Reggio Emilia andava già declinando culturalmente, non ancora economicamente, quando la ‘ndrangheta iniziò ad accreditarsi sul suo territorio, presto scoprendo che la ‘Kiev d’Italia’ del dopoguerra (che nella percezione della cultura comunista competeva con la ‘Stalingrado d’Italia’, Sesto S.Giovanni) aveva pochi e deboli anticorpi, culturali anzitutto, e quindi era aggredibile nei gangli vitali di economia e istituzioni dalla cancerosa proliferazione criminale.
Si parte dal 1982, quando Nicolino Grande Aracri, capo dell’omonimo clan di Cutro, venne mandato al confino nella Brescello di Guareschi e di ‘Peppone e Don Camillo’, da lì promuovendo una forte migrazione dalla Calabria verso l’Emilia, a partire da Brescello stessa, dei cui 5500 abitanti oggi 1700 sono calabresi.
Il Procuratore antimafia di Bologna 30 anni dopo conta “7 mila persone a vario titolo vicine alla ndrangheta, tra Reggio e Parma, 7 mila voti da spostare alla bisogna: le ‘ndrine si muovono bene, facendo in modo da accreditarsi a Brescello attraverso comportamenti apparentemente innocui, entrando ‘in punta di piedi’ nelle articolazioni economiche e sociali della città, evitando allarme sociale da episodi violenti ed eclatanti”, mentre la politica mostra “atteggiamento di acquiescenza degli amministratori comunali , avvicendati alla guida dell’ente, nei confronti della locale famiglia malavitosa”, fino ad arrivare ad “una condizione di vero e proprio assoggettamento al volere di alcuni affiliati alla cosca, nei cui riguardi l’ente, anche quando avrebbe dovuto, è rimasto, negli anni, sostanzialmente inerte”.
Si arriva così all’onta del primo Comune dell’Emilia affluente e grassa sottoposto a scioglimento degli organi istituzionali, Brescello per l’appunto, per “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti ed indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata di tipo mafioso e su forme di condizionamento degli stessi”.
In principio c’era una provincia il cui PIL era pari a quello del Portogallo ; poi, a metà ’90, Reggio cominciò a subire una pesante e progressiva spoliazione con cessione a terzi di ‘pezzi pregiati’ della sua economia : Latterie Coop. Riunite – marchio Giglio – a Parmalat, Cassa di Risparmio a Bipop e poi a Capitalia, AGAC a Enìa poi IREN, Azienda Coop. Macellazione a Unipeg, Lombardini Motori alla Kohler Engines.
Nel tempo, altresì, si registravano fallimenti pesanti, dalla Bertolini Macchine Agricole al Gruppo Mariella Burani, e crisi definitive di aziende del sistema Legacoop quali Coop Muratori Reggiolo, Orion, Unieco, Coopsette, Cormo, CCPL (che in alcuni casi, oltre alla perdita di occupazione, vedono mettere a rischio il prestito sociale, cioè i risparmi di migliaia di soci), oltre al dissesto di OMI-Reggiane, per arrivare alla crisi attuale della LandiRenzo ed ai ‘rumors’ di crisi del Gruppo Brevini e di quello Ferrarini.
Da altri bilanci iniziò a promanare “odor di derivati”: grande preoccupazione emergeva già anni fa per colossi cooperativi della distribuzione che mostravano pareggi di bilancio ottenuti conferendo a newco, dagli stessi controllate, i propri immobili oggettivamente sopravvalutati rispetto ad un mercato già oberato da un grave esubero di offerta.
Oggi si cerca di porre rimedio a tali preoccupazioni attraverso fusioni che hanno generato colossi della Grande Distribuzione Organizzata sempre più estranei al territorio, con il supporto di utili finanziari dell’operazione Unipol-SAI.
E’ in ‘decrescita’ anche la ricca rete di piccole imprese create, dopo la chiusura delle ‘Reggiane’ ove negli anni ’40 si costruivano aerei, da lavoratori che lì avevano acquisito professionalità altissime.
Il tutto si è andato aggravando con la crisi sistemica globale, finanziaria, industriale, ambientale.
La domanda oggi diviene così ‘Reggio senza futuro ?‘: il tratto dominante di ogni futuro, in assenza di letture condivise della identità, sarà la subalternità di Reggio in ogni scenario di prospettiva.
I residui ‘sviluppisti’ della vecchia cultura comunista, mescolandosi con comportamenti viziati da rapporti non trasparenti con la liquidità ingente della economia criminale sempre più radicata sul territorio, hanno portato ad un incredibile consumo di suolo, fino ad avere migliaia di immobili residenziali, commerciali, industriali e artigianali sfitti e/o in abbandono.
Operazioni acefale hanno modificato il paesaggio rurale come quello urbano, oggi sempre più anonimi e sciatti ; anche infrastrutture disegnate da archistar attorno allo svincolo autostradale paiono ‘cattedrali nel deserto’ di periferie angoscianti, per non parlare di altrettanto acefala proliferazione di sedi di una Università succursale di Modena, il cui progetto culturale e scientifico non è facile decifrare.
L’essere passati in pochi anni da 120.000 abitanti a quasi 180.000 aggrava la sensazione di Reggio come ‘non luogo’, la cui immagine qualcuno cerca di imbellettare dicendo che il futuro sarà quello di una Milano5 dormitorio ‘nel verde’ per famiglie di giovani managers che andranno al lavoro a Milano1 grazie alla fermata MedioPadana dell’Alta Velocità: già oggi si sono insediate nel Centro Storico decine di queste famiglie, che i sociologi definiscono ‘legione straniera’, gruppi di cittadini di fascia alta, fruitori ‘pro-tempore’ di Reggio che presto altrove migreranno, in Italia e nel mondo.
Altro che identità: questa sarebbe la concretizzazione del concetto di ‘piattaforma urbana inerte’, senza caratteri propri, fungibile, priva di identità, radici, linfa culturale vitale. Contemporaneamente, la Questura informa che 3 giovani su 4 consumano stupefacenti: un dato mostruoso, che non suscita alcun allarme vero e quindi azioni preventive e repressive adeguate.
Per comprendere e vincere la sfida contro un tale tripudio di subalternità serve un ‘pensare comune’ su chi si sia come comunità, da dove si venga, dove si voglia arrivare: una comunità senza identità non va da nessuna parte, nell’epoca ‘glocal’, ed è facile preda per le scorribande dei novelli Ungari della finanza così come della criminalità organizzata , a maggior ragione nel tempo dell’oblio dei valori fondanti e della marginalità della persona (dominando più che mai, nel senso comune, il ‘pecunia non olet’ strumentale all’asservimento al ‘dio Mammona’).
Appare obiettivo non marginale provocare un sistematico ragionare su memoria e identità della comunità e del territorio, provare a capire se e come Reggio possa divenire ‘melting pot’ delle decine di migliaia di persone arrivate da altre regioni e città d’Italia e del mondo negli ultimi anni, attratte dal benessere, dai servizi e dalla piena occupazione che furono.
Ancor più quel ragionare si rende necessario constatando come si scontino anche gli effetti ulteriori del modello insostenibile di crescita quantitativa e consumistica da quasi un secolo dominante fino all’esplosione della crisi attuale, dalla fetida aria padana che si respira, ufficialmente cancerogena per l’OMS, alle acque di superficie e di falda inquinate con cui si irriga (attività sempre più difficile e costosa a causa delle minori precipitazioni effetto del Cambiamento Climatico globale in atto nell’Italia Centro-Settentrionale in via di ‘sub-tropicalizzazione’) un suolo a fertilità naturale decrescente a seguito di decennali monocolture meccano-chimicizzate, fino all’erosione urbana con la cementificazione e relativa impermeabilizzazione che porta ad avere le citate migliaia di appartamenti sfitti o invenduti in orridi paesaggi periferici mentre tanti fabbricati (es. i ‘caselli’ del Parmigiano Reggiano e le grandi case contadine), tipici del paesaggio storico di città e forese, vanno in malora.
Si deve focalizzare l’attenzione sulle cifra di una Reggio marcata da un segno forte di an-identità, di una ‘Reggio città anonima’, come affermato dal Maestro Italo Rota.
Riflettendo sulla identità reggiana, sovviene l’immancabile “C’at gnès un càncher, csà fèt chè?” con cui l’allora giovane dirigente ENI Marcello Colitti raccontava di essere accolto dai pochi tecnici o operai conterranei reggiani che incontrava, negli anni ’60, visitando nei luoghi più sperduti del pianeta i cantieri aperti dalla compagnia petrolifera alla ricerca di giacimenti di idrocarburi.
Strano modo di salutarsi, tipico ‘esorcismo padano’ non infrequente ad udirsi anche in Piazza del Duomo ( o Piazza Grande, oggi dedicata a Camillo Prampolini ) la Domenica mattina, fino agli anni ’70, quando lì si incrociavano contado e città.
Regium Lepidi. originante dalla regola romana di distanziare lungo la via Emilia un ‘castrum’ dal successivo dei 25-30 km percorsi quotidianamente da una legione in marcia, fu grande con Matilde (peraltro non reggiana), ma poi sempre corridoio di passaggio ed oggetto di conquista da parte di altri, con il padrone di turno che sottraeva i ‘pezzi pregiati’, come l’Università (‘Studium Regiense’) nel caso degli Este di Modena a fine ‘500,delegando al territorio subalterno funzioni quali carcere, manicomio, OPG, mantenendone solo l’originario ruolo prevalente di sito di scambio mercantile.
Anche Mediolanum con quel ruolo precipuo venne fondata, ma un Vescovo di nobili ascendenze longobarde pavesi, conscio che causa della crisi della sua Pavia Capitale era la cristallizzazione conservativa degli assetti delle Corporazioni, abolì tassazioni a carico di chi arrivasse a Milano essendo portatore di competenza (‘saper fare’ artigianale, ma non solo) con un ‘editto’ ricordato più volte da Gianni Brera come ambrosiana premessa di sviluppo e attitudine alla innovazione.
A quel Vescovo si deve l’identità di Milano, ancora viva e da me pienamente vissuta a inizi ’80, di luogo del ‘saper fare’ e di aperto ed inclusivo ‘melting pot’ ante litteram.
Trasmettono senso identitario ai loro cittadini le ‘piccole capitali’ altre da Reggio: Castelnuovo Monti con la dantesca ‘Pietra di Bismantova’, Campegine dei Cervi, Novellara, Correggio, Cavriago, Scandiano, Montecchio, Guastalla, già nel Medioevo ‘loci’ di Diete e Concili, fino alla Canossa che fu terminale per un Imperatore in cerca di perdono, eventi menzionati nei testi di storia.
Agli estremi del segmento reggiano di Via Emilia, Rubiera e S.Ilario sono rispettivamente attratte da Modena e Parma. come Guastalla, sul Po, la è da Mantova, al punto che troviamo imprenditori reggiani insediati in tali aree, ma iscritti alle Unioni Industriali delle citate città contermini, per cui il distretto tessile è soprattutto Carpi (poi Correggio), il ceramico soprattutto Sassuolo (poi Scandiano-Casalgrande) e il formaggio storicamente Reggiano è soprattutto Parmigiano.
Molti grandi della terra reggiana vengono dalle ‘piccole capitali’, a partire da Lazzaro Spallanzani e Matteo Maria Boiardo di Scandiano; rimangono radicatissimi nelle loro ‘piccole capitali’ anche scrittori, animatori culturali e musicisti d’oggi (si pensi solo al fenomeno ‘Nomadi’ per Novellara) che transitano da Reggio, se necessario, per salire su un treno diretto alle destinazioni che li attendono nel mondo.
In assenza di un ‘caput loci’ capace di funzione centripeta, la Bassa reggiana settentrionale si vede (e si recita nella toponomastica) gonzaghesca (fatta salva l’intrusione dei Bentivoglio a Gualtieri), quella orientale estense, la montagna lunense, assetto culturale che non viene superato neppure nell’ambito del più generale ‘melting pot’ che per primo intuì e descrisse PierVittorio Tondelli, quello di una Via Emilia asse di un’ ‘area metropolitana unitaria’ alla stregua di Los Angeles.
Reggio solo con il Tricolore, e poi con Prampolini socialista evangelico e la sua cooperazione e con il contributo di Giuseppe Dossetti all’opera costituzionale, riconquistò menzione nei testi di storia.
Del passato più recente, incombe l’irrisolta lettura della genesi/evoluzione della partecipazione di una nutrita componente reggiana al movimento delle ‘Brigate Rosse’.
Hanno oggi ragione i tanti che vedono Reggio incapace di sedimentare quel che le capitò di vivere nelle sporadiche ‘età dell’oro’ ?
Si ripensi all’ultima di quelle ‘età’, a cavallo tra ’60 e ’70, che vide stanziale a Reggio il Living Theatre, Armando Gentilucci che dal Conservatorio ‘Peri’ inventò’Musica/realtà’ con Abbado, Pollini, Nono, Canino e tanti altri, i ‘basagliani’ Giovanni Jervis, Stefano Mistura e Gianni Mastrangeli con i Centri d’Igiene Mentale sul territorio, Sergio Tonelli, allievo di Benedetto Terracini, a costruire la nascente Medicina del Lavoro, e poi Giancarlo Ambrosetti della Scuola Archeologica romana a dare respiro alle istituzioni museali, il Consorzio Socio-Sanitario che lavorava dalla genetica ai temi ambientali, la grande AGAC modello primigenio di ‘multiutility’ efficiente e legata al territorio, Giuseppe Soncini Presidente dell’Arcispedale che ebbe la grande intuizione, appoggiata da Pertini, della cooperazione con l’Africa Australe in lotta per uscire dal colonialismo e che divenne amico ed interlocutore di Tambo e Mandela, Loris Malaguzzi alle Scuole dell’Infanzia che generò il modello ‘Reggio Children’ replicato in tutto il mondo, alla psicopedagogia che de-istituzionalizzava i bimbi con problemi psicofisici gravi, Osvaldo Piacentini e la sua Cooperativa Architetti, culla delle discipline urbanistiche, i Consigli di Quartiere culla degli approcci partecipativi oggi postulati dall’Unione Europea, Franco Boiardi e il suo CRPA antesignano di una agrozootecnia sostenibile, Otello Sarzi che interpretava il ‘Peer Gynt’ di Grieg attraverso i suoi burattini, i ‘Teatranti’ di Antonio Fava, l’editore Alessandro Scansani e la sua ‘Diabasis’, la Biblioteca ‘Panizzi’, Ermanno Dossetti e Lazzaro Padoa a gestire un Liceo ‘Ariosto’ dove insegnava ‘Greco’ Giancarla Codrignani.
Degli anni a seguire, rimangono da citare il ‘Di nuovo’ di Daniela Jotti e Paolo Perezzani in campo musicale, il ‘Palazzo Ruini’ fucina culturale di Giovanni Nicolini, il grande Liceo ‘Moro’ di Roberto Villa da sempre sodale di Don Giuseppe Dossetti, il ‘Qol’ del dialogo interreligioso di Pietro Mariani Cerati e Brunetto Salvarani a Novellara.
Alla grande stagione menzionata seguì il tempo del compiacimento per i primati economici e le vacanze alle Maldive, poi quello della ‘sbornia finanziaria’ (si ricordino gli inquietanti strascichi reggiani del caso Roveraro) prodromica alla spoliazione prima descritta: segni di quel tempo ormai ‘triste’ rimangono l’orrida gradinata urbana del vecchio Stadio Mirabello che ancor oggi incombe, inquietante, su persone e veicoli in transito, e l’altrettanto orrido cavalcavia che follemente tagliò in due un intero quartiere sulla Via Emilia, a ridosso di un Asilo e di una Chiesa e in prossimità di un Campus, nell’ex-Manicomio, che più che innovazione evoca disperazione, per incompiutezza dei servizi e scarsa sicurezza delle frequentazioni.
C’è poi da chiedersi come si sia pervenuti all’insediarsi ai livelli apicali di istituzioni ed economia, in particolare cooperativa o ex-municipalizzata, di personale allocato dalla politica, con la tipica autoreferenzialità mutuata dai padrini politici , con cultura, anche manageriale, non eccelsa ed attenzione non marginale al proprio tornaconto, non sempre coerente con le esigenze di azionisti, soci e territori.
Il PCI emiliano-romagnolo, che sconfisse il tentativo berlingueriano di inizi ’80 di affermare una ‘diversità’ a forte valenza anche etica (e comportamentale, soprattutto in materia di finanziamento della politica stessa), non ha saputo affrontare questi nodi con moderna visione orientata alla sostenibilità come grande opportunità di sviluppo di qualità, limitandosi a disegnare interventi di ulteriore cementificazione del territorio, con ulteriore concentrazione insediativa ed infrastrutturale nelle aree di pianura, superando la ‘carrying capacity’ della più limitata e più ricca delle risorse naturali, il terreno irriguo e fertile figlio delle grandi bonifiche e delle centuriazioni romane ed arroccandosi nei cementizi ‘mercati protetti’ decisi e suddivisi a livello nazionale.
Anche negli anni delle ‘vacche grasse’, l’Emilia non ha saputo darsi un nuovo progetto, un nuovo ‘brand’ capace di sussumere in toto e mosaicare i tasselli di un passato pur nobile: a scala sub-regionale, fanno forse eccezione la ‘Food Valley’ parmense ed il ‘Wellness District’ romagnolo.
Solo il Diacono Osvaldo Piacentini, prediletto del Don Giuseppe Dossetti del Concilio, seppe proporre a fine ’70 un vero piano alternativo allo sfruttamento dissennato della Pianura, con il ‘Progetto Appennino’, piano che fu vittima designata dei limiti culturali di ceti dirigenti miopi che, succubi dei citati poteri forti nazionali elargitori di ‘fette’ di ‘mercati protetti’, si dedicarono a costruir bretelle, superstrade, inceneritori e simil-grandi opere, mai investendo in innovazione tecnologica vera, anche quando se ne aveva opportunità e si disponeva di risorse dedicabili.
La subalternità, quindi, emerge continuamente come cifra della terra di passaggio/cerniera logistica del Paese, ‘imprinting’ che condiziona peculiarmente proprio Reggio.
Nella difficile sfida in corso per uscire dalla crisi di sistema globale governando la complessità in regime di incertezza, oggi ogni analisi converge nell’individuare ‘propensione alla innovazione’, ‘qualità sociale’ e ‘qualità ambientale’ come fattori tra i pochi capaci di garantire ad un sistema territoriale competitività sul ‘mercato mondo’ così come va ridisegnandosi.
Sappiamo altresì che tempestività ed efficienza nel prendere decisioni orientate alla valorizzazione di ciò che massimizza quei fattori sono parametri critici di successo.
La Reggio di inizi ‘2000 di Delrio ed ora dei suoi epigoni, tra ‘cerchi magici’ ed imbarazzanti casi di ‘interfaccia’ con vicende di ‘ndrangheta ormai all’attenzione degli organi investigativi, sta dando segno di aver capito la sfida e di attrezzarsi con politiche conseguenti ?
A me non pare.