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Giuseppina Ciuffreda, utopista concreta

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Ai primi di luglio del 2015 se n’è andata Giuseppina Ciuffreda, dopo una lunga malattia vissuta con grande coraggio e molta discrezione – con “leggerezza”. Giuseppina è stata scrittrice, “maestra”, giornalista del manifesto, il quotidiano “comunista” nato nel 1971 ad opera di un gruppo di giornalisti e intellettuali (tra cui Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Valentino Parlato e Luciana Castellina) radiati dal Pci (Partito comunista italiano) perché in dissenso sul ruolo dell’Urss (Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste), da loro ritenuto non più positivo (non più propulsivo, come è stato ridefinito più tardi) nella fase storica apertasi alla fine degli anni Sessanta.

Agli inizi del nuovo secolo, in una situazione nuova e difficile anche per il manifesto – il giornale della sua vita – Giuseppina è diventata un punto di riferimento essenziale di Capitalismo Natura Socialismo (CNS), la rivista italianaoffspring di quella fondata in California da James O’Connor nel 1989. L’interesse di Giuseppina per CNS italiana dipendeva in parte dal suo giudizio su O’Connor, il teorico della seconda contraddizione – seconda perché emersa dopo la prima, ma non per questo meno importante -, l’unico marxista per cui lavoro e natura stanno sullo stesso piano, come afferma lei stessa nel testo sotto riportato; e in parte dalla scelta compiuta da CNS italiana dopo Seattle, da lei condivisa, a favore dei movimenti ambientalisti, femministi, urbani e dei lavoratori, intesi come il nuovo soggetto in grado di innovare la sinistra storica e di esprimere una prospettiva di futuro – forse, aggiungo io, di segnare questo secolo, così come la fabbrica e la classe operaia hanno segnato il secolo scorso.

Giuseppina è stata una intellettuale militante colta e raffinata, curiosa, ironica, positiva e includente, radicale ma non estremista, capace di visione strategica e quindi politica nel significato più alto del termine. Un’intellettuale fuori da tutti gli schemi e gli schieramenti, senza i pregiudizi che infestano la politica; costruttrice di ponti, protagonista e antesignana della transizione tra un vecchio mondo antropocentrico, che stenta a morire, e un futuro biocentrico, che non potrà affermarsi se prima non è immaginato, descritto, e quindi riconosciuto e accettato. È stata anche una donna coraggiosa, che si è messa in gioco rischiando “in proprio” sia nella vita che nel lavoro. Aveva cuore e intelligenza politica: guardava lontano ed era capace di leggere e analizzare il cambiamento sociale sin dai primi segnali, dando forma a questi segnali per delineare scenari futuri.

Ha portato nel dibattito italiano temi ancora ignorati o sottovalutati come la giustizia ambientale, il debito dei paesi del Nord verso la natura, i movimenti globali per il clima e contro il saccheggio della natura, per l’Amazzonia e per i popoli indigeni. Ha capito molto presto che la crisi della sinistra occidentale è una crisi di democrazia reale, e che la correzione di questo limite può venire solo dalla gente comune, che resiste alle scelte delle burocrazie politiche e intellettuali, e resistendo costruisce l’alternativa. Così Giuseppina argomentava nel 2010 le radici del suo pensiero critico:

Una costante accomuna i defunti grandi partiti del movimento operaio, la sinistra catto-liberal, i rifondanti, gli innovatori hi-tech, i teorici del comune, e tutti loro ai liberali e gli economisti classici, ai Chicago boys e alle Chiese, nonostante le differenti visioni e l’opposizione politica: la rimozione della natura (grassetto mio). È un abbaglio moderno che destra e sinistra condividono, ancorati entrambi al binomio produttivo ottocentesco capitale-lavoro. Vittoriani e rivoluzionari erano in parte giustificati, vivevano in un’epoca ottimista che aveva fede nel Progresso e nel Sol dell’Avvenire, quando ancora non erano pienamente visibili gli effetti devastanti del capitalismo predatorio, le distorsioni drammatiche dei socialismi reali e gli effetti negativi planetari dell’industrialismo. La difesa dell’ambiente era agli albori e l’informazione un privilegio d’élite. Di fronte all’esplosione mondiale dei problemi ambientali qualcosa si è mosso, ma l’ecologia ha ancora uno spazio minimo nei programmi dei partiti: la sinistra politica si è formata nella rivoluzione industriale e ha difficoltà a capire il mondo rurale e la natura anche quando abbraccia la terza via e dimentica la fabbrica…..Dopo la Scuola di Francoforte che ha ridefinito la natura soggetto in relazione con il soggetto umano, l’unico marxista che ha innovato è James O’Connor, con la sua “seconda contraddizione”: oltre al lavoro, c’è la natura. …La sinistra, come la maggioranza delle formazioni politiche, è analfabeta in ecologia, non vede la gravità dello stato del pianeta e ritiene l’impegno ambientalista un punto fra i tanti o un avversario delle politiche sociali; non capisce che per affermare un mondo più giusto ne è invece azione preliminare.” (Ciuffreda 2010).

La sua vasta conoscenza della letteratura in quasi tutti i campi del sapere, incluso la fantascienza, e la verifica sul campo dello stato delle cose, l’hanno resa uno spirito libero e una giornalista atipica nel panorama italiano, e anche nel collettivo del manifesto che allora sottovalutava – o meglio, ignorava -la questione ambientale, in linea con tutta la sinistra storica, con pochissime eccezioni. Ha dato voce agli esclusi e alle comunità in lotta contro le conseguenze di un modello di società non solo ingiusto ma anche insostenibile sul piano ecologico oltre che sociale. Ha scritto molto, soprattutto sul manifesto, documentandosi non solo in letteratura ma “andando a vedere”, e anche per questo ha evitato di cadere nel provincialismo e nel conformismo che caratterizza ancora oggi buona parte del giornalismo italiano, che raramente svolge il ruolo di quarto potere, sia per ignoranza che per opportunismo.

La lente attraverso cui Giuseppina ha letto e raccontato il mondo è quella della natura in tutti i suoi aspetti – fisico, culturale, sociale e spirituale – e dei movimenti o soggetti sociali dell’alternativa. Il suo pensiero si è compiutamente definito nel tempo, via via che la realtà cambiava, e proprio per questo la rubrica settimanale “Ambiente viziato”, l’ultima da lei tenuta sul manifesto tra la fine di aprile 2011 e l’inizio di gennaio 2013, rappresenta una sintesi efficace del suo pensiero. La natura è viva, sosteneva Giuseppina insieme con pochi altri studiosi italiani e stranieri, andando controcorrente con la vulgata ancora oggi molto diffusa secondo cui la natura è un oggetto di cui gli umani possono disporre a loro piacimento.

È viva, anche quando è fortemente antropizzata, e ha un suo “progetto” di vita autonomo perché usa risorse endogene, diversamente dagli umani che dipendono da risorse esogene al di fuori del loro controllo. La natura è pertanto regolata da leggi che l’uomo può forzare ma solo entro un certo limite, oltre il quale finisce per subirne le conseguenze negative, spesso irreversibili. Per tutte queste ragioni, il punto di vista ecologico è capace di determinare mutamenti radicali molto più delle rivoluzioni tradizionali. Una cultura orientata in senso ecologico cambia infatti il modo di produrre e di consumare, gli stili di vita, l’economia e la politica.

Per comprendere meglio le sue scelte e il patrimonio di idee e di proposte che ci lascia, vale la pena di ripercorrere brevemente il cammino del suo lavoro e della sua riflessione. Laureata in filosofia all’Università di Roma negli anni dei “figli dei fiori”, è arrivata al giornalismo e alla politica passando dalla militanza nei collettivi femministi, che tra la fine del 1960 e la prima metà del decennio 1970 hanno cercato di “aggredire una storia ad alta densità di senso, il comunismo e il Pci, un nocciolo durissimo e fragile” (Campagnano 2015). Tra i risultati positivi di quella stagione di cui Giuseppina è stata protagonista, due soprattutto vanno menzionati: la pratica dell’autocoscienza, che ha favorito il superamento dell’approccio emancipazionista della sinistra storica fondato sulla equiparazione delle donne agli uomini; e la formazione di un nutrito gruppo di femministe che, come Giuseppina, hanno contaminato “partiti e sindacati, scuole e quartieri e uffici e fabbriche a macchia d’olio. Femministe, cocciutamente comuniste” (Campagnano, ibidem).

Al manifesto, Giuseppina ha lavorato fin dagli inizi alla sezione esteri, da dove ha seguito negli anni ’80 la disintegrazione dei paesi del Patto di Varsavia – dalla Polonia di Solidarnosc alle rivolte di Ungheria, Bulgaria e Romania. Come inviata del manifesto a Bucarest in Romania, ad esempio, è stata la prima giornalista straniera a raccontare in diretta la destituzione di Ceau?escu. Iniziò da qui una delle sue molte battaglie politico-culturali, quella contro il giornalismo delle cattive notizie, unilaterale, di pura denuncia e dunque settario, incapace di vedere la realtà nella sua complessità, come un processo non lineare, da capire più che da giudicare. Giuseppina pretendeva infatti il positivo da sé e dagli altri, e guardava al futuro pronta a correre i rischi che ogni cambiamento necessariamente comporta.

Giuseppina pensava che il socialismo reale aveva fatto il suo tempo, e in questo era in linea con la linea del manifesto. Ma andava oltre questo, sostenendo che i nuovi regimi dei paesi dell’Europa orientale in rotta con l’Urss dovevano essere difesi “a prescindere”, perché favorivano la fine del regime sovietico, indifendibile sia sul piano politico che su quello economico ed ecologico: sul piano politico perché oppressivo all’interno dell’Urss e nei confronti dei paesi satelliti, e pericoloso all’esterno (dalla guerra fredda, alla divisione del mondo in sfere di influenza). Sul piano economico ed ecologico, perché il suo modello non era affatto diverso da quello occidentale, essendo anch’esso fondato sulla industrializzazione spinta (non per aumentare i consumi ma per vincere la competizione con gli Usa), che inevitabilmente porta alla distruzione sistematica dell’ambiente e delle comunità.

Anche nel socialismo reale, dunque, il progresso era concepito come allargamento del produttivismo, senza alcuna comprensione del fatto che i cicli naturali dell’acqua e della materia non possono essere violati senza pagarne le conseguenze, spesso irreversibili. E questo era grave, scriveva Giuseppina, perché il modello economico alla base di quella sottovalutazione si era già chiaramente dimostrato causa di distruzione dell’ambiente, della natura e della salute dovunque nel mondo – in Unione Sovietica come in Occidente. Un esempio fra tanti che prova questa analisi, venuto pienamente alla luce solo dopo la fine dell’Urss, è la morte programmata del Lago di Aral, le cui acque furono deviate a monte per decisione del governo sovietico e dei suoi “piani quinquennali” di produrre cotone, cereali e frutta nel deserto del Kazakistan e dell’Uzbekistan. E coltivare riso nel fondo del lago prosciugato, pieno di veleni e foriero dunque di malattie e di morte sia per la natura che per le persone.

Nello stesso periodo durante il quale implodevano la galassia sovietica e la stessa Unione Sovietica, nel resto del mondo veniva pienamente alla luce il lato oscuro dello sviluppo economico così come concepito nel capitalismo, e cioè i disastri ecologici della produzione industriale, del consumismo, dell’agricoltura monocolturale, e dei relativi inquinamenti. Vi erano stati allarmi già prima, evidenziati dalle lotte delle popolazioni colpite, e segnali di attenzione da parte della intellighenzia, come la denuncia dei pesticidi della scienziata statunitense Rachel Carson in Primavera silenziosa (1962) o quella del Rapporto al Club di Roma, una associazione di industriali, scienziati e giornalisti tra cui l’italiano Aurelio Peccei, pubblicato con il titolo I limiti dello sviluppo (1972). Anche i governi cominciavano timidamente a riconoscere il problema, approvando alcune leggi di difesa dell’ambiente e della salute, come la in Italia la legge 183 del 1969 sulla difesa del suolo e in Europa la Direttiva del 1986 sulla pubblicazione delle industrie a grave rischio ambientale. Anche le istituzioni internazionali avevano dato un segnale positivo, convocando la prima “Conferenza sull’ambiente umano” delle Nazioni Unite, a Stoccolma in Svezia, sempre nel 1972.

In questa fase di crescita della consapevolezza ambientale – non a caso definita “primavera dell’ecologia” – si crearono le condizioni per mettere in discussione anche gli effetti perversi dei “piani di aggiustamento strutturale” imposti dal Fondo monetario internazionale ai paesi del Sud, per pagare gli interessi sul debito da loro contratto con le banche europee ai tempi della prima crisi petrolifera del 1973. Il debito era già stato ripagato, ma servivano altri prestiti per gli interessi, e la strategia proposta ai paesi del Sud dal Fondo monetario internazionale stava producendo effetti catastrofici: taglio della spesa sociale, fine dell’agricoltura di sussistenza, sostituita da quella monocolturale per l’esportazione, saccheggio delle risorse naturali e distruzione degli ambienti naturali da parte di multinazionali, governi e organizzazioni finanziarie internazionali.

Il grido lanciato dall’America latina, ‘Pagar es morir, queremos vivir’, sintetizza efficacemente il problema, e cioè la condanna dei paesi del Sud in entrambi i casi, pagando e non pagando, perché restituire il debito con gli interessi alle banche straniere significava trasformare economia, società e ambiente naturale in funzione dei paesi creditori, invece che dei bisogni della popolazione locale. Il diritto dei popoli del Sud a decidere essi stessi del proprio percorso di sviluppo, senza i condizionamenti che, attraverso il debito, i paesi del Nord avevano loro imposto, venne fatto proprio dalla “Campagna Nord-Sud, biosfera, sopravvivenza dei popoli”, lanciata da Alexander Langer – deputato dei Verdi nel Parlamento europeo – nella seconda metà degli anni 1980, con un Appello pubblicato sul manifesto, cui aderirono decine di intellettuali e attivisti italiani e stranieri, del Nord e del Sud del mondo. “Il debito pubblico, di cui si parla tanto, fa male ma non è mortale, mentre si trascura il debito verso la biosfera, da cui dipende la sopravvivenza quotidiana delle comunità e della vita stessa dell’umanità intera”, afferma in proposito Giuseppina (Ciuffreda 2010).

Alla Campagna Nord-Sud Giuseppina collaborò intensamente fin dai suoi albori, intessendo rapporti duraturi di vita e di lavoro con gli esponenti più autorevoli del pensiero critico, intellettuali e attivisti, italiani e stranieri: Alexander Langer innanzitutto, e molti altri tra cui Vandana Shiva e Wolfgang Sachs. Partecipò alla nuova fase dentro e fuori il manifesto, dando il meglio di sé nella costruzione di ponti, attivando canali di comunicazione con le esperienze degli altri paesi del Nord e del Sud. Raccontò tutto questo lei stessa sul manifesto, aprendo il più possibile le pagine del giornale ad attivisti e intellettuali italiani e stranieri provenienti da culture e percorsi politici altri, portatori di esperienze diverse da quelle della sinistra storica. Tra queste, l’agricoltura familiare e contadina, emarginata dalla grande industria agroalimentare monocolturale, nonostante essa contribuisse – allora come ancora oggi – a sfamare l’80 per cento della popolazione mondiale; la critica dello sviluppo, che Wolfgang Sachs, allora sconosciuto in Italia, definì “una rovina nel paesaggio delle idee”, in un libro di ispirazione Illichiana, Archeologia dello sviluppo (1992), di cui Giuseppina pubblicò diversi capitoli sul manifesto, nel 1986; e ovviamente, il debito verso la biosfera citato sopra, dovuto al crescente squilibrio tra il prelievo delle risorse naturali necessarie a sostenere lo sviluppo illimitato e la capacità di rigenerazione della natura, che era al centro della Campagna Nord-Sud. Così Giuseppina ha raccontato la Campagna:

Nel 1988 Alexander Langer lancia un Appello per convertire l'”ingiusto e unilaterale” debito finanziario del Terzo mondo in un comune debito ecologico collegando “le richieste dei paesi debitori per uno sviluppo auto-gestibile e sostenibile” con “l’esigenza dell’intera umanità di salvaguardare l’integrità del pianeta”. Ai paesi ricchi, maggiori responsabili del degrado, spetta cambiare stili di vita e ripagare il debito ambientale accumulato verso il Sud fin dal colonialismo, e ai governi del Nord, al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale viene chiesto di sostenere i paesi del Sud del mondo, che legheranno la cancellazione del debito a impegni di conservazione sociale e ambientale. La proposta fu sottoscritta da ecologisti, cooperanti, pacifisti, sindacalisti e religiosi: questa concordanza d’intenti è una novità assoluta, e anche la proposta stessa (solo il Wwf aveva lavorato sul Debt Swap for Nature, lo scambio debito-natura)…La Campagna “Nord-Sud: biosfera, sopravvivenza dei popoli, debito”, formatasi dopo l’Appello… nasce come strumento di elaborazione e di intervento…”Non è un’organizzazione o un cartello tra sigle, ma una libera aggregazione di persone convinte e impegnate”, “un lievito piuttosto che un contenitore”. Sarà attiva dal 1988 al 1994 su debito estero del Terzo Mondo, critica dello sviluppo, protezione dell’ambiente nel Sud e conversione degli stili di vita nel Nord. I membri appartengono a culture diverse: ambientalismo, cooperazione internazionale con il mondo rurale e i popoli indigeni, pacifismo e non violenza, eco-femminismo, impegno religioso, sindacato. ….La relazione diretta con i latinoamericani, gli africani e gli asiatici fa conoscere il punto di vista del Sud del mondo e dissolve il pregiudizio diffuso che l’ambientalismo sia un fenomeno dei paesi ricchi. Conferma un ecologismo dei poveri vicino all’ecologia profonda, che difende i commons, da cui dipende la loro sopravvivenza, e un’ecologia storica degli indigeni, custodi dei saperi perduti dalla cultura urbana. La Campagna Nord-Sud traduceSopravvivere allo sviluppo di Vandana Shiva (1990) e pubblica con Macro edizioni Archeologia dello sviluppo di Wolfgang Sachs (1992)” (Ciuffeda 2012a).

Il Global Forum ’92 di Rio de Janeiro su “Ambiente e sviluppo”, organizzato dalle Nazioni Unite vent’anni dopo la Conferenza di Stoccolma “Ambiente umano”, ha segnato un punto di svolta importante anche per Giuseppina. In preparazione del Global Forum, Giuseppina aveva infatti contribuito – con la Campagna Nord-Sud, di cui era una colonna portante – a far sì che la società civile arrivasse a quella scadenza con una forte carica innovativa. Nella Introduzione a Conversione ecologica e stili di vita. Rio 1992-2012, Enzo Nicolodi – allora presidente della Fondazione Alexander Langer – lo riconosce, affermando che si arrivò all’appuntamento di Rio con “una consolidata leadership internazionale delle realtà impegnate sui temi della natura, della critica allo sviluppo, della valorizzazione dell’apporto e della specificità delle donne, del sostegno alle popolazioni indigene e delle tecnologie semplici” (Nicolodi 2012).

Durante il Vertice, Giuseppina partecipò da protagonista alla elaborazione dei Trattati sulle cause del degrado ambientale e sulle strade per superarlo o ridurlo, redatti dalle ong presenti al Forum un gran numero, provenienti da tutto il mondo. Racconta Pinuccia Montanari, una dei partecipanti al Vertice di Rio, di essere andata con lei, una sera, all’evento di restituzione della terra agli indigeni Chavantes da parte dell’Eni, e di averla vista “orgogliosa di invertire la storia in una terra devastata da ogni forma di colonialismo e sfruttamento” (Montanari, 2015).

Sul Global Forum ’92 pesavano tuttavia il peggioramento dello stato di salute del pianeta, documentato dal Rapporto Brundtland del 1987, la crisi del debito estero esplosa dopo il 1973 e le conseguenze negative delle politiche di austerità imposte ai paesi del Sud dal Fondo monetario internazionale: nel 1990 uno studio della Banca mondiale riconosceva l’esistenza nel mondo di circa un miliardo di poveri. Al Forum parteciparono i leader politici mondiali e vennero approvati strumenti potenzialmente importanti come la Convenzione sui cambiamenti climatici e quella sulla diversità biologica, e l’Agenda 21, sullo sviluppo locale e globale. Ma le ricadute concrete di questi strumenti furono ben al di sotto delle aspettative, perché negli anni Novanta il clima era cambiato e prevalsero ancora una volta le esigenze della geopolitica: l’ambiente era considerato come importante, ma solo nel contesto dello sviluppo economico, l’unica cosa veramente importante.

Nei documenti ufficiali di Rio ’92 non c’era traccia – infatti – né dell’ambiente umano né della critica dello sviluppo né del debito verso la biosfera, né dei danni prodotti dal libero mercato, dal debito estero dei paesi del Sud, dagli aggiustamenti strutturali loro imposti dal Fondo monetario internazionale, e dall’attività predatoria delle multinazionali. Spettò dunque alle organizzazioni non governative del Controvertice – in cui Giuseppina si muoveva come se conoscesse personalmente ciascuno dei partecipanti, racconta Pinuccia Montanari (ibidem) – approfondire le cause del degrado ambientale e indicare le strade per eliminarlo, o ridurlo, come detto sopra.

Nonostante tutto, Rio ’92 era stato un successo. Ma si annunciavano tempi duri: in Italia, alle elezioni del 1994 vinse la destra politica e nacque il governo Berlusconi, durato per quasi vent’anni; implose il Pci, e si aprì la lunga transizione della sinistra, divisa tra un’ala riformatrice ossequiente alle regole del mercato capitalista e un’area radicale, divisa e litigiosa, e quindi impotente. In Europa, la disintegrazione della Yougoslavia innescò nei Balcani una guerra atroce, che arrivò a praticare la pulizia etnica, giustificata – la guerra, non la pulizia etnica – dai governi europei e in particolare da quello italiano guidato da un ex-comunista (Massimo D’Alema), ed era la prima volta dopo cinquant’anni, dalla fine della seconda guerra mondiale. A livello internazionale, l’approvazione del Wto (World Trade Organization), il nuovo trattato internazionale sul commercio estero tentò di imporre al mondo intero la brevettazione del vivente e rese esplicita la priorità del commercio estero, in nome del quale veniva azzerava qualsiasi legge a tutela della natura e dell’ambiente. Infine, dopo l’attacco alle Torri gemelle di New York nel 2001, venne teorizzata e agita anche la guerra preventiva e permanente contro il terrorismo, che è tuttora in atto in forme sempre più aggressive da parte dell’islam “radicale”, cui i paesi del Nord rispondono con miopia, interessati soprattutto alla ridefinizione del Medio Oriente e ad una sua spartizione loro favorevole.

Tutto veniva pertanto rimesso in discussione, a cominciare dalle conquiste sociali e ambientali della primavera ecologica, e al tempo stesso emergeva in tutta la sua drammaticità l’incapacità della sinistra a trovare una risposta adeguata alle nuove sfide, per difendere insieme la natura e le persone. La nuova barbarie stimolò una nuova fase di mobilitazione, come lo zapatismo in Messico, il movimento no-global a Seattle contro il Wto, i Forum alternativi di Porto Alegre, di cui la sinistra storica non seppe trarre alcun vantaggio perché non ne vide gli aspetti innovativi. “Quando negli anni Novanta i movimenti antagonisti debuttano sulla scena mondiale – osserva Giuseppina – la sinistra radicale ne riconosce solo gli aspetti a lei familiari: la lotta al neoliberismo negli zapatisti, e non il risveglio indigeno o, dopo Seattle, la critica della globalizzazione economica, e non le radici annose, ben piantate nella natura, di un attivismo fino ad allora ignorato” (il manifesto, 2012b).

La nuova situazione politica e sociale rafforzò in Giuseppina la convinzione, già presente in nuce nel suo pensiero fin dagli inizi, che la soluzione dovesse essere ricercata altrove: nelle “nuove” comunità di persone che in tutto il mondo – e non solo in Occidente – avevano scelto forme di vita alternative: ecovillaggi; centri e comunità cristiane, hindu e buddiste; movimenti come il Chipko in India, il Greenbelt in Kenya, il Movimento Ogoni in Nigeria, il movimento indigeno di Marcos nel Chiapas; Curitiba in Brasile, Arcosanti in Arizona, Usa, per citare solo alcune esperienze tra quelle più note. Su questo, Giuseppina ha così motivato il suo punto di vista:

La vera novità di fine millennio sono milioni di persone che in tutto il mondo mutano abitudini di vita e percezioni della realtà, in rottura netta con il modello tecnologico e consumistico. È un movimento convinto che l’umanità si trovi a un punto di svolta e che viva un passaggio epocale: la crisi della civiltà occidentale, modello egemone nel mondo. Una crisi che però è anche opportunità di trasformazione per milioni di persone verso un’era spirituale. Molti gruppi affermano che sorge l’Era dell’Acquario mentre declina l’Era dei Pesci, un passaggio astronomico che porta con sé un mutare delle energie che influenzano la terra. Sotto i nostri occhi è oggi la parte peggiore del processo: povertà, violenza, guerra, distruzione della natura, il vecchio mondo serra le fila, difende il suo potere, il mondo nuovo non è ancora visibile. Ma la vita, energia profonda che anima il mondo o, con linguaggio politico, la “spinta propulsiva”, ha abbandonato la nostra civiltà e comincia ad esprimersi in forme nuove che singoli e gruppi vivono e diffondono. Traducendo in lingua sociale i simboli che racchiudono la qualità delle energie trasmesse, sostengono gli astrologi, attraverso le costellazioni Pesci e Acquario, la transizione è dal petrolio al Sole, dalla competitività alla cooperazione, dal controllo gerarchico alla partecipazione popolare, dal dominio sulla Natura alla percezione di farne parte e che essa è vivente, dalla teologia all’esperienza diretta di “Dio”, dalle religioni a un approccio scientifico all’aldilà, dal patriarcato al principio femminile, dall’enfasi sulle divisioni all’attenzione verso ciò che unisce. La domanda chiave è come possano costruire una nuova civiltà soggetti dispersi, impegnati in un lavoro personale che poco somiglia all’attività politica che conosciamo…il mutare di grandi masse comincia sempre dall’intuizione di singoli, di piccoli gruppi… Ma da tempo ormai milioni di persone, anche in Occidente vedono, sentono, pensano secondo percezioni non lineari ma cicliche. Non lo sappiamo ancora, ma è cominciata una rivoluzione. …Una rivoluzione spirituale. Nasce dagli individui, da coloro che, disponibili a perdersi, hanno abbandonato i sentieri battuti, varcato la soglia del mondo conosciuto. Sono costruttori secondo linee ancora poco comprese. Non prevedono strategie “contro” ma “per”. … La scelta di partire da sé, di conoscersi e accettarsi, hanno fallito perché non hanno capito che la prima rivoluzione si fa in noi. Non è una richiesta di coerenza, il più delle volte ipocrita, tra ideologia e azione, ma la necessità di sperimentare personalmente quel cambiamento che vogliamo attuare nella società…” (Ciuffreda 1997).

Nell’ultima uscita pubblica, il 12 marzo 2015, in occasione del premio di giornalismo ambientale Carla Ravaioli 2015, assegnatole dalle amiche di A Sud (le nostre figlie, che continueranno il nostro lavoro, diceva), ha rievocato la sua battaglia di una vita per scrivere dell’ambiente e della rimozione della natura, una anomalia molto italiana:

Sin da quando ho iniziato a scrivere di queste cose alla fine dagli anni Settanta, è stata una lotta da tutti i punti di vista e continua a esserlo anche oggi per chi vuole scrivere e informare su queste tematiche così importanti. L’Italia, in un suo modo specifico e particolare, esprime una sorta di quasi avversione verso le questioni ambientali, un’avversione che va contro la natura, una difficoltà a capire l’ecologia.

L’Italia in particolare è un paese dove ci sono state per anni due culture fondamentali, la cattolica e la comunista (di sinistra). Entrambe per varie ragioni storiche non hanno mai avuto una grandissima apertura rispetto alle questioni della natura e dell’ambiente più in generale. Possiamo citare San Francesco e ora questo Papa – che sta preparando un’enciclica sulla tutela del creato e che rappresenta una grande novità. Dall’altra parte, la sinistra e in particolare il partito comunista, ha espresso una cultura fondata sul lavoro, sul lavoratore, e sull’essere umano soggetto e oggetto di tutto ciò: una visione antropocentrica che ha impedito di vedere le questioni ambientali sulle quali non c’è mai stata grande apertura. Per non parlare del sindacato, che in passato – ma anche oggi – si è duramene scontrato con chi si occupava della chimica, aprendo scontri sul territorio tra sindacati e cittadini, a partire dall’Acna di Cengio.

Anche gli intellettuali hanno responsabilità “con la loro convinzione che la cultura sia superiore alla natura e un certo non interesse rispetto ad esempio all’agricoltura. È difficilissimo trovare un intellettuale che si sia occupato di agricoltura finché non è arrivato Carlo Petrini e alcuni pionieri, critici dello sviluppo italiano degli anni Cinquanta e Sessanta.

Prevale la convinzione, ieri e ancora oggi, secondo cui l’ecologia è una cosa da paese ricco, da pancia piena: prima lo sviluppo, poi tutto il resto, unita a un’idea dell’ambiente molto limitata: non si considera che l’agricoltura è inserita nell’ambiente, insieme ai diritti degli animali, ai luoghi naturali, alla salute”.

La rinascita della natura in senso ampio è un cambiamento epocale che in Italia vede pochissimo interesse da parte di quella che possiamo chiamare classe dirigente e opinionisti vari, per non parlare dell’informazione:l’ignoranza, la non conoscenza, dei giornalisti in questo ambito è epocale. Un esempio è la storia del Nimby (not in my backyard). Dopo tutti questi anni, sentire ancora parlare della difesa del proprio orticello, quando in Italia e nel mondo ci sono milioni di comitati che lottano, significa che sta succedendo qualcosa che chi dovrebbe vedere, non vede o non vuole vedere. Altro che Nimby.

Questa cecità ha pesato moltissimo e per un periodo ha anche funzionato, ma poi si è mosso qualcosa anche da noi, sia per gli effetti negativi dell’industrialismo sia per l’attivismo sociale e le lotte del Terzo Mondo da parte delle comunità che difendevano la natura per difendere la loro sopravvivenza. Ma adesso, come diciamo a Roma, “zero carbonella”. C’è stata una generale cancellazione delle leggi a tutela dell’ambiente, e una regressione nelle coscienze da tutti i punti di vista, per cui la situazione culturale iniziale permane e si sta aggravando su più livelli.

[…]

È in atto un grande cambiamento – conclude Giuseppina – e io ho molta fiducia nell’attivismo e nell’impegno personale che vedo qui stasera. S iamo alla fine di qualcosa, ma le alternative ci sono : non solo nelle piccole pratiche ma nel modo di vivere. Esiste un diritto fondamentale, che è quello di decidere come vogliamo vivere, e questa è una questione di democrazia. Non credo che chi in questo momento ha il potere – e va in una certa direzione, decisa da una minoranza per conto di una maggioranza che non decide quasi niente – rappresenti la maggioranza.

Credo invece che questa maggioranza stia determinando un cambiamento molto forte, che è in atto ma non è raccontato, bensì demonizzato, chiamato Nimby. Ma esiste. Le attiviste che sono intervenute in questo incontro parlano di come si agisce, di come si costruisce, della rete che nasce non per fermare ma per fare. E questo sta avvenendo in tutto il mondo, dove succedono cose incredibili. Bisogna uscire dalle proprie convinzioni e andare sul campo, per vedere che ovunque esistono milioni di gruppi, di esperimenti e di esperienze, milioni di tecnologie, di idee diverse. Come tutto questo cambierà il mondo, o lo sta già cambiando, lo vedremo” (Ciuffreda 2015).

Negli ultimi anni era diventata sempre più critica verso le ideologie dei massimi sistemi e attenta invece ai gesti quotidiani, e anche per questo aveva approfondito la riflessione e l’analisi dei movimenti e delle alternative eco-sostenibili. E aveva molto apprezzato l’Enciclica ambientale “Laudato si'” di Papa Francesco, pubblicata pochi mesi prima della sua morte.

* Per la ricostruzione del pensiero di Giuseppina, devo ringraziare: Lidia Campagnano, Grazia Francescato, Aldo Garzia, Antonio Onorati, Angela Pascucci, Edi Rabini e Wolfgang Sachs. Degli errori, solo io sono ovviamente responsabile.

Bibliografia

Campagnano, Lidia. 2015. “Giuseppina Ciuffreda, una vita tra gli affetti e la politica”, il manifesto, 9 luglio 2015, http://ilmanifesto.info/una-vita-tra-affetti-e-politica

Ciuffreda, Giuseppina. 2015. “L’ambiente è una questione di democrazia” (testo trascritto da Daniela Patrucco, del Comitato ‘Spezia via dal Carbone’), Ecologia Politica, a. 25, n. 5, 9 luglio 2015,http://www.ecologiapolitica.org/wordpress/?p=1081

Ciuffreda, Giuseppina. 2012a. “Il debito verso la biosfera”, il manifesto, 3 febbraio 2012, p. 14,http://www.controlacrisi.org/notizia/Ambiente/2012/2/3/19417-il-debito-verso-la-biosfera

Ciuffreda, Giuseppina. 2012b. “Rio ’92. Pagar es morir; queremos vivir”, in Giuseppina Ciuffreda, Alexander Langer, Conversione ecologica e stili di vita. Rio 1992-2012, Bolzano, Edizioni dell’Asino, pp. 57-59

Ciuffreda, Giuseppina. 2010. “La natura tra capitale e lavoro”, il manifesto, 18 maggio 2010,http://www.ecologiapolitica.org/wordpress/?p=851

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