Il conflitto ambientale, fenomeno storicamente recente, suscita valutazioni e stimola interpretazioni diverse, spesso contrastanti. La sua rilevanza è tuttavia innegabile non solo a causa della sua crescita esponenziale in tutto il mondo ma anche perché rappresenta un importante rivelatore di complesse problematiche politiche e sociali e una sfida al sapere scientifico e istituzionale.
Proprio a partire da queste considerazioni nell’aprile del 2015 un soggetto politico – il Centro documentazione conflitti ambientali/CDCA – e uno accademico – il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma – hanno voluto organizzare un seminario per esplorare uno specifico quanto cruciale aspetto del fenomeno: quello del nesso che lega il conflitto ambientale alla teoria e alla pratica della democrazia. Quali sono – ci si è dunque chiesto – le sfide poste dai conflitti ambientali alle forme tradizionali della democrazia, in che modo i primi rimettono concretamente in discussione le seconde e sollecitano una loro trasformazione.
Sono domande necessarie ma anche molto ambiziose in quanto la materia è ancora concettualmente poco definita, non facile da afferrare e da classificare compiutamente. Uno dei meriti maggiori dei promotori dell’incontro è tuttavia proprio di non aver cercato di ingabbiare la materia in semplificazioni eccessive o in letture unilaterali. Essi hanno al contrario cercato di rendere la complessità del dibattito teorico e politico dando voce a impostazioni analitiche, a istanze politiche e a visioni profondamente diverse riuscendo in tal modo a fornire un quadro assai ricco e stimolante del fenomeno.
È interessante a questo proposito notare come le due categorie di NIMBY (“not in my backyard”) e di NIMTO (“not in my terms office”), attualmente utilizzate come il passpartout concettuale più diffuso nel dibattito pubblico per definire il conflitto ambientale, vengano assunte sin dalle prime battute del seminario come oggetto centrale dell’analisi e poi vengano riprese e discusse da quasi tutti gli autori e le autrici. Quasi tutti gli interventi, tuttavia, finiscono col denunciare non tanto e non solo il loro carattere fortemente valutativo ma anche la loro incapacità di fornire validi ausili interpretativi. In una parola: la loro inutilità scientifica.
Ciò è particolarmente evidente nei testi degli autori che paiono maggiormente condividere la strumentazione concettuale che sta alla base del seminario, strumentazione in gran parte riconducibile al paradigma della giustizia ambientale elaborato negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta in particolare dal sociologo Robert Bullard. Tale paradigma, esplicitamente rivendicato nel volume da Marianna Stori e da Marica Di Pierri – non a caso del CDCA – e assunto in modo abbastanza chiaro anche nella densa e impegnativa relazione di Luca Scuccimarra, connette in modo inscindibile diritto all’ambiente e giustizia sociale a partire dalla considerazione che il rischio ambientale è ripartito in modo consapevolmente sbilanciato tra comunità forti e comunità socialmente ed economicamente vulnerabili, tanto su scala locale quanto su scala globale. Nell’attuale fase storica peraltro, come evidenzia Giovanni Ruocco, gli strumenti della tradizionale rappresentanza democratica non sono in grado di dare una risposta adeguata alle crescenti domande di giustizia ambientale, col risultato che i conflitti si moltiplicano e con essi le esperienze di auto-organizzazione locale e di cittadinanza attiva; tutte forme di partecipazione democratica che pongono appunto una sfida di imponenti dimensioni alla teoria e alla pratica della democrazia come l’abbiamo conosciuta sinora. Gli interventi di Giovanni Ruocco e di Luca Scuccimarra sono quelli che meglio aiutano a comprendere la complessità dei conflitti ambientali, i contesti che solitamente li generano, le loro poste in gioco, la letteratura che li riguarda e i problemi che essi pongono, e costituiscono una lettura introduttiva utile e stimolante per chi si avvicini per la prima volta all’argomento. Giovanni Moro s’impone invece un compito solo in apparenza più modesto ma fa un’essenziale opera di chiarificazione distinguendo in modo lucido e argomentato il concetto di cittadinanza attiva e quello di democrazia partecipativa. Un contributo, questo, particolarmente utile viste le finalità del seminario.
Gli altri interventi si muovono più lateralmente e in qualche caso esternamente rispetto all’apparato concettuale condiviso da Di Pierri, Stori, Ruocco, Scuccimarra e Moro, ma offrono ciascuno a suo modo degli allargamenti di prospettiva utili e talvolta illuminanti. Da un’ottica giuridica, ad esempio, Fabio Giglioni mostra i molti modi in cui il conflitto ambientale mette concretamente in crisi il modo di pensare e di operare del diritto, come spesso il conflitto determina addirittura un’estromissione del diritto dal terreno e come in altri casi ancora il diritto medesimo si attrezzi per essere in grado di poter dire nuovamente la sua, di dare il suo contributo. La voce di Renato Grimaldi, dirigente di lungo corso del Ministero dell’Ambiente, porta nel dibattito l’esperienza e le considerazioni di un osservatorio che in teoria dovrebbe essere centrale nella mediazione e nella soluzione dei conflitti ambientali italiani ma che – a causa di una sistematica mancanza di poteri, di strumenti operativi e di risorse – è costretto per lo più a giocare un ruolo di testimone passivo. Di estremo interesse è il contributo di Alessandro Buelcke che porta la testimonianza di coloro che proprio attorno alla categoria di NIMBY hanno costruito una missione politica e aziendale. Si tratta in questo caso di Nimby Forum, una società di consulenza costituita in parte cospicua da ambientalisti ed ex-ambientalisti di lungo corso che mette a disposizione delle grandi imprese una lunga esperienza di comunicazione e di mediazione sociale proprio con lo scopo di smussare e neutralizzare il conflitto ambientale. Il saggio di Pietro Dommarco e quello introduttivo di Giorgio Nebbia, infine, arricchiscono il quadro riferendosi in un caso all’attualità e nell’altro alla dimensione storica dei conflitti ambientali.
Dommarco sembra dare drammaticamente carne e sangue alle considerazioni metodologiche di Giovanni Ruocco sulla crisi della democrazia raccontando il percorso politico-istituzionale che ha condotto – tra il 2011 e il 2014 – al decreto “Sblocca Italia”, esempio a suo avviso di “devastante momento di evoluzione politica e legislativa in materia ambientale”.
A Giorgio Nebbia, invece, i curatori hanno affidato il compito di prefare il volume, compito che Nebbia ha svolto seguendo una sua linea di ragionamento consolidata da tempo: riproponendo, cioè, una semplice e personalissima quanto rigorosa e singolarmente efficace tassonomia del conflitto ambientale e una preziosa carrellata storiografica sui più importanti conflitti ambientali novecenteschi.
Queste brevi note non possono che dare un’idea molto superficiale della varietà di contributi conoscitivi e di stimoli e intellettuali forniti dal piccolo volume curato da Giovanni Ruocco e Marianna Stori ma chi abbia il desiderio o la necessità di confrontarsi con la tematica dei conflitti ambientali o di interrogarsi sulle loro implicazioni troverà qui una buona introduzione e molto materiale di riflessione.