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Un commento su diossine e affini

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L’importante studio di Federico Valerio: “ DIOSSINE, AMBIENTE E SALUTE”, Dicembre 2008, mette a fuoco, con una mole considerevole di dati, una delle problematiche ambientali che, a partire dal disastroso incidente all’Icmesa  di Seveso del 1976 e dagli effetti cancerogeni e teratogeni del defoliante Agente Orange usato dagli Usa nella guerra del Vietnam tra il 1961 e il 1970, ha visto giustamente un fiorire di studi e ricerche a livello internazionale che ha prodotto ormai una sterminata letteratura scientifica.

Lo studio di Valerio si propone, dunque, di fare il punto sulle conoscenze disponibili  dell’attuale produzione e dispersione di diossine in ambiente, lasciando sullo sfondo l’eredità del passato industriale depositato nei diversi territori dai processi dell’industria chimica che hanno avuto come effetto collaterale la produzione di diossine (PCB, triclorofenolo, pentaclorofenolo, clorobenzeni, e altri composti organici del cloro…). Vogliamo qui riprendere solo due aspetti della vasta trattazione di Valerio, il “caso Brescia” e  il sistema TMB per il trattamento dei rifiuti.

Il “caso Brescia”

Brescia, insieme a Taranto, è citata come una delle realtà più critiche del nostro Paese, perché su questo territorio insistono impianti industriali ritenuti fonti importanti di immissione in ambiente di diossine (acciaierie e metallurgiche da rottame; un grande inceneritore di rifiuti urbani e speciali).

Correttamente Valerio sottolinea come i dati sulle emissioni di diossine dall’inceneritore Asm-A2A

siano da prendersi con la dovuta riserva. In effetti l’inceneritore di Brescia, in oltre 10 anni di funzionamento, ha goduto di una sostanziale assenza di controlli, per quanto concerne i microinquinanti, da parte della struttura pubblica ad essi deputata, l’Arpa. Negli anni ‘94, ‘96 e ’97, mentre l’inceneritore era in costruzione,  furono svolte tre campagne di campionamenti del territorio bresciano (città e comuni dell’hinterland), a cura dell’Asl di Brescia, finalizzate a conoscere lo stato dei suoli prima dell’avviamento dell’inceneritore per quanto riguarda la presenza di diossine, PCB e metalli pesanti, al fine di stabilire il cosiddetto “bianco”. Quel  “bianco” attorno al costruendo inceneritore doveva servire a verificare periodicamente come la situazione potesse mutare con l’impianto funzionante, altrimenti sarebbero stati soldi buttati al vento (o meglio il solito fumo negli occhi della popolazione e degli ambientalisti!). In effetti così era previsto nelle stesse conclusioni del secondo rapporto dell’Asl di Brescia del 1998, relativo alle campagne 1996 e 1997, che recitava testualmente: “dovrà essere proseguita l’opera di monitoraggio ambientale dal punto di vista generale attraverso: – periodico  ricampionamento dei punti della zona attorno all’impianto finora prelevati negli anni 1994 (gennaio) – 1996 (gennaio) e 1997 (dicembre); in tal senso il prossimo campionamento è prevedibile per la fine 1999 al termine del periodo di esercizio provvisorio” dell’inceneritore. Non solo. La  Delibera G. R. L. n. 40001 del 2 agosto 1993, che autorizzava la costruzione dell’inceneritore, all’Allegato B5-1 prescriveva testualmente che “la struttura di controllo [Arpa. nda] dovrà effettuare con periodicità una campagna di rilevamento per la misura delle concentrazioni al suolo – immissioni”.

Ebbene, dopo 10 anni di funzionamento dell’inceneritore e di accumulo al suolo di PCB e diossine non biodegradabili, non è stato fatto assolutamente nulla, né a “fine 1999” né dopo, e tantomeno l’Arpa si è dotata di quel laboratorio per i microinquinanti, prescritto dalla Delibera autorizzativa dell’inceneritore del 1993. Insomma, di fatto,  l’Arpa non è stata in grado di effettuare i controlli previsti, sicché le misurazioni delle diossine sono state affidate dalla stessa Asm, due tre volte l’anno, ad una struttura privata, l’Istituto “Mario Negri”.

Ciò che comunque più importa sono alcune evidenze emerse di recente che rappresentano indizi importanti sull’effettivo impatto dell’inceneritore di Brescia: la scoperta di anomale concentrazioni di diossine nel latte di diverse cascine collocate a corona a sud dell’inceneritore; l’indagine svolta in agosto 2007, in pieno periodo feriale con le acciaierie chiuse ed il traffico ridotto, ma con l’inceneritore in piena attività, che ha rilevato livelli molto elevati di diossine nell’aria ambiente della città. (www.ambientebrescia.it/DiossineLatteAriaInceneritore.pdf

www.ambientebrescia.it/DiossineAriaBrescia2009.pdf).

Ovviamente, nel caso di Brescia, vanno considerate anche le emissioni dalle acciaierie con forno elettrico, dove le diossine si formano nella fusione di rottami contaminati da plastiche, oli, vernici, contenenti composti clorurati. (www.ambientebrescia.it/AlfaAcciaiDiossine.pdf).

Ma il “caso Brescia” ha un’altra peculiarità che lo rende probabilmente unico a livello nazionale (e forse non solo): la presenza di diossine in ambiente originate da fonti tuttora attive si aggiunge, accumulandosi, ad un’eredità storica pesantissima di grave inquinamento di una porzione della città da PCB e diossine lasciata dall’industria chimica Caffaro, l’unica produttrice dei PCB in Italia, per quasi mezzo secolo (www.ambientebrescia.it/Caffaro.html). Insomma si può dire che a Brescia, per quanto riguarda le diossine attualmente circolanti in aria ambiente, “piove sul bagnato”. Ed in effetti i bresciani posseggono concentrazioni di diossine nel sangue che non hanno riscontro in letteratura, come anche concentrazioni di diossine nel latte materno (il caso analizzato nel sito Caffaro presenta livelli di diossine 10 volte superiori a quelli riportati dallo studio di Valerio a Roma e a Venezia) (www.ambientebrescia.it/CaffaroDiossineSangueSevesoTaranto.pdf

www.ambientebrescia.it/CaffaroDiossineLatteMaterno.pdf)

Per questo a Brescia si impone con particolare urgenza il problema di interrompere l’immissione di nuove diossine in ambiente: per l’inceneritore,  si pone concretamente il tema di una progressiva chiusura di un impianto assolutamente non necessario al trattamento dei rifiuti bresciani (riduzione a due linee, poi ad una, per giungere infine ad un totale spegnimento); per le acciaierie bisogna intervenire subito, sia attraverso la bonifica e ripulitura preventiva del rottame/rifiuto dai componenti che originano diossine, sia con l’installazione di un sistema più efficiente, anche con i carboni attivi, per abbattere le emissioni di microinquinanti (diossine e PCB).

Il sistema TMB per il trattamento dei rifiuti

Nella parte finale del suo saggio, Valerio affronta il tema del trattamento finale dei rifiuti urbani, mettendo a confronto l’incenerimento con il Trattamento meccanico-biologico (TMB), e ovviamente spezzando una lancia a favore di quest’ultimo sistema. E’ questo, il TMB, un cavallo di battaglia di Federico Valerio in verità da molti anni. Non si intende, peraltro, contestare qui i dati riportati nel confronto: indubbiamente il TMB è preferibile ad un impianto di incenerimento.

L’interrogativo che si pone è un altro: il TMB è la soluzione ideale per il trattamento dei rifiuti?

Questo tipo di impiantistica, nelle sue diverse varianti, in verità ha alle spalle una lunga storia, perché è sempre stato un sogno degli ingegneri quello di progettare sistemi in grado di realizzare meccanicamente e automaticamente la selezione delle diverse tipologie merceologiche dei rifiuti, in modo da favorirne il recupero. Negli anni Trenta, in Italia, in periodo autarchico, quindi di lotta quasi fanatica agli sprechi, furono progettati e realizzati diversi sistemi a questo proposito. Effettivamente, in quegli anni, vi fu un fiorire di iniziative davvero ingegnose. Fu il caso del metodo brevettato dal dott. Enrico Gori-Carradori per la piena utilizzazione delle immondizie urbane. Egli costruì a Novoli, nel cantiere della Nettezza di Firenze, “un dispositivo a funzionamento continuo che compie il processo chimico della clorazione e le altre operazioni, con un ingegnoso automatismo, impiegando limitata forza motrice e scarsa manovalanza, e che dà soddisfacenti risultati.  Scopo del trattamento al cloro delle immondizie è essenzialmente quello di interrompere subito il processo di infracidimento, conseguendo la deodorazione e la depurazione batterica e larvale”.  Si passava poi  “alla fase di ventilazione, che conduce ad un alleggerimento di circa il 35% del peso iniziale delle materie.  Dopo l’essicazione si può praticare una buona vagliatura con la quale si libera il 40% di terriccio e si concentrano le parti destinate a cernita.   Le parti separate hanno tutte un prezzo tale da conferire al cascame il valore massimo realizzabile” (“La chimica e l’industria”, Milano, giugno 1939, anno XXI, n. 6, p. 354).

Oppure il  “nuovo sistema biologico «Bioflora» per l’utilizzazione dei residui di spazzature cittadine”, ideato dal dott. Dino Ernesto Alberizzi di Milano, nel 1940.  “Il sistema […] presuppone la cernita accurata delle spazzature. I residui di spazzatura, così previamente trattati, vengono irrorati con una soluzione organica fermentescibile, ricavata dai sottoprodotti dell’industria casearia e del macello, quindi accumulati con particolare stratificazione e i cumuli ricoperti da semplici tavelle di cotto […] La fermentazione si avvia immediatamente e la maturazione del materiale avviene in 50-60 giorni ad una temperatura che non supera mai i 50°. Con queste condizioni non avvengono perdite di azoto, la cellulosa viene rapidamente attaccata e il prodotto finale risulta perfettamente maturato, ricchissimo di humus, asettico e pulverolento” (“La chimica e l’industria”, Milano, maggio 1940, anno XXII, n. 5, p. 246).

Ma l’esperienza più significativa fu probabilmente quella realizzata dall’azienda dei servizi municipalizzati di Milano, che possiamo di seguito dettagliare:

Il quantitativo medio di immondizie domestiche che si forma oggi nelle nostre città settentrionali è di circa 350-400 grammi per abitante-giorno. Vale a dire che in una città di un milione di abitanti si produce giornalmente la rispet­tabile cifra di 3.500-4.000 quintali di soli materiali solidi di rifiuto provenienti dalle abitazioni. Una razionale raccolta e trattamento di tali materiali consente di immettere nuovamente nel ciclo produttivo una somma tale di materie utili da rappresentare una importante realizzazione autarchica. Condizione essenziale per raggiungere questo fine è l’organizzazione razionale della raccolta e dello smaltimento, operazioni che debbono avvenire con criteri nettamente industriali ed unificati. Non è facile avere dati sulla composizione delle spazza­ture domestiche. Per Milano il contenuto percentuale medio in peso dei vari materiali utili è approssimativamente il seguente: carta 6-8 % ; ossa 1 %; stracci 1,5-2 %; metalli rie­ri  0,1 %;  metalli ferrosi  1 %. Dal prodotto delle spazzature domestiche di una città di un milione di abitanti sono ricavabili quindi (sempre in via approssimativa): 120.000 q.li di carta; 15.000 di ossa; 30.000 di stracci; 3.000 di metalli ricchi; 30.000 di metalli ferrosi. L’esito del ricupero è naturalmente in rapporto col grado di efficienza dell’organizzazione di raccolta e trattamento dei materiali. E’ interessante a questo proposito l’organiz­zazione di Milano la quale è basata su i seguenti criteri : raccolta delle immondizie in bidoni metallici e loro ac­cumulo in un unico stabilimento di smaltimento;  questo stabilimento è dotato di una imponente attrez­zatura di impianti meccanici, sia per lo svuotamento dei bi­doni che per la cernita, il ricupero, ed una prima rivaluta­zione dei materiali. Il diagramma di lavoro è il seguente.  Per la carta:  pulitura meccanica, imballo, trasporto al­la  cartiera,  trattamento  in  speciali  macchine  olandesi;  pro­dotto:   carta  e cartoncino. Per gli stracci: forni sterilizzatori, classificazione, lavag­gio e lisciviazione, oppure trattamento con tetracloruro di etilene per la disoleazione; prodotto: pezzame per la puli­tura delle macchine, cordoni per isolanti termici, lane pei lanifici. Per le ossa: sgrassatura, polverizzazione, trattamento con acido solforico;  prodotto:   perfosfato d’ossa, colla. Per lo scatolame: distagnatura elettrolitica, impacchet­tatura del lamierino di ferro; prodotto: stagno, lamiere di ferro per le ferriere. Una utilizzazione interessante è inoltre quella dei ri­fiuti di verdure, dai quali si ricava un mangime vitaminoso. La spazzatura residuata dal trattamento della cernita, viene infine triturata per ricavarne un fertilizzante che viene largamente impiegato nelle campagne circostanti la città ed anche in zone lontane della provincia e di quelle limitrofe. Da qualche tempo la riutilizzazione delle spazzature di Milano è tale, che tutta l’enorme massa che produce la città e che assomma a circa 150.000 tonnellate annue è com­pletamente smaltita (Guido Amorosi, La raccolta e l’utilizzazione dei rifiuti domestici, in Enios, Convegno nazionale “Sprechi e recuperi”. Torino 23-25 giugn 1939. Riassunti delle memorie, vol. I, Torino 1939, pp.  49a-49b).

 

Tuttavia, il TMB oggi presenta spesso alcuni inconvenienti. Una corretta cernita attualmente  è complicata dal fatto che nei rifiuti urbani entrano in gioco composti chimici (dalle plastiche, alle vernici, ai solventi clorurati, ecc.) che all’epoca erano quasi del tutto assenti nei rifiuti urbani, merceologicamente molto più semplici e quindi facilmente separabili ad un livello accettabile di  omogeneità dei materiali finali.  E’ vero che oggi – si obietta – la tecnologia si è molto più raffinata, tuttavia diverse esperienze, a partire da quella catastrofica della Campania ci dicono che l’efficienza di questi impianti non è sempre così scontata. I famosi impianti di Cdr (combustibile derivato dai rifiuti)  avevano esattamente il compito di separare la parte secca combustibile, dal vetro e dai metalli da inviare al riciclo, e dalla frazione organica stabilizzata destinata al compost. Si sa come andò a finire: da quegli impianti usciva rifiuto “tal quale” pressappoco come vi era entrato. 

Perché – ed è questo l’altro punto critico – l’impianto per il Cdr, facsimile di un TMB,  era esplicitamente proposto in alternativa alla raccolta differenziata: “Un impianto con elevata capacità di cernita e separazione dei vari materiali può certamente prescindere da una raccolta differenziata molto estesa sul territorio”, proclamava il Piano rifiuti campano a proposito di queste “macchine magiche”.

Del resto, se si prevede un trattamento biologico del rifiuto conferito a questi impianti, si sottintende una raccolta differenziata a monte alquanto approssimativa: molte delle esperienze più avanzate di una RD ben fatta  dimostrano che il rifiuto residuale è fondamentalmente secco, privo di materia organica,  e costituito prevalentemente da poliaccopiati a base plastica; inoltre vi sono esperienze in corso per un riciclo totale, senza combustione, anche di questo residuo.

In conclusione,  a parere dello scrivente, non c’è macchina che possa sostituire l’intelligenza e la manualità del cittadino nel separare alla fonte e per materiali omogenei i rifiuti. Una raccolta differenziata domiciliare di qualità (informazione e formazione capillare degli utenti; separazione multimateriale in casa; tariffa puntuale premiante i comportamenti virtuosi) riduce il rifiuto urbano prodotto a circa 1 kg/die pro capite ed il residuo a meno di 200 grammi, con una RD dell’80%. In questo caso lo stesso residuo si può ulteriormente avviare al riciclo.

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