Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Fine delle risorse e risorse senza fine

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L’emersione della crisi ecologica, a livello di ecosistema globale, avviene nel passaggio tra gli anni Sessanta e Settanta sotto forma di allarme lanciato da ambienti imprenditoriali e scientifico-tecnologici per l’esaurirsi incombente delle risorse naturali di portata strategica – in primo luogo il petrolio.

Si chiude il ciclo trentennale di sviluppo collegato alla guerra mondiale e si aprono scenari inediti. I rimedi proposti configurano un anticipo della green economy, l’incentivazione del risparmio e di uno stile di vita austero, la diminuzione della pressione demografica. Più in generale, per fronteggiare la scarsità delle risorse, senza perdere il benessere reso possibile dalla società industriale, si propone una regolazione programmata e razionale nell’uso dei beni naturali.

Fatta eccezione per l’andamento demografico, per altro dovuto a dinamiche storico-sociali di più lungo periodo, la risposta effettiva alla paventata crisi delle risorse si è sviluppata in direzione antitetica rispetto a quella propugnata dalle élites riflessive dell’epoca (Club di Roma, ecc.). Le motivazioni potevano essere anche molto diverse ma la scelta fu di operare come se le risorse naturali fossero illimitate – e comunque ancora in gran parte da scoprire e utilizzare.

Ciò avvenne con un rilancio in grande stile del capitalismo, reso possibile dal ruolo centrale assegnato al consumo. Il che consentiva di ottenere consenso politico e neutralizzazione dell’”eccesso di democrazia”. A tal fine però al consumo non dovevano essere posti dei limiti; il lusso e lo spreco dovevano tendenzialmente generalizzarsi; soprattutto, non si doveva impedire di desiderare di consumare sempre di più.

Si può quindi dire che la questione delle risorse esauribili, non più solo su scala locale e nazionale, ma, per la prima volta, in dimensione planetaria, abbia ricevuto la più netta delle ripulse, registrando la vittoria di un capitalismo capace di far sognare.

Però i fatti sono ostinati e il sogno deve essere alimentato da guerre permanenti per renderlo possibile, a partire dal controllo dei giacimenti di petrolio (lato materialistico dello scontro di civiltà). Ma non è solo ciò che sta a monte del ciclo produttivo a creare problemi e tensioni di varia natura bensì anche quel che ne risulta dopo il suo impiego, dal lato della produzione e del consumo.

Il sommarsi della questione della scarsità relativa delle risorse naturali nelle economie industriali sviluppate con quella dell’inquinamento dell’ambiente, per effetto del loro utilizzo intermedio e finale, fa sì che la crisi ecologica si insedi stabilmente nell’orizzonte del mondo contemporaneo. Si tratta allora di capire perché essa viene generalmente banalizzata, aggirata, marginalizzata. L’Italia è anche in questo un laboratorio eccellente, ma il processo di rimozione ha dimensioni ben più grandi e profonde.

La risposta al disastro della guerra e alla sua inquietante chiusura comportò una prima grande rimozione: la Bomba era una minaccia eccessiva, andava al di là delle capacità intellettuali ed emotive, per cui venne rimossa dalla quotidianità. Contestualmente ci fu una straordinaria mobilitazione di energie collettive, all’origine di uno sviluppo economico senza precedenti, soprattutto nei paesi maggiormente colpiti dalle distruzioni belliche. Ben pochi erano (e sono) disposti ad ammettere che tale sviluppo miracoloso si stava rovesciando in una minaccia insidiosa e pervasiva, se non in una vera e propria distruzione della natura.

La modernità in Europa era stata inaugurata dalle “scoperte geografiche” e dalla rivoluzione scientifica che avevano proiettato l’uomo su spazi senza fine, mettendo a disposizione ricchezze illimitate. A partire da quella rivoluzione intellettuale, l’Occidente aveva conquistato il mondo. Adesso la minaccia nucleare e quella ecologica segnalavano che quella storia era finita. Ma se questa è la realtà, meglio una libertà immaginaria che guardare in faccia una realtà fallimentare.

Nondimeno gli effetti negativi, depressivi, della questione nucleare e di quella ambientale si assommano tra di loro producendo senso della fine, melanconia, sindromi apocalittiche, ovvero rinserramento in un presente assoluto e tossico: quello dei media. Gli effetti positivi, che presuppongono il coraggio etico e politico di fare i conti con il lato oscuro del nostro presente, sono invece disaccoppiati.

La paura di fronte allo strapotere incontrollabile della Bomba ha comunque dato origine ad un movimento importante di contestazione e dissenso guidato dai migliori scienziati dell’epoca. Più in generale la questione nucleare ha alimentato una discussione sulla tecnica e il potere di dimensioni mondiali, non circoscritta alle élites ma capace, forse per l’ultima volta, di coinvolgere le persone comuni, che prendendo atto della necessità di porre dei limiti alla potenza sembrano intenzionate a voler costruire assieme il futuro.

Le risposte di fronte alla minaccia della crisi ecologica, al rischio rappresentato dalla fine, artificialmente indotta, dei beni e risorse naturali, sono state di segno completamente diverso e, nella sostanza, regressive. In senso letterale quando si traducono in una fuga dalla modernità ma anche quando si presentano esteriormente con altri abiti. In particolare occorre sottolineare l’adesione acritica, e spesso la vera e propria deificazione della tecnica, a cui si affida la soluzione di ogni sorta di problema, compreso quello ambientale. Non ci sono risorse limitate a fronte di una tecnologia capace di innovare incessantemente se stessa investendo ogni ambito della vita.

Il passaggio dal limite all’illimitato, un vero salto di paradigma, risulta in modo evidente in una prospettiva storica. L’operare tecnico-pratico dell’ homo faber, del lavoratore della tradizione, trovava il suo limite nella capacità di  modellare il mondo ovvero nella resistenza che questo gli opponeva (al limite anche con il manifestarsi di crisi ecologiche locali). E’ solo con la saldatura di scienza-tecnica-industria avvenuta nell’ 800 e dispiegatasi nel 900 che il processo di trasformazione del mondo subisce un’accelerazione senza precedenti. E’ nel clima di entusiasmo per la civiltà della tecnica che si afferma la tesi secondo cui tale civiltà rappresenta la manifestazione della vera natura dell’uomo e del destino dell’Occidente.

La teoria critica argomenta che la struttura fondamentale della ragione occidentale è incardinata sul dominio della natura, ridotta a oggetto manipolabile, a risorsa liberamente e illimitatamente utilizzabile, in ragione del progredire della capacità di conoscere e trasformare la natura, ridotta ad oggetto della tecnica e dell’economia.

La potenza della tecnica industriale sull’immaginario deriva dal fatto che in tutti gli altri campi della vita umana (etica, politica, religione, ecc.) si ha a che fare con un concetto costitutivo di limite. Solo con la tecnica sembra possibile, in linea di principio, aspirare all’illimitato, e realizzare nei fatti un’azione che si espande all’infinito. Così la tecnica promette di dare sostanza ad un presunto istinto umano per l’illimitatezza. In realtà tale  istinto è un prodotto storico-culturale dell’età dell’industrializzazione, ed è possibile, anche se difficile, pensare e realizzare una tecnica centrata sul limite e capace di confrontarsi con la crisi ecologica.

In effetti non tanto il carattere illusorio del dominio sulla “seconda natura” ma l’inaspettata impossibilità e irrazionalità del dominio sulla prima natura è il varco attraverso cui può riaffermarsi, ad un livello superiore e pienamente cosciente, il legame degli uomini con l’ambiente naturale e la consapevolezza del rispetto del limite e del carattere costitutivo e fondativo di tale concetto. Adottando questa prospettiva, ne risulta che l’azione prometeica della tecnica industriale ha compiuto la sua traiettoria in un tempo breve e travolgente, avente come esito la possibilità concreta della distruzione della Terra o, almeno, dell’umanità.

Nonostante ciò, per le ragioni individuate con più forza di ogni altro da parte di Gunther Anders, gli uomini non sono stati all’altezza della sfida e non hanno saputo guardare in faccia la realtà, affidando la loro sorte allo sviluppo illimitato dell’economia e della tecnica, anche se ciò ha prodotto la spiacevole conseguenza della crisi ecologica, che, per altro, secondo i più, solo la tecnica potrà  risolvere.

Ad oggi la convinzione diffusa è che la tecnica consenta di fare qualsiasi cosa mentre gli uomini non sanno più fare nulla. Gli intellettuali critici sono considerati inutili o dannosi, mentre l’intelligenza scientifica si dedica, non solo secondo Gunther Grass, al programma di ricerca “Distruzione dell’umanità” (Grass 2007).

Come il capitale allo stato puro diventa denaro che produce denaro (D-D’), così la tecnica si autonomizza liberandosi dalla subordinazione verso gli uomini e la natura, divenuti suoi prodotti, puri artifici. L’euforia tecnofila vi scorge la realizzazione dell’annunciata fine della preistoria, in altri alimenta il senso della fine e la ricerca capillare di alternative forse non irrilevanti ma invisibili.

Il senso della fine del mondo nella contemporaneità ha un fondamento empirico e una data ben precisa: 6 agosto 1945. Da quel momento la possibilità tecnica, quindi effettuale, della distruzione della specie umana, se non della vita in quanto tale sulla Terra, è all’ordine del giorno.

Tale possibilità ha avuto i suoi effetti “benefici”, come molti non si stancano di evidenziare, nel senso che ha determinato una inversione nella tendenza in atto verso la guerra totale: una tale guerra non è più possibile e in ogni caso non può essere raccontata. Quel tipo di racconto finisce con la II guerra mondiale. È vero però che non ne inizia uno veramente nuovo. La militarizzazione della scienza, la sua riduzione a tecnica a servizio del potere, la centralità dell’industria militare, il massacro mirato o indiscriminato dei civili, la guerra asimmetrica del terrorismo, la stessa proliferazione nucleare, si sono imposte come politiche di successo. Ma l’utilizzo degli arsenali atomici, più volte sfiorato, minacciato, auspicato, non c’è stato. E però in un contesto che lo mantiene sempre di attualità e ne fa tuttora il perno dei rapporti di forza internazionali: la storia non è finita ma il suo cammino si svolge costantemente sotto il segno della fine.

Innegabilmente tutto ciò è stato efficacemente, forse di necessità, oscurato. I dibattiti politici, le attenzioni delle opinioni pubbliche, i messaggi veicolati del sistema della comunicazione vanno in tutt’altra direzione. Quando non ci si distrae su questioni (erroneamente) considerate poco serie, quel che tiene banco è l’economia, coniugata con ogni altro ambito della vita e forma di attività. Ultimamente è tornata qualche attenzione anche per l’industria e il lavoro, già considerati obsoleti e residuali. Ed è proprio al sistema produttivo – in enorme espansione su scala globale – che si deve guardare se si vuole riflettere sulla questione delle risorse e del loro utilizzo a fini pacifici.

Il sistema produttivo industriale, fallito l’esperimento sovietico, ha trovato nel capitalismo il suo indiscusso ambiente d’elezione e si è dimostrato capace di superare ogni vecchia barriera, limite, scarsità. Secondo alcuni ha superato anche se stesso, divenendo post-industriale, immateriale. Tutto ciò è opinabile, ma innegabilmente l’industrializzazione della tecnica ha prodotto trasformazioni e sviluppi incommensurabili rispetto al passato preindustriale, rivelando potenzialità senza limiti.

Ci sono però molteplici risvolti che rendono il quadro meno roseo e unilineare. Nei precedenti assetti produttivi riconducibili alla tradizione, in cui anche l’agricoltura non era affatto uniforme, statica e ripetitiva, le conseguenze ambientali della produzione, o cultura materiale, erano perfettamente conosciute, anzi costituivano il cuore stesso del modo di produrre. Di qui le stupefacenti conoscenze botaniche, e del territorio in generale, riscontrate presso certi “popoli selvaggi”. Al contrario, le conoscenze sulle implicazioni ambientali dello sviluppo tecnologico, specialmente delle produzioni chimiche, sono estremamente esili, limitatissime 

(Neri Serneri 2009: 21). Non è vero che viviamo in una economia della conoscenza e in una società in cui “alle conoscenze scientifiche sfugge per ora solo solo quel fantastimiliardismo di secondo che precede il big bang” (Flores d’Arcais 2009).

Molto più produttiva è l’attenzione crescente che da più parti si sta rivolgendo al continente del “non sapere”, in quanto rovescio inaggirabile dello sviluppo tecnico-scientifico. Anche l’insistenza sulla dematerializzazione come percorso in atto per alleggerire la pressione sulle risorse non trova molti riscontri empirici. Si prenda il caso dell’Italia, Paese da tempo in lento declino industriale. I dati Istat consentono una stima attendibile sui flussi di materia nell’economia italiana: essi registrano un incremento del 31,8% per il periodo 1980-2004. Ne consegue che la “dematerializzazione” è stata solo apparente” (Neri Serneri 2009: 56-57), figuriamoci ora che la risposta alla crisi ha come unica ricetta concreta l’incremento dell’edilizia pubblica e privata, con l’effetto di divorare porzioni sempre più ampie di territorio.

Sul versante dei materiali di scarto i dati sono estremamente nebulosi. Non si conosce la quantità dei rifiuti prodotti e di quelli smaltiti. In specifico per quelli più pericolosi, “tossici e nocivi”, si sa che le potenzialità di smaltimento (circa 1,5 milioni di tonnellate) sono largamente insufficienti, quindi o vengono esportati o smaltiti in modo illegale (il grande affare della camorra napoletana, sotto forma di cooperazione criminale Nord-Sud).

Nel campo delle politiche industriali la novità è costituita dal rilancio, dopo oltre venti anni di moratoria, del nucleare civile, con la costruzione, si dice, a brevissimo termine delle prime centrali. Il ritorno al nucleare fotografa esemplarmente la situazione italiana e sarà un potente acceleratore del caos in cui viviamo, soprattutto grazie al ruolo che vi svolgeranno i media. Il nucleare civile viene presentato come una assoluta necessità per poter mantenere in vita l’attuale economia consumistica. L’argomento è falso ma altamente sintomatico, infatti il ruolo ideologico del nucleare è molto più importante dell’apporto energetico che può dare Si tratta innanzitutto di un’opzione culturale e politica volta a contestare la tesi di una possibile fine delle risorse e a rintuzzare il tentativo di porre dei limiti ecologici all’economia.

Il rilancio immediato del nucleare, utilizzando tecnologie notoriamente superate, si rivelerà anti-economico per la collettività, allo stesso modo della precedente fallimentare vicenda degli anni ’50 – ’80. Esso renderà però possibili grandi affari, un più rigido controllo militare del territorio, l’inserimento dell’Italia tra i Paesi che non solo detengono o ospitano armi nucleari ma contribuiscono alla loro produzione.  In ogni caso l’obiettivo principale è di natura politico-ideologica: il nucleare ci fornirà energia senza fine per lo sviluppo illimitato, questo è il cuore del messaggio ingannevole lanciato al popolo dai consumatori.

Nel campo delle risorse energetiche il nucleare svolge lo stesso ruolo che il sistema della comunicazione assegna alle biotecnologie per quanto riguarda le risorse alimentari: superamento per via tecnologica degli insopportabili vincoli che l’uomo dovrebbe rispettare per non mettere a repentaglio la biosfera, rinunciando al dominio sulla natura.

L’ingegneria genetica, saldando la manipolazione tecnologica della vita alla commercializzazione dei prodotti della ricerca, rappresenta un buon esempio pratico delle conseguenze anti-ecologiche del progresso scientifico e delle sue applicazioni industriali al servizio dell’economia capitalistica. L’aumento della quantità delle risorse alimentari avviene a scapito della varietà, contribuendo in grande stile alla diminuzione della biodiversità.

            È uno dei fronti su cui è possibile registrare un effetto entropico vistoso, quindi una accelerazione in termini empirici del cammino verso la fine, sottratto alla percezione psicologica e alla manipolazione delle cifre.

In questa dinamica incontrollata le risorse sono sempre più scarse ma si agisce come se fossero infinite. Al contrario, con l’ecologia assunta come paradigma, la consapevolezza dei limiti ricolloca la vita nella sua ricchezza senza prezzo, al centro di una scena che è oggi totalmente occupata dall’economia, quale che sia lo spirito in cui si traveste e si manifesta.

La presa d’atto dell’operatività della crisi ecologica e dell’incapacità degli Stati e delle agenzie internazionali da essi promosse ad affrontarla e superarla, alimenta l’elaborazione di una nuova politica, al momento del tutto teorica, che ha come asse centrale l’idea della gestione collettiva delle risorse naturali limitate. Proprio perché le risorse fondamentali per la vita: la terra, l’acqua e l’aria sono limitate e messe in pericolo dall’espansione senza limiti dell’industrializzazione estensiva e intensiva, nonostante ogni possibile crisi, esse debbono essere riconosciute come beni comuni pubblici.

A partire da tale assunto, questa nuova politica estende il concetto di bene comune essenziale anche al sole e alla conoscenza, nel senso che l’accesso a questi beni in cui, non solo simbolicamente, è racchiusa l’energia materiale e intellettuale per il futuro della vita umana, non dovrebbe essere limitato dall’assetto capitalistico dell’economia e della società.

Risulta evidente che attraverso queste formulazioni, sia pure in filigrana, si ripropone la questione del comunismo a distanza ravvicinata dal suo fallimento. Si tratta quindi di proposte destinate a rimanere teoriche, ovvero utopiche, il che non vuol dire affatto campate per aria. Diciamo che oggi non ci sono le condizioni per renderle operative, ma le situazioni nel nostro mondo cambiano imprevedibilmente e rapidamente.

Al momento, in ragione della egemonia incontrastata dell’economia, l’ecologia per farsi intendere è costretta ad usare un linguaggio economico, così per richiamare l’attenzione sul concetto chiave dell’ecologia politica, quello di limite, e nello specifico di risorse finite, si parla di capitale naturale. Ciò per far presente che il fattore limitante primario, da assumere nella sua consistenza materiale inaggirabile, è dato dall’insieme delle risorse naturali e non dalla produzione di merci materiali e immateriali. Se nella loro produzione si spezzano i vincoli e le compatibilità ambientali, in attesa della creazione di un mondo totalmente artificiale, la vita peggiora complessivamente anche per gli umani. Il peggioramento è però terribilmente classista e ciò spiega molte cose.

L’altra faccia dell’economia dei consumi e dello spreco delle risorse è infatti costituita dalla penuria e dalla fame. Le due cose sono connesse e incompatibili. Esse rappresentano il luogo reale dello scontro di civiltà. Per gli uni il precetto è di non cambiare stile di vita e di consumare e lavorare indefessamente per consentire all’economia di funzionare, ovvero, quando è in crisi, di riprendersi. Per gli altri mancano continuamente anche le risorse minime per garantire la sopravvivenza.

            Questi due universi non sono mai stati del tutto separati, anzi secondo alcuni c’è un rapporto storico-genetico tra abbondanza e penuria. I popoli che oggi fanno la fame, non sono, come succede nell’immaginario razzista, gli eredi e discendenti di generazioni di affamati e assetati. In ogni caso vengono percepiti come pericolosi concorrenti. Le risorse illimitate per i virtuosi consumatori del Nord diventano subito insufficienti se si affacciano al banchetto le torme dei diseredati. Di qui la ferocia crescente delle misure di contenimento dei clandestini, che debbono fungere da forza-lavoro illimitatamente disponibile, per il resto semplicemente scomparire, in quanto di per sé criminali. È un fatto però che i due universi non si possono più tenere separati. Con la globalizzazione il capitalismo ha fatto il passo più lungo della gamba?

Nel Novecento l’ossessione per l’insufficienza delle risorse, a partire da quelle alimentari, ha innestato sia nella Germania nazista che nell’Unione Sovietica politiche genocidarie in grande stile. In ogni caso la contraddizione tra risorse illimitate per pochi e mancanza di risorse per troppi è tanto vistosa e lacerante quanto apparentemente irrisolvibile.

Gli sviluppi possibili sono sostanzialmente due: o la riedizione, come in forma larvata sta avvenendo, delle politiche novecentesche di repressione, deportazione, eliminazione; ovvero l’inclusione progressiva attraverso l’inserimento di questo nuovo proletariato mondiale nel ciclo di produzione e consumo, e quindi una nuova espansione del capitalismo. Inutile dire che nella pratica si pensa di poter realizzare un mix più o meno efficace tra le due formule.

Considerato il carattere ignobile del razzismo non si può che auspicare un’ulteriore diffusione del capitalismo espansivo e inclusivo. Il problema è che tale via è impraticabile. Già adesso l’inserimento della Cina e dell’India nel modello occidentale, appena agli inizi dal lato dei consumi, comporta un impatto fortissimo sul versante energetico-ambientale. La prospettiva, nemmeno a lungo termine, è che il tecno-sistema, auto-petrolio, con l’inserimento della Cina e dell’India sia destinato a schiantarsi (Marchisio 2009).In sintesi, la causa non può essere anche la soluzione del problema.

Lo stesso ragionamento deve valere, in termini più ravvicinati, per quel che riguarda la crisi economica mondiale, abbattutasi senza che i detentori dei saperi esperti abbiano saputo minimamente prevederla, anche perché attivamente impegnati a causarla. La tesi prevalente è che la crisi sia un fenomeno normale e inevitabile, anche se doloroso, nel contesto di un’economia capitalistica; un fenomeno pressoché naturale e già noto. Si tratta di applicare, con più o meno efficacia, ricette monetarie e finanziarie,  comportanti la distruzione di immense quantità di denaro,  per far ripartire la macchina che, con soddisfazione generale, potrà riprendere il suo cammino senza fine (Gaggi 2009: IX).

Non mancano coloro che hanno considerato la crisi come un’opportunità per introdurre un’innovazione risolutiva, che sinora è stata tenuta ai margini e vista con diffidenza, nonostante l’insistente richiamo alla sostenibilità ambientale. Ma la sostenibilità, pur usata con flessibilità e disinvoltura, rimanda all’idea di limite, se non di fine dello sviluppo. Al contrario la conversione ecologica dell’economia, la green economy propugnata da Obama, promette la sussunzione dell’ecologia nell’economia; ed è quindi una proposta forte e nello stesso tempo coerente con l’immaginario progressista: lo sviluppo ci sarà ma con un uso intelligente della tecnologia e nella consapevolezza di limiti non aggirabili, almeno in questa fase storica.

Per alcuni la green economy è una strada obbligata, per altri lo strumento per riconquistare un’egemonia messa in discussione. Non è difficile prevedere che sarà rimarginalizzata con la ripresa del ciclo economico. In Italia non è mai stata presa in considerazione, anzi tutte le scelte di fondo, ampiamente condivise, sono andate in direzione esattamente contraria.

Sostenendo che la green economy consiste nella sussunzione dell’ecologia nell’economia non si vede – e non per caso – che ciò è già avvenuto da tempo. Come argomenta Hans Immler nella sua Economia della natura, il grande passaggio epocale è avvenuto con l’unificazione di due vicende tra di loro parallele e interagenti, ma che avevano propri tempi e dinamismi separati: quella delle società umane e quella dell’evoluzione naturale. Con il pieno dispiegarsi della tecnologia industriale, l’evoluzione generale del pianeta viene incorporata nella macchina della produzione. L’unificazione è avvenuta sotto il segno dell’economia, della sua generalizzazione ad ogni ambito della vita. L’egemonia incontrastata dell’economia ha avuto l’effetto di sottomettere non solo la società ma, tendenzialmente, la natura alle leggi economiche, in concreto al capitalismo. Lo strumento di questa sottomissione è stata la tecnologia industriale, mentre le conoscenze ecologiche sono servite ad individuare i danni  più che a proporre rimedi e nuovi assetti nel rapporto economia-natura, utilizzo delle risorse naturali, trasformazione dell’ambiente all’interno di una visione ecosistemica locale e globale.

L’economia, facendo leva sulla tecnica, non può che mirare alla crescita illimitata, perseguendo nei fatti un’artificializzazione-desertificazione del mondo. Sullo sfondo permane l’inquietudine di fronte alla capacità della tecnica di penetrare nella vita, con una differenza rilevante tra l’uomo e l’ambiente.

 La tecnica, nella sua presa di possesso del mondo, deve fare i conti con l’ambiente, e noi, utilizzatori e possessori della tecnica in questa fase storica siamo costretti a prendere in considerazione delle retroazioni indesiderate, del tipo cambiamenti climatici. Al contrario l’applicazione della tecnica sull’uomo, questa forma inedita di biopotere, non trova  ostacoli al suo pieno esplicarsi, se non d’ordine morale o culturale, per altro niente affatto univoci. Il lavoro sul corpo, attraverso un mix tecnologico che si rifà alle scienze informatiche, biologiche, neurologiche, consente non solo interventi sempre più efficaci e pervasivi ma la creazione di una sorta di interfaccia in continua espansione tra gli individui e l’ambiente circostante. In prospettiva il prolungamento illimitato della durata della vita umana, una forma grottesca di immortalità, sembra essere il “miracolo” perseguito da questi cultori del post-umano.

In una posizione intermedia tra l’uomo e l’ambiente vengono a trovarsi gli animali, essi infatti subiscono processi di distruzione-cancellazione che non hanno nulla a che fare con la selezione naturale, e sempre più sono ridotti alla condizione di animali-macchina, puri riproduttori in serie di materia vivente. Questo tipo di industrializzazione sta comportando rischi esemplificati dalle nuove pandemie (mucca pazza, aviaria, influenza suina). La riduzione generalizzata degli animali a materia prima, disponibile illimitatamente, è contrastata debolmente ma tenacemente dal diffondersi del sentimento del rispetto della vita, che trova nel rapporto empatico, emotivo, con gli animali superiori un canale per affermarsi, se non altro come forma di antropocentrismo critico, anche nella cultura occidentale.

I suoi interpreti e critici più profondi hanno ritenuto indispensabile fissare un confine invalicabile tra gli uomini e gli animali, ma oggi il rischio di un riassorbimento nella natura, nella pura animalità, è infinitamente minore di quello della distruzione ad opera della tecnica al servizio della produzione e del consumo. Sembra allora che la rigida distinzione tra Welt Unwelt, mondo abitato dagli uomini, e ambiente in cui vivono rinserrati gli animali, debba essere ripensata.

Grass, G.,2007, L’etica dello scrittore, Medusa, Milano.

Neri Serneri, S., 2009, Industria, ambiente e territorio, Il Mulino, Bologna.

Flores d’Arcais, P., 2009, “La ragione della democrazia”, Il Manifesto, 23 agosto.

Neri Serneri, S., cit.

Sartorio, L., 2008,“L’energia nucleare in Italia”, Il Mulino 6: 1043.

Marchisio, D., 2009, “Se la Cina viaggiasse come noi”, Il Manifesto, 31 luglio.

Gaggi, M., 2009, La valanga, Bari, Laterza.

Convegno internazionale “Il senso della fine” 10-11-12 settembre 2009, Collegio del Tridente, Urbino

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