La storia ripete se stessa, lo fa in forme diverse, solo fingendo di cambiare copione. Basta tuttavia saperla leggere, per riconoscere le movenze dello scandalo che da sempre – come sottolineava Elsa Morante nel sottotitolo del suo romanzo più noto, La storia. Uno scandalo che dura da diecimila anni (1974) – ne accompagna gli sviluppi. In un periodo di confusione e frammentazione delle lotte che partono dalla difesa dell’ambiente per rivendicare il diritto alla salute, alla dignità del lavoro e alla tutela del territorio, è utile una reinterpretazione del lessico e dei riferimenti socio-economici e culturali, per recuperare linee interpretative del pensiero ecologista e solidarista, anche ideologiche ma, per quanto superate e scivolose, fondamentali per l’immaginario e le prospettive del futuro. Sta accadendo anche con i dibattimenti per due importanti procedimenti giudiziari avviati nel nostro paese in questi ultimi giorni del 2016: a Taranto il processo Ambiente svenduto contro i proprietari e manager dell’Ilva, e a Torino, dopo il pronunciamento di legittimità della Corte suprema, il processo Eternit-bis contro l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, ultimo proprietario di Eternit italiana, accusato – dopo la prescrizione nel 2014 del precedente processo per strage e disastro ambientale – prima di omicidio volontario nei confronti di 258 altre vittime dell’amianto e ora di omicidio colposo. Era atteso che nei dibattimenti emergessero le contraddizioni che da troppi anni avvolgono i concetti di sviluppo, territorio, salute e lavoro; concetti che declinati in modo compiuto continuano a esprimere il significato di un’intera società e permettono di guardare direttamente, senza ostacoli, alla complessità del mondo contemporaneo.
Nel processo Ilva, gli imputati si avviano ad uscire dal giudizio con il patteggiamento della pena, complicando la strada dei risarcimenti nei confronti delle oltre mille parti civili costituite a processo, con un conto dei danni da oltre 30 miliardi. Anche a Torino la giustizia per i morti d’amianto si allontana ancora perché il procedimento tornerà alla fase delle indagini preliminari, dopo che l’accusa è stata derubricata da omicidio volontario a omicidio colposo anche se “aggravato dalla previsione dell’evento”, spezzettando il processo Eternit-bis in quattro diversi tribunali: Torino, Reggio Emilia, Vercelli e Napoli e comportando un inevitabile allungamento dei tempi processuali per la trasmissione degli atti ai Pubblici Ministeri dei Fori ora competenti.
Indice
L’ambientalismo oggi
Le lotte ambientali – a Taranto, in Val Trompia, a Salto di Quirra e in val Susa, come in Sud America e in India – necessitano oggi di una visione su scala storica e internazionale, mentre gli impatti dell’intero ciclo produttivo globalizzato devono essere messi in luce, riconoscendo che le ingiustizie ambientali e le disuguaglianze sociali sono entrambe forme di violenza perpetrate in termini di classe, etnia e nazione. Il traffico dei rifiuti tossici, per esempio, riflette le divisioni geopolitiche fra Nord e Sud del mondo e colpisce in modo inversamente proporzionale alla ricchezza, perché le diseguaglianze si manifestano sul piano nazionale, di etnia, di classe, di genere e perfino di età, colpendo principalmente donne e bambini addetti a lavori umili che nelle zone di smercio li espongono maggiormente al contatto con esalazioni tossiche. Gli studiosi misurano ora la forza dell’ambientalismo anche in funzione della sua capacità di sintesi con le questioni sociali, proponendo un deciso mutamento nella lettura dei movimenti ecologisti. Non si tratta più di adottare uno sguardo interno all’occidente, che dal ritorno alla terra in opposizione alla rivoluzione industriale si muove fino alle battaglie ecologiste della seconda metà del Novecento (si veda Ramachandra Guha, Ambientalismi, Linaria, Roma 2016), occorre ora una prospettiva globale capace di intrecciare esperienze anche molto diverse: dalla lezione nonviolenta di Gandhi, agli attivisti sudamericani ai verdi europei. Gli studi più recenti (Rob Nixon, Slow violence and the environmentalism of the poor, Harvard University Press, Cambridge 2011; Joan Martinez-Alier, Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Jaca Book, Milano 2009) propongono all’ambientalismo contemporaneo una forma integrata di cultura scientifica e attivismo con passione comunicativa e partecipativa, parlando direttamente e assieme di scienza, politica e scelte etiche.
Nato fra le comunità dei nativi nord e sud americani, fra gli afro americani degli USA, diffusosi in Asia e nelle isole del Pacifico, il movimento di giustizia ambientale (Environmental Justice Movement – EJM) parte da una constatazione: negli ambienti più inquinati di un territorio abita, lavora o vive sempre la parte della popolazione più povera ed emarginata, e questo – dicono chiaramente gli studiosi – non avviene affatto per caso. Con ottica speculare, che dalla prospettiva politica si sposta su quella ambientale, segnaliamo anche la recente pubblicazione in Italia di una raccolta intitolata Rivoluzione e sviluppo in America latina (Jaca Book, Milano 2016), IV volume della serie Comunismo eretico e pensiero critico curata da Pier Paolo Poggio (Fondazione Luigi Micheletti di Brescia), con un saggio esplicitamente intitolato Razzismo e giustizia ambientale in Brasile di Tania Pacheco. L’ambientalismo, insomma, non è più quello dei ricchi, o meglio delle élites dei paesi ricchi, è quello degli ultimi nella scala sociale, mischia i loro linguaggi e chiede giustizia. In molti casi le battaglie ambientali sono una forma di difesa dei diritti umani; l’idea stessa di ambiente va ripensata perché le comunità che tentano di proteggere il proprio territorio e la natura che dà loro sostentamento, difendono la propria sopravvivenza.
Tornando in Italia, il principio della lotta per la giustizia ambientale sembra utile per tentare di ricollocare anche storicamente i processi già ricordati in avvio, a Taranto Ambiente svenduto, e a Torino Eternit-bis. Si tratta di due appuntamenti importanti non solo sotto il profilo giudiziario, soprattutto dopo le sentenze che alla fine del 2014 in poche settimane hanno visto successivamente assolti per prescrizione i padroni dell’Eternit di Casale al primo processo per l’amianto, i responsabili della Montedison per la discarica di Bussi sul Tirino in Abruzzo – il più grande sversamento abusivo di rifiuti tossici in Europa, – e quelli della Marzotto per lo stabilimento Marlane di Praia a Mare in Calabria, dove gli operai respiravano vapori velenosi. Gli esiti di questi due nuovi procedimenti giudiziari, perciò, condizioneranno anche le forme di lotta del futuro. Perché il fronte della lotta per i diritti – apparentemente escluso dagli orizzonti politico, culturale e sindacale, assestati solo sugli aspetti del mercato – è ormai progressivamente arretrato fino a trincerarsi dentro le aule di giustizia. Nel frattempo, accanto alle prescrizioni per reati di strage, disastro e omicidi plurimi legati alla produzione industriale, si condannano invece giornalisti e ricercatori, rispettivamente, per il lavoro di cronaca e di studio. La giustizia si dimostra così efficacissima e puntuale solo nell’opera di repressione e censura del dissenso arrivando – dopo il processo allo scrittore Erri De Luca e ai giornalisti Flavia Mosca Goretta di Radio Popolare e Davide Falcioni collaboratore di Fanpage e AgoraVox – a condannare un’antropologa Roberta Chiroli a due mesi per “concorso morale in violenza aggravata e occupazione di terreni” avendo usato il pronome “noi” partecipativo in una tesi sul movimento No Tav (si veda Scrivere del movimento No Tav http://lostraniero.net/2529-2/ ). Il caso del movimento No Tav ha una sua peculiarità: la Procura di Torino ha un pool che si occupa solo di questo, collezionando fino a quasi mille indagati e interventi repressivi disposti non nei confronti del movimento, ma per reati sempre commessi da singoli o da frange definite estremiste. In questi anni centinaia di persone sono state condannate con scriteriato utilizzo della custodia cautelare, una pioggia di misure non detentive per reati di lieve entità, misure preventive e fogli di via. Nel gennaio 2015, complessivamente 47 attivisti No Tav hanno collezionato 140 anni di reclusione – 130 anni in più di quelli comminati al processo del Vajont per la catastrofe del 9 ottobre 1963, – 1917 vittime stimate – che si concluse con due condanne a 8 anni e 8 mesi di reclusione il 25 marzo 1971, appena 15 giorni prima della scadenza dei sette anni e mezzo previsti per la prescrizione. Ora molti attivisti e ambientalisti parlano delle proprie azioni di intrusione e danneggiamento dei cantieri e delle strutture industriali come di legittima difesa contro i soprusi sociali e ambientali che subiscono e, perduta ogni altra possibilità di difesa nelle sedi politiche e istituzionali, rivendicano il diritto al boicottaggio, sostenendo anzi che si dovrebbero prevedere anche forme di reato per gli amministratori che millantano i benefici delle grandi opere e ne nascondono costi e problematiche.
Vajont: genocidio di poveri
Dai tempi del Vajont, per quanto riguarda i progetti delle cosiddette grandi opere basta prendere in mano i documenti stessi dei propositori, i piani di sviluppo, le analisi costi-benefici per cogliere la superficialità, l’incompletezza, il senso di propaganda con cui vengono redatti. Per questo ancora una volta vogliamo ricordare, accomunandole – come era già accaduto nel primo numero del Nuovo Sapere di Giulio Maccacaro (N. 768, gennaio 1974) – le storiche testimonianze di due protagonisti della terribile e scandalosa vicenda del Vajont: l’avvocato Sandro Canestrini e il geologo Floriano Calvino.
Floriano Calvino (1927-1988) fu un geologo noto a livello internazionale, fratello minore del più celebre scrittore Italo, nato a Sanremo, laureatosi aTorino nel1952 in ingegneria presso il Politecnico . Titolare della cattedra di Geologia applicata all’ Università di Genova , era specializzato nelle valutazioni d’impatto paesaggistico delle costruzioni di dighe. Venne incaricato, come unico geologo italiano, del ruolo di perito per il disastro del Vajont nel 1963. Attivo nella tutela delle vittime di calamità naturali imputabili all’azione umana, partecipò anch’gli al processo per il disastro della Val di Stava , nel 1985, in qualità di esperto nominato dalle famiglie vittime.
Sandro Canestrini, nato nel 1922 a Rovereto, in Trentino Alto Adige, laureato all’Università di Firenze con maestri come La Pira e Calamandrei, ha discusso la tesi a Padova con Norberto Bobbio. Fece parte del Cnl, dopo la Liberazione si impegnò nel Pci della sua regione dove poi collaborò anche con Alexander Langer. È stato Presidente nazionale del Movimento nonviolento per la pace e tra i fondatori dell’Associazione nazionale giuristi democratici. Tante le battaglie civili in cui ha prestato la sua opera di avvocato: parte civile nel processo contro i torturatori di San Sabba e in quelli per i disastri del Vajont, della Val di Stava e del DC9 Itavia precipitato a Ustica. Ha difeso i diritti delle minoranze politiche e nazionali, le minoranze etniche compresi anche “terroristi” altoatesini e autonomisti sloveni. Fra il 1960 e il 1980, fu l’avvocato di tutti gli obiettori di coscienza processati in trenta diversi dibattimenti davanti ai Tribunali Militari di Torino e di Verona. Ha prestato assistenza anche nei processi ambientali per inquinamento e danni contro la Montecatini di Mori, nei confronti della Montedison per inquinamento e danni alla laguna veneta.
Di Canestrini è memorabile il ruolo svolto come avvocato di parte civile per le vittime della tragedia del Vajont, quando denunciò con altissima tensione morale e civile i soprusi e le manovre di un sistema colluso durante il processo tenutosi a L’Aquila – spostato in Umbria per accoglimento della legittima suspicione sollevata dagli imputati nei confronti del foro Veneto – nel 1969. Canestrini svolse la sua accorata arringa impiegando diverse ore il 23 settembre 1969, temendo di essere interrotto e sollecitato dal presidente a svolgere una argomentazione più strettamente giuridica. Quest’ultimo però, dimostrando di rendersi conto del significato più ampio di tutto il processo, permise che l’avvocato portasse interamente a termine il suo discorso, raccolto poi in un volume “Vajont: genocidio di poveri” (Cierre edizioni, Verona 2003) dal quale riportiamo qui alcuni estratti, fondamentali per una lucida analisi storico politica, che – purtroppo – resta attuale rimandando direttamente ai processi odierni e ricordando anche la figura di Floriano Calvino, per la coraggiosa e isolata scelta di schieramento come perito geologo al fianco delle vittime del Vajont.
Di Floriano Calvino riportiamo la trascrizione di un intervento pubblico sui fatti del Vajont, del quale tuttavia non abbiamo recuperato finora né la data né il luogo in cui venne pronunciato.
Sandro Canestrini. Il mito della tecnica neutra e progressiva
Tutta la storia del nostro Paese è piena di fatti come questo e dai ‘ Vicerè‘ di De Roberto fino al ‘Gattopardo‘ di Lampedusa – per rimanere nel Meridione e per fare campione di riferimento solo a un certo periodo storico – è tutta spiegata e tutta capita la volontà di coloro che erano persuasi che solo non opponendosi frontalmente al nuovo si poteva validamente contrastarlo, ma che tutto doveva cambiare, perché tutto potesse rimanere come prima. Certo né il De Roberto né il Lampedusa pensavano alla tecnica né tanto meno ai tecnici degli idroelettrici, ma è sicuro che allora come oggi la tecnica è stata manovrata, diciamo pudicamente “psicologicamente”, come la prostituta della politica. Questo tipo di tecnici non stima né onore né dignità ma ha una sola coerenza, quella appunto di rimaner fedeli a degli interessi senza ideali, ma molto concreti. Nel nostro caso questa tecnica ha aiutato l’economia a persuadere la politica (che non desiderava altro che di essere persuasa) che assolutamente non c’era, per quella diga e per quel monte, nessun pericolo. Senza onore né dignità sapeva che il pericolo c’era, sapeva persino la carta d’identità del pericolo, con il nome, l’origine, le caratteristiche. Sapeva addirittura ciò che nelle normali carte di identità non si può scrivere, la data della fine e cioè la data in cui il pericolo non sarebbe stato più pericolo, ma attuale orrenda realtà di migliaia di croci. Senza onore né dignità questa tecnica ha aiutato questa economia a persuadere questa politica a disprezzare la gente, a calpestare gli interessi umani, a violare il bene della vita di tutti. Per questo abbiamo detto che non siamo d’accordo nell’indifferenza verso le concezioni del mondo, non siamo d’accordo che il futuro dell’umanità sia la tecnica, non siamo d’accordo che di per sé il piede umano sulla luna rappresenti qualcosa. Al servizio di chi è, la tecnica? Per quale politica l’uomo scopre gli spazi? Per obbedire a quali interessi si costruiscono le centrali elettriche? Si è calcolato che quel giorno sul Vajont in pochi minuti si è sprigionata una quantità di energia pari a due bombe atomiche, il doppio dell’energia che ha distrutto Hiroshima. Il dato tecnico è interessante, ma l’accostamento, repellente, è assai istruttivo. Anche sulla città giapponese si sono visti i frutti della tecnica. Perché? Per chi?
La società industriale ha dato anche quest’eccidio, e ha dimostrato in che modo essa ha sottoposto la tecnica e la scienza (anche la tecnica, e anche la scienza) a decisivi ineluttabili condizionamenti. Detto questo, in questo processo che è anche un processo alla tecnica bisogna dire che abbiamo visto come la tecnica possa essere, e sia troppo spesso in realtà, oggi nel nostro Paese, e non solo nel nostro, omicida, al servizio di una precisa volontà.
Ma vi è l’altro aspetto, l’aspetto forse più tristo di questo processo, e cioè quello dei tecnici come alienati, come uomini che hanno perduto la propria ombra, come uomini che al servizio degli interessi che sappiamo, ritengono che ciò possa essere giusto e doveroso e che veramente viviamo nel migliore dei mondi possibili. Questo è l’aspetto più tristo, questa catastrofe negli animi dei tecnici, che non è seconda alla catastrofe caduta sul Vajont per la sua obiettiva drammaticità, realtà tanto più drammatica, quanto più gli alienati non si accorgono di esserlo. Quando l’ing. Carlo Semenza raccomandava al tecnico che era suo figlio, al fine di far approvare certi progetti del Vajont, di «attenuare qualche affermazione», questo aspetto emerge in tutto il suo spavento.
Un padre raccomanda al figlio la menzogna: “Questa” è questa tecnica, umile con i potenti, ipocrita con tutti, feroce con i poveri, disumana, se è solo così che può manifestarsi. Il tecnico obiettivo, cioè il tecnico non al servizio dei potenti, non fa carriera, non fa strada, come è dimostrato da quell’ improvviso trasferimento dell’ing. Desidera, che fu una delle più evidenti manifestazioni della prepotenza del monopolio idroelettrico; non fa strada come non si permette di far strada al prof. Calvino, l’unico consulente tecnico italiano che il giudice è riuscito a trovare tra centinaia di specialisti e di professori di università, e che ha subito sentito addosso il morso della vendetta; gli altri sono Padoan, Sestini e Benedini, gli altri sono nel processo e fuori del processo, al servizio delle grandi concentrazioni. È stato ricordato qui da altri con quale angoscia difensori di parte civile e superstiti si sono sentiti dire, uno dopo l’altro, i no da parte del tecnici dei laboratori e delle Università, quando venivano a sapere qual era l’oggetto di una perizia chiesta dalle vittime. Credo che ognuno dei difensori di parte civile abbia fra gli atti delle lettere più o meno riservate e personali, in cui si dice – come in documenti che ho io – che non è possibile per l’interessato interpellato accettare l’incarico, avendo ricevuto autorevoli consigli negativi. Se a qualcuno potesse interessare sapere dei casi specifici, da chi sono stati dati tali consigli, non ha che da approfondire l’indagine. Ho tra le mie carte in un caso anche il nome di questo influente consigliere che, mando a dirlo, abbiamo visto tra i testi venuti al processo, naturalmente testimoni a senso unico.
Gervasoni nel suo lavoro ricorda quello che disse nel dicembre del 1965 il sindaco di Longarone: «Potentissime forze si muovono contro di noi. Abbiamo cercato per tutti gli atenei e non abbiamo trovato un docente, uno solo, disposto a redigere la perizia di parte per conto del Comune».
Ernesto Rossi, ricorda sempre Gervasoni, gli raccomandava: «Guardati dai tecnici che lavorano su commissione. Non perder mai di vista per chi essi lavorano. Sono prestatori d’opera come tutti gli altri. Possono dimostrare tutto e il contrario di tutto». Qui tutti gli imputati sono tecnici, legati a cordone ombelicale ai tecnici che non sono stati imputati, al comune servizio della classe dirigente. Della SADE è stato fatto un impero, da parte dei suoi dirigenti, e i funzionari suoi sono stati trasformati in cortigiani.
La scuola, la scienza, la tecnica al servizio del potere
La scienza. Oggi, come ha scritto Michele Rago, il problema della scienza non si presenta più come 200 anni fa e cioè vista nel suo conflitto con l’oscurantismo. Oggi la questione è il carattere disumanizzante che in una società economicamente legata alla legge del profitto la scienza assume, esaltata ed insieme avvilita, strumentalizzata, tenuta al guinzaglio da interessi che non coincidono con quelli generali, umani. Aveva ragione Mauro Cappelletti quando nel suo recentissimo volume ‘Processo e ideologie’ affermava: «In un mondo in pericolo una scienza consapevole e realistica non può non essere, essa stessa, una scientia periculosa». Certo! Ma davvero possiamo ritenere che oggi la maggior parte degli scienziati siano “consapevoli e realistici”?
Leggiamo dagli atti del processo, nello statuto del centro modelli idraulici: «A cura dell’Istituto di idraulica e costruzioni idrauliche dell’Università di Padova e della società Adriatica di Elettricità SADE viene costruito presso la centrale idroelettrica di Nove un centro modelli idraulici, per la costruzione e la sperimentazione di grandi modelli idraulici ai impianti in esercizio e in costruzione da parte della SADE». Quando si arriva a questo punto di fusione tra la scienza universitaria e gli interessi del monopolio industriale, siamo già alla scienza dimissionaria della sua dignità. Gli uomini della classe scientifica si sono nella stragrande maggioranza inchinati al vitello d’oro: facciamo un esempio tra le centinaia? Ecco il prof. ing. Marin, uno degli imputati di oggi, che è stato insegnante incaricato di comunicazioni elettriche prima e di trasmissione dell’energia poi, presso l’Università di Padova dal 1930 al 1965! Del resto basta vedere la ricchezza, l’imponente spiegamento, con la quale nei discarichi a difesa degli imputati vi è l’offerta di consulenze tecniche: professori e insegnanti pronti a venire a dimostrare che i loro colleghi imputati sono del tutto innocenti. Chi ha parlato autorevolmente di “viltà accademica”? Gli imputati lo sanno da chi queste parole sono state pronunciate, da un seggio insospettabile. Ed è da questa stessa “viltà” che è disceso il crimine, è anche da questo atteggiamento che è nata una strage che qualcuno ha definito assurda e che invece è spaventosamente nella logica sol che si abbia la pazienza di studiare con obiettività i 115 quintali delle carte processuali di questa esemplare vicenda giudiziaria.
[Per l’elenco di nomi, incarichi e responsabilità (…) N.d.r.], in verità manca lo spazio e il tempo, non certo la messe dei nomi. Per triste dovere di obiettività dobbiamo però subito riconoscere ed ammettere che il fenomeno di queste prostituzioni della scienza al potere economico non è limitato certo al campo delle acque: le cronache sono ogni giorno piene di abbondante documentazione. Il processo della Talidomìde, contro i produttori e i fabbricanti del terribile tranquillante-sonnifero, si è arenato nelle secche delle controperizie “scientifiche”: e non in Italia, ma in Germania a dimostrazione che lo stesso sistema produce gli stessi frutti. Farmacologi e neurologi sono accorsi alla sirena della difesa tecnica di quegli esecrandi imputati. Sempre nel campo della medicina, e per tornare in Italia, anzi nel Veneto, la collusione tra Università, potere accademico e potere economico, fra ricerca scientifica e grandi monopoli industriali, è giunta recentemente al Parlamento a proposito della convenzione intercorsa fra la facoltà di medicina dell’Università di Padova e la società Montedison per l’espletamento e la gestione del servizio di medicina di fabbrica a Porto Marghera. Era in quell’occasione persino emerso che dei medici dipendenti dalla Montedison erano stati nominati assistenti presso l’Università di Padova pur continuando a svolgere esclusivamente il loro lavoro nell’azienda. Del resto uno studio recentemente pubblicato ha dimostrato che, negli anni trenta, otto ingegneri su dieci, usciti dall’Università di Padova, erano stipendiati o in qualche modo “agganciati” alla SADE. Qualcuno ha parlato addirittura di tecnici “condizionati” come i cani di Pavlov.Pochi giorni fa un «gruppo di studio sulle strutture didattiche» della facoltà di ingegneria dell’Università di Padova ha compiuto un’analisi specifica dove leggiamo queste parole: «Lo studente si trova di fronte a piani di studio prefissati, che deve passivamente subire. Quando arriva al quinto anno, lo studente assorbe passivamente anche gli argomenti più scottanti, quali ad esempio corsi di economia e di direzione aziendale: il sistema costruisce i tecnici che gli fanno comodo». Nel febbraio di quest’anno si è tenuto a Verona un convegno nazionale, il primo, dei geologi italiani, nel quadro delle manifestazioni di quella Fiera. Leggiamo alcune righe di un documento sconvolgente: «Non c’è un geologo presso le sedi del genio civile, non c’è un geologo presso le amministrazioni provinciali, non c’è nessun geologo presso le direzioni delle miniere. Lo Stato conta soltanto su sette (signori giudici, ho proprio detto sette) persone che dovrebbero occuparsi di tutti i problemi geologici che quotidianamente si pongono all’esame dei ministeri dell’agricoltura, dei trasporti etc. (…). Nell’Unione Sovietica i geologi di Stato sono 15.000, negli Stati Uniti 12.000, nella Germania federale sono 3.000». Cosa vi è ancora da aggiungere? Sette geologi alle dipendenze dello Stato per la difesa del suolo. Gli altri sono tutti nell’industria o comunque impiegati o agganciati (abbiamo visto cos’è l’Università) ai centri del potere privato o paraprivato. E si tenga presente la drammaticità di una situazione quale quella italiana dove la classe dirigente che ci ha dato il Vajont, ci aveva già dato Agrigento, i fiumi senza argini, l’inquinamento delle acque. Le alluvioni senza difese, le città che sprofondano.
La legge fondamentale che regola il servizio geologico dello Stato porta la data del 1867 (proprio 102 anni fa!): il nostro stivale che è tutto uno sfasciume geologico è studiato quindi ancora empiricamente. Non esiste una carta delle frane, nulla si sa sulle condizioni di stabilità dei terreni. Le imprese fabbricano dighe, scavano il petrolio e il metano, traforano gallerie, sbancano enormi quantità di roccia per la costruzione dei ponti, spianano terreni per le strade, costruiscono acquedotti: e non esiste nessun dato geologico serio ed obiettivo. Il paese benedetto per chi si fa su le maniche e va all’arrembaggio, con il suo codazzo di tecnici e di scienziati pronti a dilaniare, se mai lo incontrano (e non lo incontrano mai), il geologo di Stato.
Eppure in Italia i geologi sono 5.000 ma sono stati impiegati altrove, fanno lavori marginalmente legati alla loro professione, insegnano matematica nelle scuole medie, salvo quelli che servono direttamente i padroni. Il Consiglio nazionale delle ricerche nella sua ultima relazione generale sullo stato della ricerca scientifica e tecnologica in Italia ha dovuto comunicare ufficialmente che il nostro paese e all’ultimo posto nei confronti di tutti gli altri paesi europei sia per quanto riguarda la spesa per la ricerca scientifica e tecnologica, sia in rapporto al numero degli abitanti che in percentuale del reddito nazionale lordo. Da una parte quindi l’abdicazione dello Stato, dall’altra il disegno ben precise di risanare la crisi della ricerca scientifica subordinandola totalmente alle esigenze dell’industria privata. Ha detto bene recentemente Piero Bassetti: « l’Italia del 1969 – egli parlava alla Camera di Commercio di Milano – è un paese centauro: ha i piedi nel sottosviluppo e la testa nel supersviluppo ».
Ma se tutto questo è vero, come inconfutabilmente lo è, signori del Tribunale, come possiamo meravigliarci che la Democrazia Cristiana in sede di Commissione Parlamentare d’inchiesta sul disastro dei Vajont abbia sostenuto ed imposto a maggioranza la non colpevolezza del trust elettrico? Come meravigliarsi che l’Enel oggi, anche in questo processo, assolva solo la funzione di scudo del monopolio privato?
Apro un settimanale che i miei avversari amano, è il settimanale Gente dell’11 dicembre 1968. Titolo su 9 colonne: «Il Sindaco di Longarone rivela un incredibile retroscena del processo del Vajont. Nessun italiano voleva aiutarci a cercare la verità». Guarda, guarda! Su questo giornale simili affermazioni meritano di essere lette, e quindi leggiamole: «E stata una impresa mostruosa, una fatica tremenda. Dovemmo batterci contro un complesso di interessi non solo economici ma anche politici, pubblici e privati, che tentavano in ogni modo di coprire e far dimenticare la tragedia… i responsabili si trinceravano dietro una difesa tecnica spietata … tendente soltanto a nascondere la verità. Un imponente bilancio consentiva loro di disporre di migliaia di milioni per combatterci… Cominciò a profilarsi quanto fosse difficile combattere contro chi tiene in mano enormi forze economiche. Girammo tutte le Università italiane: Milano, Padova, Genova, Bologna, Trieste, Roma, Perugia: non riuscimmo a trovare un solo tecnico disposto a darci un parere. Tutti si tiravano indietro. Molti ci dissero chiaramente: “abbiamo già lavorato con la SADE e con l’Enel e non vogliamo avere noie con queste società che ci pagano».
Non è il vecchio sindaco Arduini che dice queste cose enormi, il marxista combattuto e vinto dal potere: è il signor Protti, clerico-liberale di destra, e del resto su questo settimanale solo lui avrebbe potuto parlare. Ma sentiamo subito dopo cosa ha detto nella sua intervista l’avvocato del signor Protti: «Ciò di cui credo si parlerà a lungo in questo processo riguarderà quanto si è fatto o non si è fatto prima dell’evento catastrofico da parte di una grande società finanziaria, da parte della cultura universitaria italiana, da parte dei massimi organi dell’amministrazione pubblica. E quanto si è fatto dopo il disastro da parte degli stessi soggetti. Ritengo per esempio che lo Stato avrebbe dovuto accorrere subito per aiutare nella ricerca della verità e delle responsabilità in questo cataclisma apocalittico. Questo impegno etico da parte dello Stato e mancato».
Un altro avvocato del collegio di parte civile gradito alla maggioranza politica, sul giornale “La Stampa” del 20 febbraio 1968 ha raccontato: «Incominciammo ad interpellare tecnici, ma ci sentivamo dire invariabilmente di no, che non potevano assumere un simile incarico. Uno ci parlò chiaramente: “l’idraulica può essere pura o pratica: quella pura è materia da Università, quella pratica mi fa guadagnare. Perché mi dovrei mettere in urto con aziende che in questo settore hanno una voce importantissima?”».
La parola ora ritorni al Giudice Istruttore il quale a proposito della posizione del prof. Penta, imputato nel processo ma deceduto prima del giudizio, scrive che tale posizione «può farci riflettere sulle condizioni della cattedra in Italia oggi ed indurci a qualche considerazione sui rapporti tra scienza e industria o a qualche osservazione di costume… Il fatto che l’imputato Penta versasse in quella particolare situazione personale non risolve gli stretti legami che allacciano l’intera Commissione di collaudo della diga, il Presidente della IV sezione ing. Batini, e l’ing. Capo del Genio Civile Violin». Chi era Penta e perché il Giudice Istruttore parla così severamente di lui? Il dott. Fabbri precisa subito che il Penta «mentre svolgeva attività di controllore pubblico di un impianto della SADE (appunto il Vajont) svolgeva nel contempo attività di consulente della stessa SADE per altro impianto (quello di Pontesei)».
(…) È chiaro che tutta questa gente non può perdonare al prof. Calvino di essere andato, con la sua coscienza e con la sua scienza, contro corrente ed è logico che sia stato decretato il suo macello professionale; del resto si legga qui il discorso sui persuasori occulti e palesi che hanno indotto molti che pure erano onesti come Calvino a non accettare incarichi che contrastassero gli interessi del gruppi di potere. Chi regola la vita, le promozioni, le soddisfazioni professionali, gli emolumenti del tecnici cosiddetti indipendenti e cioè di quelli che non sono legati da un rapporto organico e ufficiale di dipendenza (perché di costoro abbiamo già parlato) con i gruppi dominanti? L’industria privata in certi settori oppure fino ad una certa data e poi l’impresa cosiddetta pubblica: ma il modo di comportarsi e dell’una e dell’altra è identico. Il tecnico indipendente o rientra nel sistema delle acquiescenze o viene perseguitato: molte cattedre universitarie sono dipese e dipendono dal rapporto tra il tecnico (che sia o che voglia essere insegnante) e le alte sfere.
La casta degli opportunisti
Abbiamo già visto come la sentenza istruttoria abbia esemplificato nomi di tecnici che sono o che sono stati nell’insegnamento. E come il tecnico dipendente dal potere in modo ufficiale ed organico è lo strumento della volontà del potere nella specifica disciplina, il tecnico indipendente e soprattutto quello sulla cattedra – lo hanno rilevato acutamente gli studenti di Padova – è lo strumento della formazione di un certo tipo di coscienza professionale negli allievi. Il cerchio si chiude, il meccanismo funziona perfettamente: da quelle cattedre lo studente apprende che la tecnica è al servizio del potere, che la tecnica deve prostituirsi al potere. Nei casi migliori lo studente viene persuaso che la scuola è solo un vivaio per l’industria, un vivaio pagato con denaro pubblico per interessi di gruppi privati o di gruppi nominalmente pubblici, ma in realtà ispirati nella loro condotta da criteri privatistici. Questi insegnanti formano del futuri tecnici e dei futuri insegnanti tagliati ad uso e consumo della grande industria.
E cade qui giusto ricordare come da questi gruppi di potere (sempre conservatori, assai spesso reazionari) sia stata scatenata, agli albori della nascita del movimento studentesco, una massiccia controffensiva. Dall’attacco frontale alla denigrazione, dall’ingiuria alla corruzione, costoro nulla hanno risparmiato, in prima persona o attraverso i loro organi di informazione (eufemismo in luogo di deformazione e di disinformazione), e cioè quasi tutta la catena della grande stampa benpensante del nostro paese, per stroncare il nascente movimento. Naturalmente ancora una volta lo Stato come tale, la polizia, l’esecutivo tutto e spesso il giudiziario hanno assunto posizioni assai simili a quelle di questi gruppi. Il movimento studentesco infatti, aiutato da quella parte di insegnanti che non ha abdicato alla funzione veramente educativa, aveva ed ha questa enorme colpa: di chiedere una scuola diversa, che non sia un allevamento di capponi, di pretendere un insegnamento che si dirigesse ad altri ideali che non a quello di trovare la strada dell’anticamera delle varie SADE. (…) La denuncia del ruolo di classe della scuola nella società capitalistica, il condizionamento che su di essa viene esercitato dagli interessi privati trova una nuova fonte drammatica di informazione, di documentazione, di esemplificazione attraverso questo processo.
Bisogna saper superare tutto l’aspetto puramente riformistico presente in tante indagini e in tanta saggistica sul ruolo dell’Università nella società, sulla necessità di un più organico e progressivo nesso fra questi due momenti. Questo non basta più: i fatti che stanno dietro a questo processo (un solo esempio, in fondo, nel mare tranquillo della normalità, della consuetudine) dicono chiaramente che ogni razionalizzazione dell’Università e della ricerca scientifica può solo rendere più avanzata e raffinata la macchina ad una sola dimensione della strumentalizzazione, della subordinazione: e questa macchina continuerà a funzionare finché resteranno in vita i rapporti di produzione attuali, la logica del profitto, l’interesse dominante del grandi gruppi industriali. La lotta degli studenti, la lotta per una scuola democratica diventa quindi inevitabilmente lotta di classe: ed è su questo terreno che il movimento studentesco trova il collegamento naturale con gli altri sfruttati, come è da questo terreno che potrà svilupparsi ancora l’ulteriore elaborazione ideologica e l’ulteriore analisi del movimento studentesco.
Concludiamo, riassumendo, con questo argomento. È splendido il sogno del programma del Massachusetts Institute of Technology (il famoso MIT oggi in piena rivolta ideologica): «Infondere ai nostri studenti la speranza che essi potranno dedicarsi alla ricerca sicuri che i benefici della scienza e della tecnologia andranno al genere umano». Però oggi la realtà è diversa, anche quando il ruolo che nel mondo industrialmente progredito i tecnici svolgono nel processo produttivo è passato o sta passando a nuovi compiti: i tecnici diventano tecnocrati e cioè compartecipi al controllo della produzione, per cui qualcuno ha potuto parlare di una “nuova classe”. Ma, tecnici o tecnocrati, sempre istituzionalmente nemici della tecnologia sociale, quando la produzione dell’industria potrebbe esser volta a depurare le acque, ad eliminare le sostanze nocive dai camini e dai gas di scarico, a pulire i mari, a distruggere i rifiuti della città, a disperdere i veleni chimici, a creare città abitabili, industrie igienicamente protette, il verde, i parchi, i giochi. Tecnici o tecnocrati sono ancora inseriti nella “grande società”, sono sempre persuasi della funzione repressiva della società attuale, che essi sostengono. La tecnica ci ha dato Hiroshima ed è pronta a darcene altre cento. Ha detto bene Marcello Cini quando ha sottolineato che il minimo che si può affermare è che «la tesi della neutralità e del valore assoluto, asettico, esente da ogni compromissione sociale della scienza e della tecnica … è un modo di liberarsi dalla responsabilità di scegliere delle priorità scientifiche e tecnologiche che traggano invece alimento dai bisogni delle società umane, dalle loro contraddizioni materiali, dall’obiettivo di costruire nuovi rapporti, più giusti, più liberi, più uguali, quando la misura di tutto, della scienza, come della propria vita, sono i bisogni del più diseredati del fratelli umani».
È inutile recriminare che la scienza e la tecnica progrediscano, mentre la mentalità di ieri e i rapporti sociali di ieri permangono basati sulla forza, sulla potenza, sull’egoismo, sulla sopraffazione: non è lagnandosene che si rimedia a tutto ciò, ma denunciando apertamente la verità. Chomsky scrive, a proposito degli intellettuali che collaborano al servizio del potere: «il grande scandalo del nostro tempo è questa classe di mandarini specializzati nel fornire giustificazioni al regime vigente. E lo fanno in nome della fine dell’ideologia. Questi intellettuali talvolta protestano contro le storture del sistema giudiziario e non vogliono comprendere che esse non sono altro che la proiezione delle storture del sistema economico, la garanzia giuridica del privilegio economico, per cui non si possono combattere le prime se non si combattono anche le seconde, e viceversa».
Fatalità o non fatalità dei cosiddetti disastri naturali
Ma c’è un altro punto sul quale credo bisogna essere assai chiari: è quello relativo ad una argomentazione fondamentale della difesa degli imputati, e cioè che il disastro è accaduto per fatalità di fenomeno naturale. Ossia, in altre parole, che la colpa di ciò che è successo è del buon Dio. È una giustificazione che cominciò a nascere quando questi uomini si accorsero che passavano i mesi e gli anni, che i veneti non avevano fatto giustizia sommaria, che l’opinione pubblica iniziava ad essere disposta ad inghiottire anche le ipotesi più assurde.
Nel rischio che a ciò qualcuno creda, diciamo che in tutto il processo corre la prova evidente, palpabile, sovrana che ciò che è accaduto è colpa dell’organizzazione umana, dell’orgoglio, dell’avidità, della legge del profitto. In una drammatica denuncia il Comitato dei superstiti del Vajont ha scritto tra l’altro: «La catastrofe non è stata una fatalità, un evento naturale ed imprevedibile, ma la conseguenza conosciuta e studiata dell’invaso di un bacino artificiale che si volle portare ai massimi livelli». Sarà bene intenderci: noi non vogliamo qui spendere neppure una parola a proposito della colpa, che assurge a gradi di criminalità impensabili, di quelli di costoro che sapevano, con anticipo di mesi ma certamente di settimane, anche il torno dei giorni in cui tutto sarebbe venuto giù, e non vollero dare l’allarme e non vollero dire la verità. Che dobbiamo dire infatti di chi può assistere freddamente ad un’agonia, che egli può evitare e che non vuole evitare? No, noi intendiamo l’altro aspetto della questione, quello appunto delle pretestuose colpe della natura nel disastro.
Nulla c’è di meno naturale della frana del Toc: abbiamo già visto che la SADE ben sapeva da anni quale era l’esatta natura geologica della montagna, ben aveva capito che le frane e gli smottamenti, i rumori e i movimenti denotavano che l’irreparabile stava per compiersi, in diretta ed unica relazione con lo sfruttamento della diga e la presenza di enormi quantità di acque. In questo nostro paese dove le sciagure nazionali si ripresentano a ritmi sempre più frequenti ad una opinione pubblica non del tutto cosciente delle loro cause, e dove al destino e alla fatalità vengono addossate le colpe della negligenza dei responsabili, il fenomeno del Vajont è un esempio da manuale.
La frana del monte Toc era stata prevista tre anni prima, e calcolata in tutte le sue possibili conseguenze, compreso lo sterminio di una intera popolazione. Imputata la SADE, imputato l’Enel, ma anche certamente lo Stato che non è ignorante della insaziabile avidità del monopolio, privato e delle compiacenze dell’Ente di Stato. Lo Stato che, come è stato scritto, mostra un uguale volto di follia burocratica ai superstiti del Vajont, agli alluvionati del Polesine e del Biellese, ai terremotati di Irpinia e della valle del Belice; «lontano dagli uomini» come è stato giustamente detto, ma assai vicino agli interessi del grande capitale.
Hanno quindi ragione i superstiti quando affermano: «la nostra battaglia è la battaglia di Venezia, di Porto Tolle, del Polesine, di Firenze, di tutte le zone colpite dal dissesto idrogeologico e dall’incuria del Governo, condannate alla miseria e alla degradazione». È una battaglia per una diversa scala di priorità nelle scelte economiche e negli stessi valori morali che accomuna la contestazione della naturalità di fenomeni sia, come quello del Vajont, definito dalla classe dirigente come ‘eccezionale e imprevedibile’, sia di quelli (alluvioni, terremoti, crolli, incendi) definiti ‘inarrestabili’.
Perché alla radice di questi cosiddetti fenomeni naturali vi è l’arretratezza civile, la carenza urbanistica, la presenza della speculazione, il marcio della burocrazia che fanno sì che una pioggia diventi un dramma, come in Piemonte, o un terremoto, come in Sicilia, diventi una tragedia. A proposito: dov’è la naturalità del crollo di Agrigento? E il monte Toc non era già stato da decenni definito «una montagna senza piedi»? E non è un caso che nei nostri riferimenti si accomunino le zone montane del nord e le zone del meridione, perché ambedue hanno pagato prezzi altissimi all’espansione capitalistica e dove solo il mendace può parlare di “natura ingrata”. Sono tutti esempi del livello di subordinazione agli interessi del gruppi di potere cui lo Stato stesso ha condannato intere regioni del nostro paese. Per le classi dominanti il Vajont è solo, come molti altri, “un incerto del mestiere”. E pertanto è vero che anche questa strage rientra in un “ordine naturale” ma non degli eventi bruti, bensì del sistema che regola la nostra società e le stesse leggi violentate della natura.
Le inadempienze, le colpe nei confronti dei decisivi problemi della montagna e del suolo, dei fiumi, della sicurezza e della vita della gente, hanno nomi e volti precisi, sigle prestigiose, con apparati tecnici e culturali al loro servizio. Quando i pullman, pagati con sacrificio dai superstiti, percorrono l’Italia per giungere dalla Valle del Piave al Tribunale dell’Aquila, si fermano nelle tappe del dolore in altre città e in altri paesi che hanno subito le conseguenze di disastri, identici nella loro natura anche se non nella enormità dello scempio. Vi è uno scambio di esperienze terribili, dalle quali emerge una volontà precisa, quella di lottare per cambiare le cose. I giovani volontari del servizio civile internazionale ci hanno dichiarato: «non vogliamo più andare a spalare il fango e a raccogliere i morti ma siamo decisi a lavorare perché queste cose non accadano mai più». L’ammaestramento che nasce, invincibile, è ancora una volta la necessità della gestione dal basso anche di queste lotte per un nuovo indirizzo della politica nazionale. Tutti costoro hanno capito che l’unica ragione delle loro disgrazie sta nel fatto che finora i poveri non hanno avuto potere, che ancora oggi i poveri non hanno potere.
Le carte del processo ci dicono che la frana si era preannunciata con una grande spaccatura a emme maiuscola sul fianco del Toc. La emme della morte non è stata incisa né da un Dio crudele, né dal destino, né dalla natura scatenata e lo hanno capito bene i cittadini di Longarone quando si sono gemellati alla città gallese di Aberfan, dove qualche anno fa 123 bambini di minatori rimasero sepolti, mentre erano a scuola, sotto una frana di detriti di una miniera di carbone adiacente. Davvero, né dèi crudeli, né una natura scatenata, né un cinico destino avevano accumulato quei detriti vicino alle mura dell’edificio scolastico …
Non esiste un progresso con la P maiuscola
Già, vi è la questione del progresso, la questione che gli sprovveduti, gli ipocriti e i malvagi pongono sempre, ed hanno posto puntualmente anche questa volta, sul progresso che miete per sua stessa legge delle vittime innocenti. Non sarà inutile intendersi anche su di ciò.
Leggiamo negli atti che l’imputato ing. Francesco Sensidoni non è alle sue prime esperienze in fatto di un suo personale contributo al progresso. Infatti dalla inchiesta scritta di testimonianze a suo favore vediamo che il nostro ispettore generale del Genio Civile presso il Consiglio Superiore del Lavori Pubblici e componente della commissione di collaudo del Vajont aveva già avuto, quasi trent’anni fa, modo di mettere la sua scienza al servizio del progresso in quel di Tobruk e dintorni durante la seconda guerra mondiale. Un generale capo di Stato Maggiore è stato offerto, tra gli altri, come testimonio per venire a dirci che l’ing. Sensidoni aveva una eccezionale competenza tecnica in materia di impianti idrici nel deserto e che in tal modo aveva contribuito (testualmente dalle righe del suo difensore) a tener alto il morale delle truppe (fasciste) poiché quest’ottimo tecnico aveva assicurato il rifornimento idrico «alle nostre colonne marcianti»; appunto, scrive il suo difensore, l’ing. Sensidoni, nell’occasione aveva dimostrato «un immenso valore tecnico e morale» (signori del Tribunale e proprio scritto immenso e tecnico e morale!). Noi vorremmo ora chiedere: il progresso al quale lavorava nel deserto l’ing. Sensidoni e che era al servizio della guerra d’aggressione e lo stesso tipo di progresso al quale doveva servire la diga del Vajont?
Questo vecchio fascista, di cui il suo difensore crede di tessere gli elogi in questo modo, a quale tipo di progresso pensava quando, tanti anni dopo, si prestava supinamente a servire gli interessi della SADE?
Certo so bene che la risposta superficiale e retriva e bell’e pronta: il progresso è tecnica e non è politica, il progresso è tecnica allo stato puro, il progresso è “neutro ed asettico”; grazie tante: abbiamo già detto quello che pensiamo della tecnica e ormai sappiamo che non è mai stata allo stato puro. Che la tecnica è sempre al servizio di qualche cosa, a Tobruk al servizio di un regime, sul Vajont al servizio della SADE, fascismo e SADE del resto, come anche sappiamo, sono espressioni di uno stesso sistema economico-sociale. La risposta superficiale e retriva è appunto anche che il progresso causa sempre delle vittime e che trafori e ponti e dighe grondano sangue. Non siamo per nulla d’accordo: infatti quando la molla per la costruzione di queste opere è solo il profitto, il sangue corre sempre e correrà sempre di più, perché crediamo assai poco o nulla nella ‘fatalità’ degli infortuni sul lavoro. E quando i tecnici sono come Sensidoni e i suoi amici non facciamo certo fatica a capire che il contributo di sangue è in ogni caso mille volte maggiore di quel margine di ‘fatalità’ che pure dovesse esserci. Quando i tecnici del progresso acconsentono ad operazioni pazzesche come quelle compiute dalla SADE per il Vajont, essi prevedono e programmano il disastro.
Quindi anche qui non fatalità dovuta al destino per le vittime sul lavoro, ma gelida previsione di come, quando e perché tali vittime verranno immolate. E se ciò è vero per i normali (è davvero spaventoso dover usare tali termini) infortuni sul lavoro, ciò è ancora più vero per quell’infortunio sul lavoro alla ennesima potenza che costò la vita agli abitanti di interi paesi della Valle e del monte del Vajont.
C’è stato chi ha scritto che sono ancora tutti aperti nella società di oggi, all’est e all’ovest e nel terzo mondo, i problemi di un progresso «non moderno» e «non fondato sul benessere»: crediamo che sia proprio così soprattutto quando i gruppi economici detentori del potere stimolano la crescita di bisogni, in modo apparentemente disordinato ma che è legato alla possibilità della produzione e alla necessità della sua espansione. È un argomento d’importanza fondamentale che si dovrà riprendere.
Ma torniamo più direttamente al nostro processo e a ciò che scrivono i periti, i periti della perizia vera, quelli della seconda perizia degli stranieri e di Calvino (…)
Intervento del Professor Floriano Calvino (Sanremo, 1927 – Genova, 19 gennaio 1988) docente di geologia applicata all’Università di Genova
Vorrei parlare brevemente, soprattutto su due temi: il primo di carattere rievocativo dovrebbe servire a ricordare, perché non se ne perda l’ammonimento, il ruolo svolto dalla scienza nella determinazione prima, nel trattamento dopo della catastrofe del Vajont; il secondo, di maggiore attualità, potrebbe consistere nella verifica di se e quali cambiamenti siano intervenuti tra gli operatori della scienza nei riguardi dell’esercizio di attività pericolose, della gestione del territorio, della prevenzione delle calamità.
Scienza e Vajont, se ne è parlato tanto all’epoca del disastro, del successivo processo e persino tra gli studenti del ’68. Quasi non se ne era parlato invece prima della catastrofe, questo perché non parve possibile a nessuno che la SADE non sapesse quello che faceva. Fu per questa ragione che nessuno si allarmò veramente fino all’ultimo; non potevano immaginare le vittime, i pochi superstiti che dietro alla realizzazione di un’opera, che stava per stabilire il record mondiale del suo genere, si celassero un pressapochismo artigianale è una cinica supponenza a fare da supporto prima a un’avida prospettiva di facile guadagno monopolistico e poi, a nazionalizzazione avviata, a una furbesca operazione da pataccari. Mai si era visto un progetto così importante, pur tecnicamente ineccepibile a livello di calcoli per il calcestruzzo, rimanere tanto manchevole sotto l’aspetto dell’indispensabile conoscenza del contesto naturale in cui si sarebbe dovuto inserire. E non mi riferisco solo al fatto risaputo che le paginette della relazione geologica, prescritta dalla legge, fossero la ricopiatura di un antico rapporto scritto per una diga molto meno alta e ubicata in altro punto della valle, né alla totale esclusione di rilievi geologici, i quali non appena eseguiti a esercizio già avviato, non mancarono, come non avrebbero mancato se fatti prima, di rivelare l’instabilità del fianco del monte Toc bagnato dal lago artificiale. Mi riferisco anche alla sottovalutazione progettuale della resistenza della roccia di imposta della diga e alla sua tenuta idraulica, tanto che in sede di costruzione dovettero essere prese colossali e impreviste misure di consolidamento e di impermeabilizzazione. Una volta rivelatasi nei suoi contorni la frana del ’63 con 4 anni di anticipo grazie alla comparsa della nota fessura perimetrale attraverso la montagna, fu dato per scontato che sarebbe caduta. Tanto è vero che fu costruita la famosa galleria del by pass per collegare i due rami del lago che ne sarebbero stati separati è allo scopo di poter continuare lo stesso la produzione [di energia elettrica, N.d.C].
Ma cosa fu fatto per la sicurezza della popolazione?
Anziché tenere il lago vuoto finché non fosse caduta la frana, furono ripresi gli invasi a quote sempre più alte e sempre più vicine alla quota di massima ritenuta di 722,50 metri, raggiunta la quale sarebbe stato conquistato l’ambito certificato di collaudo. Fu a quel punto che l’Università cara alla SADE, sapete quale, intervenne ancora una volta. Già si era creata il grosso merito di non aver dato alcun fastidio alla progettazione, questa volta però le fu chiesto anche di fare, e precisamente di fare un modellino del lago e della frana per stabilire quale fosse il livello di sicurezza cui mantenere lo specchio d’acqua in occasione della caduta di quel pezzo di montagna. Ma un po’ perché da una parte furono forniti dati ottimistici, un po’ perché dall’altra parte si riprodussero nel modello frane troppo mansuete, viene fuori dagli esperimenti un livello di sicurezza guarda caso molto vicino al massimo invaso, a quota 700 per l’esattezza. Ciononostante anche quota 700 fu superata dalla giovane gestione ENEL composta da vecchi dipendenti SADE, tesi a dimostrare così, non certo per motivi di pubblico interesse, che il Vajont era un bene elettrico e come tale doveva venirne pienamente indennizzata la nazionalizzazione.
Pur nel finto sforzo di pervenire a sperimentali previsioni del rischio a nessuno volle venire in mente che la riproduzione in piccolo del Vajont era già stata attuata allorché nel 1959, una frana di 3 milioni di metri cubi aveva investito il vicino serbatoio SADE di Pontesei. Sarebbe bastato fare dei conti molto semplici per determinare la scala di quel ben più realistico modello. A posteriori i conti sono stati fatti e la correlazione fra i due eventi apparve impressionante, infatti la frana di Pontesei si staccò su un fronte di 400 m, alta 40, e generò un’onda alta 40 m. La frana del Vajont si muoveva su 2000 metri di sponda, cinque volte tanto e per uno spessore di 200 m, ancora quintuplo; il modello di Pontesei si poteva e si doveva quindi considerare in scala 1:5.
Come non attendersi allora che la frana del Vajont suscitasse un’onda cinque volte maggiore dell’onda di 40 metri avuta a Pontesei, cioè alta quei 200 metri che nell’area essa raggiunse? ?
Ma i dati di Pontesei rimasero segretissimi per tutti: autorità e consulenti della SADE e dell’ENEL, controllori di stato e popolazione, prima e anche dopo la catastrofe maggiore, al punto che chi vi parla ebbe a subire una minacciosa reprimenda dal difensore, professor Conso, per aver osato capirli e utilizzarli come schiacciante prova della prevedibilità dell’evento durante la celebrazione del processo al Tribunale dell’Aquila.
Già la scienza forense con qualche lodevole eccezione, non mancò di erigere un formidabile muro a difesa del manipolo degli imputati, figure di secondo piano è vero, ma pur sempre rappresentanti dei poteri in colpa. Tra le eccezioni, a confermare la regola, v’era quel professore senatore, avvocato di parte civile, che al momento dell’Aringa passò nel campo avversario. Naturalmente fra le eccezioni non v’era quel professore, capo del governo, poi fugace capo dello Stato, che aveva promesso giustizia sulle fresche tombe di Fortogna, e che fu invece avvocato dei colpevoli.
Ma fu la scienza naturalistica e ingegneristica rappresentata da uno stuolo di cattedratici a dare la più clamorosa prova di soggezione al cosiddetto capitale di rischio, da sempre incline a far correre il medesimo a lavoratori e popolazione, piuttosto che rischiare in proprio. Distribuiti tra periti d’ufficio periti di parte, esperti ministeriali, elargitori di spontanei pareri, geo-mendaci e idro-mendaci – così li avrebbe chiamati poi Guido Nozzoli nei suoi servizi sul Giorno – si affannarono a dimostrare che la frana e la conseguente inondazione erano fuori di ogni possibilità immaginativa. Ma anche questa volta la scienza di parte fu sconfessata, come lo era stata ad opera dei fatti, la scienza che aveva voluto il Vajont. Furono tre scienziati stranieri, che ebbi l’onore di assistere, a dire la verità sulla catastrofe in sede giudiziaria. Li voglio ricordare qui con affetto ora che tutti e tre sono scomparsi: Henri Gridel, direttore del Laboratorio idraulico delle Électricité de France (EDF), ex combattente dell’armata di liberazione di De Gaulle; Marcel Roubault, rettore della Ecole National De Geologie Appliquée di Nancy, socialista, padre dell’energia atomica francese; Alfred Stucky rettore del Politecnico di Losanna, amico di Lenin in gioventù, progettista di molte dighe fra le quali quella che tolse al Vajont il primato dell’altezza.
Questi uomini superiori e sereni si prestarono a leggersi atti processuali che riempivano interi armadi e ristabilirono autorevolmente quella verità che anche i non tecnici avevano subito adombrato. Non si doveva mettere l’acqua nel serbatoio del Vajont; si sarebbe comunque dovuto dare l’allarme con giorni di anticipo allorché i movimenti della frana ne segnalarono l’irreversibile accelerazione.
Sì, perché il fenomeno era, come dicevano i tecnici addetti, sotto controllo: ogni movimento veniva infatti registrato al millimetro, ma il controllo si fermava lì. Uno dei capisaldi coprì esattamente 430 cm in 40 mesi, poi parti incontrollatamente a 60 km all’ora e fu la fine.
Dopo la amarezza della rievocazione, mi piacerebbe di poter dire che a vent’anni di distanza tutto è cambiato, che il sacrificio delle vittime del Vajont ha dato i suoi frutti, che non si ripeteranno più catastrofi di quel genere. Non lo posso dire, ma sarei troppo pessimista se affermassi che tutto è rimasto come prima.
Anzitutto è praticamente venuta a mancare la nefasta committenza privata nel campo delle opere idrauliche, poi anche se non è scomparsa la pretesa di impunità per le piccole e grandi negligenze, incoraggiata dall’indulgenza che accomunò o il processo del Vajont a tanti famosi capi scuola, regolamenti più severi entrati in vigore, controlli meno superficiali esercitati da chi di dovere, maggiore attenzione e senso di responsabilità da parte di progettisti e costruttori??, hanno reso più improbabile il ripetersi di sciagure legate all’esercizio di dighe di ritenuta. Non a caso almeno una dozzina di grossi impianti è oggi inoperosa con il lago vuoto o quasi, che nessuno osa rimettere in funzione.
In altri campi dell’attività industriale si persevera invece in atteggiamenti asociali, di sfruttamento del territorio, di colonialismo verso i lavoratori e la popolazione. Valga per tutti l’esempio di Seveso, catastrofe chimica suscitata da una multinazionale. E per l’attualità della materia, non posso trascurare di citare la speculazione edilizia, ieri all’avanguardia nel lavoro minorile e nel disprezzo delle norme di sicurezza, oggi premiata nei suoi abusi dalla sanatoria fiscale. Perfino l’azienda elettrica pubblica, ancora influenzata dalle tare delle società monopolistiche private, è ogni tanto tentata di far ricorso ai vecchi, abusati espedienti per aggirare i regolamenti di salvaguardia del territorio.
Ci ha provato con l’ultima delle centrali nucleari, ma per fortuna l’ente di controllo e la magistratura hanno sventato ogni sfoggio di furbizia. La lezione del Vajont è certamente servita a rendere più guardinga la popolazione. Oggi nessuno si accontenta più di tranquillanti x e y accademici, di sentirsi dire che una certa situazione di pericolo è sotto controllo, che una montagna in movimento si sta assestando e altri eufemismi del genere. È da credere che la cittadinanza di Pozzuoli non si lascerà sorprendere da una tragedia di grosse proporzioni, che al momento nessuno può ragionevolmente escludere.
Non si può dire che la difesa del territorio funzioni, anzi gli appositi stanziamenti, perché soltanto parziali, da anni restano regolarmente lettera morta a ogni legislatura. Di conseguenza abbiamo avuto e avremo ancora a ritmo inevitabilmente crescente, alluvioni, frane, valanghe e distruzioni in zone che sappiamo da tempo minacciate ma che non riusciamo a difendere.
L’edilizia privata ha gravissime colpe nella determinazione dello stato di dissesto, ma non si può dire nemmeno che la committenza pubblica come nel caso della frana di Ancona sia esente da critiche. D’altra parte il nostro è un territorio molto difficile, geologicamente giovane, dove milioni di persone convivono con vulcani, terremoti ricorrenti, fiumi infidi e pendii instabili.
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha promosso, tanto per cominciare, grossi progetti finalizzati in merito alle varie forme di rischio naturale. Vi hanno partecipato centinaia di giovani ricercatori entusiasti e questo è di ottimo auspicio per il riscatto della nostra scienza. Peccato che quei progetti non siano stati rinnovati.
Anche se questo non deve consolarci, vedere alla televisione che anche in Germania, in Giappone, negli stessi Stati Uniti, si verificano calamita come da noi, ci deve dare un’idea della complessità dei problemi insiti nella difesa delle forze della natura. Rifinanziare la ricerca scientifica in tale direzione, dovrebbe essere il minimo che si possa fare. Sta di fatto che nella difesa del suolo, della normativa antisismica, della regolamentazione idraulica, del rischio di eruzione, si parla almeno sempre più frequentemente e soprattutto nelle sedi del decentramento amministrativo e qualcosa, anzi, viene sempre meno timidamente abbozzato. In quest’ottica, la scena del ministro che lotta contro la lava dell’Etna, più che un gesto romantico, ci deve apparire come uno sforzo di buona volontà che va continuato e reso finalmente concreto. La protezione civile e agli albori della propria organizzazione per ora basata su corpi dello Stato preesistente sul volontariato. Sarebbe oltremodo auspicabile che dagli interventi riparatori a seguito di catastrofi, si passasse un po’ per volta a quelli volti alla prevenzione delle stesse.
Longarone per il suo significato simbolico, per la sua posizione geografica, con il fiume, la montagna, la vicina zona sismica, ha tutti i titoli per candidarsi come sede di un’Accademia per i quadri della Protezione Civile. All’attivo del bilancio del passato ventennio, tutto sommato non interamente negativo, va ancora inserita, insieme alla difficile e sofferta ricostruzione e ripopolazione dei centri distrutti, anche la prova di indipendenza offerta della magistratura in occasione del procedimento penale per il Vajont; malgrado le evidenti pressioni, nonostante la relegazione dei processi in una sede lontana, la nostra giustizia è riuscita ad evitare la scandalosa assolutoria generale concessa agli imputati della vicenda della diga di Malpasset da magistrati francesi.
Questo non ci ha affatto nociuto in campo internazionale come molti sostenevano, adducendo a pretesto una paventata squalificazione del lavoro italiano all’estero. All’estero hanno capito e malgrado il Vajont vi posso assicurare, come operatore del settore, che nel campo delle dighe, dei grandi lavori, siamo sempre considerati i migliori del mondo.