Con questo numero la rivista arriva alla soglia dei venti anni, principalmente per lo stimolo costante di Giorgio Nebbia. L’idea rimasta invariata nel corso del tempo è di fornire materiali utili, e quando possibile, mettere a fuoco il rapporto tra ambiente, tecnica, società, utilizzando come principale chiave interpretativa la prospettiva storica. In questo senso, avendo come orizzonte privilegiato se non obbligato quello della contemporaneità, ci sembra interessante partire da una riflessione sul ’68, oggetto di un articolato seminario presso la Fondazione nel 2017-18 (le registrazioni video sono a accessibili sul canale YouTube “Fondazione Luigi Micheletti”), e possibile termine di riferimento per cogliere continuità e cambiamenti. A partire dal fatto che a cinquant’anni di distanza dal ’68 si ripropone, con maggiore radicalità e urgenza, la questione dell’impatto sull’ambiente della società, della tecnologia sulla natura. Premesso che in questo testo ci si riferisce a tecnica per indicare una costante storica su base antropologica e a tecnologia per significare l’industrializzazione della tecnica, senza entrate in più complessi problemi concettuali, è innegabile che i cambiamenti avvenuti da quel tornante siano stati enormi; la distanza dagli eventi e movimenti appare sempre più grande, incolmabile per le giovani generazioni, anche perché non c’è e non ci può essere trasmissione della memoria. La continuità storica è stata lacerata, sommersa da una comunicazione istantanea e onnipervasiva che prescinde dalla conoscenza e fa leva sulle emozioni. Sembra così possibile vivere in una realtà virtuale, in un film autoalimentato, fantasmagorico e inconsistente. La tecnologia digitale, che rende possibili guadagni giganteschi per pochi, lavora sui corpi e sulle menti, è l’interfaccia universale tra i singoli e il mondo. La perdita di contatto con la realtà, la convinzione che l’unica realtà sia quella della comunicazione digitale, definiscono la situazione in cui ci troviamo.
La tecnica, dalla posizione umile e subalterna che occupava nelle civiltà del passato, è riuscita ad imporre il suo primato. Questo passaggio non è stato adeguatamente colto dai movimenti degli anni ’60 e ’70, che non hanno saputo elaborare un pensiero critico e un’azione conseguente sui due fronti cruciali e interconnessi della tecnica e dell’ambiente. Per altro le culture politiche prevalenti erano anche più arretrate e inadeguate, avendo un impianto fondamentalmente positivistico ottocentesco, ovvero si erano forgiate nella catastrofe della Prima guerra mondiale, in cui, per la prima volta in modo sistematico, la potenza della tecnologia annientava su scala industriale i corpi, le menti e sconvolgeva gli ambienti, i teatri di guerra. Era l’anticipazione di sviluppi successivi, sia che si producessero in forma concentrata (guerra), ovvero diluita ma soggetta a costante accelerazione (pace).
Nel ’68, sia in Italia che altrove, era prevalente una posizione tecnofila, in modo aperto e consapevole, oppure, più frequentemente, senza alcuna riflessione, semplicemente come constatazione di un fatto: la tecnica, divenuta tecnologia industriale, con le sue sempre più frequenti novità, designava il panorama del mondo, un dato oggettivo di cui si doveva prendere atto. Il problema era unicamente politico, dipendeva da chi controllava, indirizzava, traeva profitto dallo sviluppo, reso possibile dall’innovazione tecnologica. Non erano del tutto assenti, sia a livello sociale che intellettuale, posizioni tecnofobe, talvolta apocalittiche, più spesso di tipo new age. Quel che accomuna tali atteggiamenti, pur nelle grandi differenze, è la mancanza di un pensiero storico critico sulla tecnica e l’innovazione tecnologica, relegato ai margini dagli apologeti, in grande maggioranza, e visto con fastidio dai nemici della modernità, i reazionari espliciti o mascherati.
Una valutazione in sostanza analoga si può fare per quanto riguarda il ’68 e l’ambiente, in evidente dissonanza con l’emergere dell’ecologia, da disciplina marginale a inaspettato, ingovernabile, problema politico. Il marxismo del ’68, poco utile per una analisi critica della tecnologia, finisce con l’essere del tutto sviante rispetto all’emergere sempre più incalzante di una colossale, seppure variamente banalizzata, questione ambientale, sotto forma di inquinamento delle matrici vitali, consumo di risorse scarse, attacco sistematico alla biodiversità, semplificazione e uniformazione del paesaggio naturale e costruito. Anche una delle analisi più informate, quale quella condotta da Dario Paccino in L’imbroglio ecologico (1972), viene usata come alibi per rimandare il tutto a dopo la presa del potere, alimentando l’illusione di un facile e taumaturgico superamento del capitalismo e con esso dei problemi ambientali.
In sostanza le posizioni prevalenti nel ’68 su tecnica e ambiente sono di scarsa utilità per affrontare il presente, nonostante che proprio allora si sia reso manifesto il nodo che sempre più stringe alla gola l’umanità e ne pregiudica il futuro: lo squilibrio al momento incolmabile tra la potenza della tecnica e la difesa dell’ambiente, con la consustanziale e irrisolta anzi crescente disuguaglianza sociale, interna e esterna ai vari stati. In tale quadro sono tanto più interessanti e meritano di essere fatte riemergere o scoperte le esperienze e riflessioni, che già negli anni ’60, o prima, hanno saputo mettere a fuoco l’analisi critica della tecnica e le dimensioni radicalmente nuove della questione ambientale a fronte della crescente industrializzazione del mondo. Con tutti i limiti è questo l’asse principale su cui si colloca “Altronovecento”.
Una diversa valutazione deve essere data del ’68 a proposito di altri temi, non meno rilevanti o attuali. Il primo è quello della guerra. Nonostante ogni ingenuità e unilateralismo, l’opposizione alla guerra è stata centrale nel ’68, sia per quanto riguarda i conflitti locali, e però di dimensioni gigantesche per impiego di armamenti, quale quella del Viet-nam, sia contro il dominio del Terrore, reso possibile, e persistente, per la presenza degli arsenali atomici. Quel pacifismo ha avuto un’incidenza politica, in ogni caso ha colto nel segno; per molti versi è perfettamente attuale, anzi è inaggirabile perché l’annientamento per via abbreviata nell’attuale caos geopolitico è una eventualità altamente possibile, rispetto a cui le difese culturali appaiono molto basse. Dopo le mobilitazione spontanee avutesi, specie in Occidente, in occasione della prima e soprattutto seconda guerra del Golfo (2003), è subentrata rassegnazione e indifferenza, con il concorso decisivo del terrorismo fondamentalista, merce di prima qualità per il circo mediatico.
Altrettanta sfortuna gode l’altro e forse maggiore carattere del ’68: il suo universalismo. I movimenti del ’68, a partire dal loro stesso manifestarsi, avevano al loro centro un afflato e per molti aspetti una consapevolezza di natura universalistica. Non erano lotte e rivendicazioni locali o di ambito nazionale, questa era la scena da cui emergevano ma l’attenzione e la prospettiva erano verso il mondo, nonostante i limiti nella conoscenza e i miraggi che ostacolavano e deformavano lo sguardo. In questo senso il ’68 era più attrezzato e adeguato alla crescente, inarrestabile, unificazione del mondo, di quanto lo siano i sostenitori o i critici dell’assetto sociopolitico attuale. Gli mancavano strumenti essenziali di comprensione, balbettava sul terreno a cui aveva attribuito valore strategico, quello della vita quotidiana, dei rapporti tra i singoli individui e tra i sessi, aveva però fatto un passo decisivo, quello del riconoscimento della medesima condizione umana, della necessaria realizzazione dell’universalismo.
È palese la natura duplice del ’68, con una faccia rivolta al passato e una al futuro. Paradossalmente era l’elaborazione politica, la sfera intellettuale, che pensava con le categorie del passato, mentre la realtà del movimento incarnava il futuro, viveva il portato di trasformazioni rispetto a cui si poneva in termini critici se non antagonistici, in primo luogo una quotidianità dominata dai consumi, e una politica svuotata di significati. Pur nella sua ambivalenza e l’apparente distanza dal presente, ci pare legittimo assumere il ’68 come soglia di riferimento da cui far iniziare la contemporaneità. In ogni caso risulta difficile negare che da quegli anni alcune dinamiche, quelle che maggiormente interessano “Altronovecento”, subiscono una crescente accelerazione. In particolare quella tecnologica – dal microprocessore alla digitalizzazione illimitata -, a quella ambientale – di cui si prende atto con fatica -, all’impatto sociale di questi enormi e rapidi cambiamenti.
Risulta invece ben poco creativa e propositiva la politica affermatasi dopo la sconfitta del ’68, una volta esaurita la spinta alla democrazia diretta generalizzata, a causa dell’indebolimento delle capacità di azione e immaginazione degli individui, portati al centro della scena ma sovrastati dal cambiamento incessante che investe sia l’ambiente che la tecnica. Ne risulta la riproposta di vecchie se non nefaste formulazioni, accomunate dall’antiuniversalismo, già sperimentate in Europa con esiti disastrosi nella prima metà del Novecento. L’incapacità di rapportarsi in termini critici, non reazionari, alla tecnica e ugualmente la mancanza di una base culturale adeguata per affrontare la crisi ecologica, con il moltiplicarsi di ricette parziali e superficiali, ha tenuto in vita due illusioni: quella dello sviluppo illimitato e quella del capitale autoregolantesi. Non importa qui ribadirne l’essenza radicalmente ideologica, ripetutamente accertata, bensì prendere atto del loro pieno fallimento, evidenziato dalla cosiddetta crisi economica del 2008, e anni a seguire. In realtà una crisi di civiltà che nessuna ricetta economica potrà risolvere.
In ogni caso è una prospettiva infondata quella che affida il futuro nelle mani della tecnologia, ovvero della tecno-scienza, in quanto potenze irresistibili che, lasciate liberamente operare, senza impedimenti e resistenze umane, tracceranno il cammino del futuro, risolvendo, per tentativi e errori, i dilemmi delle generazioni a venire. Una tale fede ingenua, ammesso che sia esistita, e per quanto numerosi possano essere i suoi adepti all’inseguimento di un vuoto simulacro, è, nella sostanza, definitivamente crollata. Rappresenta un lusso che non possiamo più permetterci. E’ imperativo combattere contro le filosofie che assolutizzano la tecnica, sia in senso negativo che positivo. Bisogna piuttosto prendere atto della fragilità della tecnologia, cioè della tecnica nella sua fenomenologia attuale. Essa, in quanto tale, non è in grado di costruire nulla di saldo e duraturo, piuttosto, come è sotto gli occhi di tutti, una società dell’insicurezza e del rischio. Esemplificando: la tecnologia digitale è intrinsecamente instabile, necessita di aggiornamenti continui, dipende totalmente dalla disponibilità di energia. Può essere uno strumento utilissimo o il suo opposto, dipende da come la si utilizza. Per altro non tutte le tecnologie sono neutre, alcune, vedi le armi, sono intrinsecamente distruttive. La deterrenza, come loro uso “pacifico”, ha l’effetto di addormentare le coscienze e mantenere incombente la guerra.
I cultori dell’esistente, in primo luogo gli intellettuali pubblici nella loro grande maggioranza, sono pronti a argomentare, in termini che ritengono realistici, – ma sono incarnazioni del dottor Stranamore -, l’eternità e insuperabilità della guerra. La tesi è nota: gli uomini hanno sempre avuto nella loro disponibilità e come finalità la distruzione del nemico, in prospettiva l’autodistruzione. I fatti sembrano dar loro ragione ma sappiamo che non è così: la vera guerra non è più possibile se non come ultima e finale, eppure anche questa constatazione rischia di avere un effetto narcotizzante. Delega ad altri, ben poco raccomandabili, le sorti dell’umanità. Da queste sommarie considerazioni si può dedurre che, a maggior ragione, non appaiono esserci le basi intellettuali e morali per cogliere una opportunità che ci è data, avendo come presupposto la portata storica inedita, il novum assoluto, della crisi ecologica, riassumibile nella distruzione per via pacifica, non tanto della Terra, come argomentano i più oltranzisti o visionari, ma dell’umanità, sia in senso letterale che facendone qualcosa d’altro, esseri disumani o post umani.
La difficoltà a percepire la situazione estrema in cui siamo finiti, e di lì far discendere pratiche e comportamenti conseguenti, deriva dal fatto che la crisi ecologica globale mette fuori gioco tutte le ideologie politiche ereditate dalla modernità e rimaste in campo in forma spettrale; in questo vuoto solo le religioni, a lungo inerti o consenzienti, sembrano aver colto la posta in gioco e una opportunità di rilancio. Lo stesso dicasi per le culture altre da quella occidentale. Ma siamo ai primi incerti passi, in piena asincronia rispetto ai tempi storici accelerati della megamacchina che cresce su se stessa. In questa lotta impari le ragioni della critica hanno un alleato invincibile che, per altro, se scende pienamente in campo non consentirebbe di vincere la partita ma solo di azzerarla, come nel caso della vera guerra. La storia è stata costruita su un canovaccio principale: l’azione degli uomini sulla natura, tutto il resto può essere magnificato o detestato ma ha ben poca consistenza. Se in altri tempi e civiltà quel che si perseguiva, in genere con scarsa attenzione per la vita di chi stava in basso, era una difficile armonia tra storia e natura, con la modernità la storia forgia la natura. Solo che, in modo tanto evidente quanto inaspettato, la natura retroagisce sulla storia -anche solo con un piccolo aumento della temperatura globale-, il che imporrebbe una riconversione, l’auspicata conversione ecologica, rispetto a cui l’impreparazione è quasi totale o del tutto parziale, con vistose azioni di rigetto, in alto e in basso.
Eppure tutti i giochi non sono ancora fatti, non si può lavarsene le mani argomentando che la partita è persa. Esistono delle vie d’uscita, non comode ma possibili, purché non si tenti di barare al gioco. In primo luogo è necessario prendere atto e consapevolezza di quel che è avvenuto e delle cause, riconoscibilissime, che hanno determinato la crisi. Su questa base analitica, costantemente da aggiornare, si possono argomentare e sperimentare le opportunità, non ripetibili, che, paradossalmente, la rottura senza precedenti nel nostro rapporto con la natura, con colpe e responsabilità enormemente differenziate, ci offre in questa epoca altrimenti priva di speranza.
Esemplificando sommariamente, si pensi alla sempre più irrisolvibile questione del lavoro, non senza connessioni con l’utopica ma sacrosanta aspirazione ad un lavoro liberato dallo sfruttamento, oppressione, insensatezza. L’avanzare sui binari consueti dell’innovazione tecnologica, calata nei processi produttivi, distributivi e dei servizi, determina uno svuotamento strutturale, disomogeneo, del lavoro vivo. I lavoratori sono soggetti a una polarizzazione crescente tra una fascia superiore, sempre più ristretta, che gode non tanto di diritti quanto di redditi, mentre al di sotto si estende la precarietà e la totale incertezza sul proprio futuro. Una condizione neoservile che penetra all’interno delle aree tradizionalmente protette se non corporative. L’altra faccia della medaglia è data dalla moltiplicazione dei lavori insensati, frutto delle necessità di controllo sociale e burocratico. La disoccupazione tecnologica, i lavori a rischio, e l’alienazione accompagnano la marcia delle aree e paesi di successo nell’attuale panorama economico. Ne consegue che un numero crescente di persone o è privo di un lavoro sicuro o svolge lavori di per sé insoddisfacenti, nocivi, o è privo di ogni opportunità di lavoro, un bacino enorme a cui può attingere ogni forma di criminalità.
Le cose vanno molto peggio nei paesi e territori arretrati, abbandonati, o soggetti a processi neocoloniali di sfruttamento delle risorse naturali e umane, con la cancellazione delle forme agricole tradizionali. Questi sviluppi comportano in tempi storicamente ravvicinati la produzione di 2-3 miliardi di persone inutili, prive di lavoro, in fuga o in completa miseria. Quindi sia nei paesi ricchi, con le loro crescenti disuguaglianze interne, che in quelli poveri le pur encomiabili politiche di sostegno e solidarietà, ai diversi livelli, in forme tradizionali o nuove, sono intrinsecamente inadeguate ad affrontare la questione del lavoro oggi. La conversione ecologica è l’unica possibilità reale di creare su ampia, amplissima scala lavori nuovi, utili e soddisfacenti, in caso contrario si aggravano e radicalizzano i processi distruttivi e regressivi in atto.
Un tale passaggio volto a rovesciare il primato assoluto dell’economia, effettivamente perseguito in contesti diversissimi nella massima frammentarietà e per ciò con limitata incidenza, necessita di precondizioni impegnative che solo l’evidenza dell’interconnessione e del precipitare dei tempi della crisi, seppure oscurata dalla fittizia sfera mediatica, può rendere operative su scala sociale, oltre l’esempio e la testimonianza. La prima condizione è l’abbandono della concezione naturalistica del capitale. In altri termini dell’idea che il capitalismo non sia una formazione sociale storicamente determinata e transeunte ma uno stato di natura insuperabile. Sul tema si rimanda a un lavoro nato all’interno della Fondazione: il recente volume Alle frontiere del capitale, Fondazione Luigi Micheletti – Jaca Book, Milano 2018, in cui si analizza, con varie chiavi interpretative, l’organizzazione della vita e della società da parte del capitale. Tra i temi rilevanti il fatto che l’universalismo si sia concretizzato in globalizzazione, con crescenti disuguaglianze e caos geopolitico, e che il nazionalismo, quale risposta regressiva a tale esito, abbia alimentato il razzismo di massa, negando nei fatti e in principio l’uguale dignità di tutti/e, di ciascuno/a.
Non è affatto detto che nei tempi necessari prenda forma una consapevolezza adeguata e si traduca in operatività politica, sorretta da concezioni e comportamenti in forte discontinuità con il passato. Ma ciò è ancora possibile. Forse deve sotterraneamente manifestarsi un istinto di sopravvivenza collettivo, una solidarietà diffusa per resistere ad un pericolo estremo. Lo scenario è radicalmente mutato rispetto al passato quando la debolezza degli uomini di fronte allo strapotere della natura determinava uno stato di necessità; oggi siamo posti di fronte alla possibilità di scegliere. E’ una responsabilità singolare e collettiva, seppure distribuita in modo diseguale, e però l’esempio non verrà da chi ha il potere ed è maggiormente responsabile dello stato di cose presenti. Qui si manifesta una continuità storica, il vero cambiamento nasce presso chi accetta i limiti della condizione umana, ed è capace di compassione e fratellanza.
In questo fascicolo alcuni dei temi qui evocati o solo sfiorati vengono approfonditi, come nel testo di apertura di Piero Bevilacqua sull’ecologia del tempo. La riproposta di un paio di contributi di Nebbia incentrati su Georgescu Roegen è un invito a non dimenticare i fondamenti, l’orizzonte, entro cui collocare le diverse scelte di politica ambientale, il rapporto tra economia e biologia, storia e natura; in tal senso una lettura sempre da suggerire è quella di Karl Polanyi su cui scrive Fiorenzo Martini. La questione è quella del limite, posta con forza attorno al ’68 dal riformismo illuminato di Aurelio Peccei, analizzato da Luigi Piccioni. Proposte che oggi appaiono utopistiche e che, al contrario, sarebbero vitali nella terra desolata dello sviluppo illimitato; esse debbono nutrirsi di una visione prospettica sulle trasformazioni delle città (e delle campagne). La riscoperta di Henri Lefebvre, al di là degli specialismi, a cui si sta dedicando Francesco Biagi procede in tale direzione. Ma le città e ogni forma urbana, dalle più concentrate alle più disperse, debbono fare i conti con la disponibilità e utilizzo di energia; l’attenzione per il solare e la sua storia ha caratterizzato questa rivista anche quando appariva ai più una pura curiosità erudita. L’ampia scheda di Cesare Silvi su Karl Wolfgang Böer aiuta a saperne di più, se non altro in considerazione delle scelte in corso presso alcuni paesi strategici.
Non è però sul piano tecnico che si giocherà la partita principale. I diversi fattori in campo, tra cui quello tecnologico, convergono e vengono sintetizzate nella cultura, nel conflitto tra le visioni del mondo, quale che sia la loro ricchezza o povertà. La cultura decide dell’egemonia (usando il linguaggio gramsciano) e l’egemonia si decide sul terreno della cultura. Si tratta però di cambiamenti culturali antropologici, che investono alla radici la costituzione (o dissoluzione) dei soggetti. Qui l’incontro più fecondo di futuro è stato quello tra l’ecologia e il femminismo, anch’esso riconducibile al ’68, in polemica però con le culture politiche allora prevalenti nel movimento di contestazione. Il percorso di Petra Kelly, esemplare e tragico, oggetto della ricerca di Valentina Cavanna, aiuta a capire, conoscere, non dimenticare. I filoni ecologismo, pacifismo, femminismo, variamente coniugati, sono presenti in altri interventi, come quelli di Lucia Coppola e Gian Andrea Franchi.
Si tratta di percorsi controcorrente perché non solo la memoria di vicende presenti e attuali, come nel caso dei Verdi in Germania, ma l’intera incalzante crisi ecologica vengono di norma marginalizzate e banalizzate. Si comprende così lo sconcerto suscitato dall’enciclica papale Laudato sì., specie quando si è capito che non si trattava della riproposta di vecchie prediche a cui credenti e non credenti prestano un’attenzione distratta. Papa Francesco facendo onore al suo nome entrava nel merito delle scelte fondamentali, rilanciando l’attualità della conversione ecologica e non solo. Si è così aperta una nuova fase del suo pontificato, con una crescente ostilità verso il papa che osava mettere in discussione la way of life così ampiamente condivisa da fedeli e infedeli. Il contributo di Grazia Francescato fornisce le coordinate per collocare l’enciclica e il portato dei temi che affronta, in termini religiosi e del pensiero ecologico e pacifista.
Nonostante il carattere programmaticamente, e di necessità, fortemente miscellaneo è possibile individuare nell’intero fascicolo temi ricorrenti e tra loro collegati. Segnaliamo quello della scuola, con il testo di Donata Miniati su una delle numerose e poco conosciute esperienze che fortunatamente ne innervano l’esistenza, tra difficoltà d’ogni genere; quello del lavoro attraverso la scheda dovuta a Roberto Finelli sul lavoro femminile, e con la riproposta di uno dei testi più importanti scritti da Luigi Mara, straordinaria figura di lavoratore, tecnico, intellettuale, animatore di una delle vicende più alte delle lotte operaie degli ultimi decenni. Sulla fenomenologia pervasiva della guerra contemporanea si soffermano Enzo Ferrara e Carlo Tombola. Nella selezione di Documenti si consiglia di leggere o rileggere, innanzitutto, la lettera dal carcere di Birmingham di Martin Luther King.