessivo delle attività produttive e degli stili di vita stanno producendo la progressiva sparizione di migliaia di specie animali e vegetali, il degrado forse irreversibile delle foreste e delle zone umide, la perdita della biodiversità, e, con essa, di tutta la bellezza, la potenza e la ricchezza della vita.

Facciamogli insomma comprendere quanto è radicale la crisi e come, nel Terzo Millennio, l’umanità si trovi ormai a un bivio.

Proviamo perciò a insegnare lo sdegno e un atto di responsabilità verso il futuro, il futuro inteso come principio di speranza, come progetto collettivo capace di dare un destino sostenibile all’individuo, alle specie, al vivente tutto. Proviamo ad insegnare il senso del limite, unito al principio di precauzione.

L’eco femminismo e il corpo delle donne

Il termine ecofemminismo fu coniato nel 1974 dalla femminista francese Francoise d’Eaubonne che nel suo libro “Femminismo o morte” si occupava, come già detto, della sovrappopolazione del pianeta e dunque della contraccezione e, nei casi estremi, dell’aborto.

La prima convergenza dell’ecologia con la liberazione delle donne è stata quindi la lotta per restituire loro la possibilità di riappropriarsi del corpo.

Dagli inizi degli anni ’70 prende le mosse la rivoluzione sulla salute, e ricordo in particolare il contributo delle donne del collettivo di Boston che coincide con la pubblicazione di un testo che fu molto importante per noi ragazze di allora: “Noi e il nostro corpo”. Fu una vera e propria rivoluzione, come un sasso gettato nello stagno della medicina autoritaria, da sempre organica al potere e strumento di controllo sociale.

L’autobiografismo, la storia semplice delle donne, delle ragazze, in chiave di genere entra così a piè pari nel discorso sul sapere medico al femminile, di cui gli uomini avevano detenuto la chiave sino a quel momento.

Si prospetta la possibilità di un punto di vista “altro” rispetto alla scienza, smascherandone la finta neutralità e l’ingannevole oggettività epistemologica della sua conoscenza.

L’Italia fu una sede particolarmente ricettiva e avanzata di questo mutamento di prospettiva , portando in luce il corpo delle donne, quel corpo violato e leso che nella pratica arcaica e ininterrotta del procurato aborto vedeva il suggello di una secolare subalternità e assoggettamento.

Furono gli anni delle lotte delle donne nelle strade e poi in Parlamento con il drappello capitanato da Adelaide Aglietta e che produssero la riforma del reato contro la razza, ancora importante con il famigerato Codice Rocco, e la legalizzazione di una pratica incivile e mortifera, come era stato l’aborto clandestino, praticato per lo più da mammane, in condizioni igieniche e con modalità disumane, che nel peggiore dei casi potevano anche causare la morte, nei migliori infezioni e sterilita O venivano praticati a pagamento da medici senza scrupoli, più raramente da medici e ginecologhe che aiutavano gratuitamente le donne, correndo grossi rischi. Le più benestanti andavano all’estero, Londra fra tutte.

Furono anche le lotte per la cosiddetta liberazione sessuale, per l’affermazione di una sessualità al femminile, separata dalla procreazione grazie all’avvento dei contraccettivi, in particolare della pillola. E per una maternità consapevole, voluta e possibilmente condivisa dalla coppia. Ma quando questo non accadeva venivano rotti gli schemi dei figli partoriti altrove, nascosti e poi dati in segreto in adozione, lasciati negli orfanotrofi. Anche una donna single poteva avere e crescere un bambino, magari con l’aiuto di altre donne quando veniva a mancare il sostegno parentale.

Si cominciò anche a parlare dell’ecologia della nascita, e della gravidanza, si costituirono gruppi di ostetriche con lo scopo di seguire le donne dalla gravidanza al travaglio, in situazioni non necessariamente ospedaliere e medicalizzate: riflessioni plurale intorno al modo di nascere.

Considerando che proprio la nascita fosse uno dei momenti clou nei quali il potere maschile si esercitava sulle donne, espropriandole dei propri saperi.

Alcuni ginecologi in Francia e in Italia, tra cui Braibanti e Loboyer e Odent si misero al servizio delle donne e di una nascita dolce e non violenta. Posto che l’85% dei parti è fisiologico e a basso rischio, mentre normalmente si invertono le cifre, si metteva sul tappeto l’importanza di un patto forte tra donne e ostetriche democratiche che sancisse un governo femminile sulla scena del parto. Perché le donne potessero affidarsi non solo alle competenze ma anche alla capacità relazionale della donna che le aiutava a partorire e che aveva condiviso con lei un pezzo di strada.

Ma non fu solo la legge 194 del resto l’unica conquista per la salute delle donne che nell’anno 1978 scandì l’affermazione di una cultura democratica della salute, che aveva attraversato e profondamente trasformato il paese.

Ci fu anche la legge Basaglia, la 180, che riguardava il corpo e la mente di tanti uomini e di tante donne intrappolate nella loro fatica di vivere e a volte rinchiuse forzatamente nei manicomi perché considerati non conformi (pensiamo al caso di Alda Merini ), con cui si decretò, primi nel mondo la chiusura degli ospedali psichiatrici,

E poici fu la legge 833, istitutiva del Servizio nazionale universale e solidaristico.

La vittoria schiacciante del referendum abrogativo della 194 rese comunque ulteriormente tangibile l’evoluzione della coscienza civile nel paese, un paese a larga maggioranza cattolico, che si voleva immaginare ancora retrivo e che invece mostrò che la legge aveva accompagnato e non preceduto, la chiara volontà di tutti e delle donne in particolare.

Purtroppo, i quarant’anni che ci separano da quel mirabile 1978, invece di prospettarci una progressiva crescita in quel solco, sembrano spesso ricacciarci indietro in un ombra più fitta.

Pare che la conquista dei diritti non sia per sempre e che essa non corrisponda interamente alla capacità di goderne e di esigerli, se pure siamo ancora in grado di considera.

Ecofemminismo, le donne Verdi nelle istituzioni.

Ecologia e femminismo dunque.

Penso che le donne Verdi nelle istituzioni abbiano portato, oltre ai contenuti, uno stile politico. Quello del confronto, del dialogo, del rispetto della persona, e dell’avversario, della capacità di approfondire e di non fermarsi alle apparenze, di occuparsi davvero di ambiente, ecologia, città, cittadini nel loro contesto di vita.

Franca Marcomin, Verde storica a co-autrice del libro “L’ecofemminismo in Italia. Le radici di una rivoluzione necessaria”, sintetizza così il suo pensiero.

“Affinché le donne non siano i famosi fiori (selvatici) all’occhiello di chicchessia, politici, sindacati, partiti, istituzioni) ci si deve chiedere quanto questa esperienza di donne, e di donne Verdi, abbia modificato le istituzioni, cioè quanto è possibile che le istituzioni diventino luoghi non solo neutri/ maschili, ma anche luoghi in cui agendo la nostra differenza di sesso/genere si modifichino le regole anche a partire dal patrimonio eco-pacifista che abbiamo scelto e che ci propone di ecologizzare il modo di far politica e di porre la centralità su temi quali l’ambiente, la pace, la convivialità delle differenze.

Questo pensiero riconduce la nostra identità di donne:

  • ad un appartenenza di genere, cioè alla fedeltà a quello che si è prima che a qualsiasi altra appartenenza
  • alla pratica di relazioni tra donne per cambiare il mondo, riconoscendo valore alle altre donne e costruendo una narrazione femminile simbolica e reale valorizzante, che non abbia come paradigma solo l’emarginazione e la fatica di vivere
  • alla visibilità della libertà femminile, cioè del desiderio di abitare il mondo come donne
  • alla necessità di affermare la nostra differenza non contro qualcuno (tipico del rivendicazionismo) ma per qualcosa, per una società bisessuata, cioè anche a nostra misura.

Non “imparare” i vizi della politica maschile, aggiungo io, spesso muscolare, superficiale, prevaricante, il suo linguaggio (politichese) che spesso nasconde pochezza di contenuti, la scarsa propensione a “studiare”, imparare, spesso la presunzione e una supposta superiorità, tutto ciò è ecologico per la qualità del nostro agire. E’ fondamentale.

Anche questo è ecologia, ecologia della politica, anche questo è eco femminismo.

L’ecofemminismo salverà il mondo?

Su questa domanda, inesauribile come il vaso di Pandora, si è concentrato il confronto vivace degli ultimi anni. Il convegno Fare pace con la Terra, del giugno 2017 ha sancito quello che con uno slogan efficace è stato definito come Green is the new pink.

Sancisce di fatto la potente sinergia che negli ultimi quarant’anni ha intrecciato la vocazione ambientalista con l’impegno femminista, tanto da generare una vera e propria cultura ecofemmnista, in cui si sono trovate rappresentate sia le battaglie per la difesa dei valori e dei diritti delle donne, sia quelle per la salvaguardia della natura, della salute, della vita.

Ma la storia è complessa, molte sono le espressioni per definire il rapporto tra donne e natura, tra identità di genere e consapevolezza ecologica.

Così come complessa è la relazione tra pensieri e pratiche, elaborazioni teoriche e intenzioni politiche.

Coloro che hanno scelto di operare attivamente per il cambiamento dei sistemi socio-economici, che erodono incessantemente il pianeta , con una velocità distruttiva mai vista prima nella storia dell’umanità, e soffocano la vita dei singoli, non solo umani ma di tante altre specie viventi, hanno contribuito a a una rivoluzione potente per quanto forse poco visibile.

Ed è dal corpo, il limite individuale per eccellenza, che parte il rapporto primigenio delle donne con la natura.

Una natura intesa tradizionalmente come femmina, e la donna sin dall’antichità vista come natura, come tale, risorsa da sfruttare.

Da qui la convergenza dei diritti delle donne con i diritti della Terra, uniti dal medesimo bisogno di liberazione , dal quale è nato, tra gli anni ’70 e ’80l’eco femminismo.

Fin dalle origini, il movimento ecofemminista ha individuato nella società patriarcale e capitalista le radici delle profonde crisi alle quali stiamo assistendo , che hanno prodotto disastri ambientali, climatici, umanitari e un intreccio di ingiustizie e oppressioni.

Negli ultimi decenni, le tante riflessioni delle donne del movimento femminista ed ambientalista si sono concentrate sulla critica dello sviluppo a cui è necessario opporre un modello di decrescita, necessario per colmare quelle disparità ormai destinate a non risolversi nel tempo se non con radicali cambiamenti di un sistema socio-economico che ha polarizzato uomini e donne in termini di produzione e riproduzione.

All’interno di queste dinamiche le donne ricuciono i guastip materiali e sociali, curando gli effetti delle violenze e provvedendo ai più deboli, con una sensibilità e una tenacia che hanno avuto effetti concreti nella realizzazione di stili di vita più sostenibili per tutti.

All’insegna di questo impegno comune, che si è diffuso tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo, frutto di una politica globale di buone pratiche che hanno purtroppo scarsa ospitalità nei mass media e limitata rappresentanza istituzionale, le donne di tutte le parti del mondo che operano in un’ottica di di cambiamento, pacifista e non violento, rappresentano quotidianamente un’etica delle responsabilità individuali nelle relazioni.

Sono stati condotti studi da organismi internazionali che hanno comparato gli svantaggi delle donne rispetto agli uomini, valutandone le ripercussioni sulle potenzialità negate non solo alle donne ma all’intera dinamica sociale.

Così ci si interroga, e non sono solo le donne a farlo, su come gli aspetti globali potrebbero essere diversi, meno squilibrati e più equi, se le donne avessero modo di esercitare pienamente le loro capacità.

Sono state anche create proiezioni quantitative attraverso indicatori di vulnerabilità sociale collegata con il concetto biofisico di vulnerabilità ambientale.

Che le donne siano soggetti più vulnerabili degli uomini, a rischi e violenze è indubbio, soprattutto in contesti di povertà e disuguaglianza, come è altrettanto evidente che i cambiamenti climatici e le guerre in atto non fanno che aumentare la gravità di tali condizioni, rendendo ancora più difficile e lontana la realizzazione dei diritti di base delle donne e la loro emancipazione.

Ricordo un articolo su Le monde diplomatique, riportato tempo fa dal Manifesto. Narrava che l’universo femminile è il più colpito dai disastri ambientali e dai cambiamenti climatici. L’autrice dell’articolo, Janet Biehl, ricorda che ogni anno, secondo il Women’s Enviroment Network, più di diecimila donne, contro 4500 uomini, trovano la morte in seguito a disastri ambientali o a sconvolgimenti climatici. Non solo, su 26 milioni di persone che negli ultimi anni hanno perso la casa in seguito a catastrofi naturali, 20 milioni sono donne. In Africa si dice che donne portano sulle loro spalle il mondo.

Ciononostante le donne stanno tornando ad essere le protagoniste dei processi di cambiamento. Il World Economic Forum di Davos ha sottolineato come siano le donne le figure più incisive nella lotta ai cambiamenti climatici, ecologiste e femministe insieme. Donne divenute popolari e famose come Vandana Shiva e Wangari Maatai, ma anche tante altre meno conosciute, che alla realizzazione di un ideale hanno dedicato la loro vita e che, talvolta, per questo hanno pagato con la vita , come la primatologa Dian Fossey, morta nel 1985 per proteggere i suoi gorilla sui Monti Virunga o la militante ecologista Berta Caceres , assassinata nel 2016 in Honduras.

Mentre tante persone in tutto il mondo ragionano di decrescita, applicando nel loro quotidiano buone pratiche e attivando così quel cambiamento che appare sempre più necessario e che è entrato nella sensibilità comune, d’altra parte si assiste spesso ad un atteggiamento opposto da parte di governi, mass media, istituzioni politiche ed economiche.

Citando il titolo del libro della scrittrice inglese Eva Figes qual è allora “Il posto delle donne nel mondo?”

La risposta la avremo solo lavorando per una ridefinizione tra donne e uomini dei compiti e dei modi e dei tempi della produzione e della riproduzione, equilibrando i ruoli di genere al di là degli stereotipi.

Reinventando così la vita delle persone e dell’ambiente.

Nel mondo incerto e complicato in cui viviamo, l’attività, l’esempio, la testimonianza individuale per smuovere governi ed istituzioni diventa sempre più importante e necessaria.

Ciascuna, ciascuno di noi ha bisogno di capire in quale modo condividere i propri talenti, le proprie doti, le capacità, la passione mettendole al servizio della causa ambientale, sociale, civile che tutti ci riguarda.

Come affermava già nel 1983 la femminista Joanna Macy, “All’interno del contesto di un corpo grande, o rete vivente, la Madre Terra, i nostri stessi sforzi individuali possono apparire trascurabili, é difficile misurarne la portata. Eppure a causa della natura sistemica e interattiva della rete , ogni atto si riverbera in essa secondo modalità che non ci è dato vedere. E ognuno, ognuna di noi può essere fondamentale per la salvezza del mondo.

Concludo come ho iniziato, con le parole, a mio avviso bellissime, di San Francesco: comiciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile e, all’improvviso, vi sorprenderete a fare l’impossibile.

Testo tratto da “Marea”, ecofemminismo: Rivista trimestrale Genova

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