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“Il successore”. Un commento storico-critico

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Il sempre interessantissimo Concorso nazionale “Roberto Gavioli” per documentari sul mondo dell’industria e del lavoro, giunto nel 2016 alla IX edizione, ci ha presentato quest’anno un vincitore degno di menzione, Il successore di Mattia Epifani.

Non voglio qui parlarne sul piano cinematografico, diciamo tecnico-narrativo, piano che è stato evidentemente apprezzato dalla giuria del concorso, composta da critici di professione e noti operatori del settore. Voglio invece entrare nel merito del “documento” filmico, del suo protagonista e del nucleo informativo de Il successore, e provare a darne una lettura storica, conscio comunque della particolare ambiguità dello strumento “documentario” e del suo intrecciare realismo e testimonianza soggettiva.

Il mediometraggio (52′) di Epifani, già premiato in numerosi festival internazionali, 1Selezionato per una trentina di manifestazioni, l’opera ha ricevuto il Premio Cipputi al 33° Torino Film Festival, miglior documentario a Euganea Film Festival, menzione speciale all’Ischia Film festival, premio speciale Visioni Doc e menzione speciale Visioni Doc alle 22.e Visioni Italiane, miglior soggetto al Video Festival Imperiaruota attorno alla figura di Vito Alfieri Fontana. Leggiamo dalla “sinossi” del sito del documentario:2http://www.ilsuccessore.it/index.php/sinossi-2/

Vito Alfieri Fontana è un ingegnere ed ex proprietario della Tecnovar, azienda specializzata nella progettazione e vendita di mine antiuomo. In seguito a una profonda crisi esistenziale l’ingegner Fontana mette in discussione se stesso, il suo lavoro e i rapporti con la famiglia, in particolar modo con il padre, figura carismatica e ingombrante. Il peso della successione e delle responsabilità si scontrano così con l’intima esigenza di interrompere la produzione di mine antiuomo. Una domanda lo assilla: quante vittime avrà causato il lavoro della Tecnovar? La risposta a questa domanda assume per l’ingegner Fontana contorni inquietanti, ma è anche il punto di partenza di un viaggio esistenziale dall’Italia verso gli ex teatri di guerra della Bosnia Erzegovina dove ancora oggi squadre di sminatori sono attive nella bonifica dei terreni. Nel conflitto tra dovere e coscienza si muovono i passi di un uomo in cerca di riscatto, seppur consapevole che il bilancio tra bene e male non potrà mai più essere in attivo.

Tornerò più avanti sugli aspetti di “pentimento” e “riscatto” enfatizzati dall’autore.

Vorrei intanto ricordare, soprattutto ai lettori/spettatori più giovani, che la famiglia Fontana e il marchio «Tecnovar» evocano ben altri fatti e sentimenti in chi, già negli anni ottanta, si batteva contro quei “trafficanti di armi” e le loro feroci logiche affaristiche come militante dei movimenti nonviolenti e antimilitaristi impegnati nella riconversione delle fabbriche d’armi e nella quotidiana battaglia di denuncia del ruolo pericolosamente egemone svolto dalla nostra industria militare, con importanti ricadute nelle questioni tanto di politica internazionale quanto di sicurezza interna. Ne parla spesso papa Francesco, e del resto la questione delle mine antiuomo è particolarmente viva nella memoria dei bresciani.

Facciamo un passo indietro.

Siamo alla fine degli anni sessanta. Sta per chiudere l’ultima grande fabbrica ancora attiva nel cuore della laguna veneziana, alla Giudecca, la Junghans, già nota produttrice di orologi, poi con la Seconda guerra mondiale specializzatasi in spolette e mine militari ed entrata in crisi con la chiusura dell’Arsenale. È il 1969 quando alcuni imprenditori considerati vicini agli ambienti del Ministero della difesa prendono l’iniziativa di fondare una società per entrare nella nicchia di mercato delle mine militari di nuova generazione. Nasce così la Valsella Spa, con sede a Castenedolo, nel Bresciano, non lontano dall’aeroporto militare di Ghedi. Sempre a Ghedi opera anche dagli anni trenta la SEI Società Esplosivi Industriali, specializzata in esplosivi civili e militari. La nascita della Valsella darà vita nel giro di pochi anni a un piccolo “distretto delle bombe” della Bassa bresciana. Nel ’77 nascerà la Misar, anch’essa con stabilimento in Castenedolo. Un po’ più a est, a Calvagese della Riviera, sarà attiva la Sorlini Esplosivi. Ancora oggi a Ghedi – dove, lo ricordiamo, il 704° Munitions Support Squadron dell’US Air Force custodisce una ventina di bombe nucleari B61 e dove fanno base i Tornado del 6° stormo dell’Aeronautica Militare, attrezzati per l’armamento nucleare – ha sede e uffici la RWM, società del gruppo tedesco Rheinmetall, che di recente si è meritata l’attenzione dei media, le interpellanze di qualche parlamentare e un’inchiesta della procura di Brescia.3Sulle vicende legate alla RWM e alle bombe prodotte in Italia, vendute all’Arabia Saudita e impiegate nei bombardamenti sullo Yemen dal 2015, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa di Brescia (OPAL) è intervenuto ripetutamente: vedi la rassegna stampa sul sito di OPAL ( http://www.opalbrescia.org/ ), e le notizie riprese dalla Rete italiana per il disarmo (http://www.disarmo.org/ )

Sin dai primi anni di attività la Valsella si concentra sulle mine terrestri, sia quelle anticarro che i piccoli ordigni esplosivi espressamente costruiti per essere largamente diffusi sul terreno e celarsi facilmente nell’ambiente, le famigerate “mine antiuomo”. Di basso valore unitario, a tecnologia povera, fabbricate con largo impiego di componenti plastici, le mine antiuomo contengono piccole quantità di esplosivo, tra 10 e 250 g ciascuna, e scoppiano a una pressione variabile tra 0,5 e 50 kg, quindi quella di un essere umano, anche di un bambino. Le mine anticarro sono decisamente più pesanti, contengono da 2 a 9 kg di esplosivo e deflagrano a pressioni tra 100 e 300 kg.

Quanto a struttura societaria, tutte le nuove iniziative insediate nella zona bresciana sono di piccola e media dimensione, ciascuna non supererà mai i 150-160 dipendenti e impiegherà gli esplosivi della SEI, società finita nel 1967 sotto il controllo del gruppo francese EPC Explosifs et Produits Chimiques, che nel suo stabilimento di Ghedi procede anche al caricamento delle mine in bunker dotati di apposita area di rispetto. In alcune fasi, anche la svedese Bofors ha provveduto a consistenti forniture di esplosivo.

Tutto il distretto fa affari d’oro già negli anni settanta, vendendo mine antiuomo nel Nordafrica e in Medioriente, fino a toccare i massimi risultati durante i primi anni della guerra Iran-Iraq (1980-88), quando le esportazioni rappresentano il 90% del giro d’affari e l’Iraq di Saddam Hussein diviene il primo cliente. Il fatturato della Valsella, divenuta Valsella Meccanotecnica nel 1980 per fusione con un’azienda di stampaggi plastici, passa da 10 a 106 miliardi di lire tra 1981 e 1983, anno in cui consegue un utile di quasi 18 miliardi (è la più redditizia industria bresciana dell’anno!). Fino ad allora sotto il controllo finanziario di un giovane investitore genovese, Paolo Jasson, residente in Svizzera e operante tramite la Redon Trust con sede in Liechtenstein, con il 1984 la Valsella entra insieme alla Misar nell’orbita di FIAT per il tramite della famiglia Borletti.

Il coinvolgimento della FIAT nelle produzioni militari, i cui alti profitti si sperava potessero tamponare la grave crisi del settore auto, attira giocoforza l’attenzione della stampa e dell’opposizione sul distretto bresciano delle bombe, che fino ad allora aveva operato all’ombra protettiva dei governi del “pentapartito”. L’Italia viene additata dai giornali di mezz’Europa come uno dei maggiori produttori ed esportatori mondiali di mine antiuomo, la Bofors finisce sotto inchiesta in Svezia per le sue forniture alla filiale di Singapore della Valsella, si infittiscono le interpellanze parlamentari, l’opinione pubblica italiana si mobilita, la magistratura apre numerose inchieste sui “commerci triangolari” di mine verso i paesi del Golfo, i fatturati crollano, la Valsella licenzia, finché nell’estate del 1987 la Procura di Massa Carrara ordina l’arresto dell’intero cda della Valsella per contrabbando internazionale di armi, seguita dalla Procura di Brescia che indaga per commercio clandestino di armi e reati valutari. Dal “caso Valsella” prenderanno il via sia l’iter parlamentare di una legge che finalmente regolerà l’esportazione italiana di armamenti – sarà la legge 185 approvata nel 1990, una delle più avanzate dell’epoca – e il tentativo di riconversione industriale “partecipato” della Valsella che, sebbene finito in un insuccesso, rappresenta un caso unico nella storia recente dell’industria militare europea.

Ma torniamo a Il successore. L’azienda di cui è stato proprietario l’ing. Vito Alfieri Fontana venne fondata nel 1971 dal padre Ludovico, ingegnere elettrotecnico già collaboratore della Valsella, come Valsella Sud Srl con lo scopo di ottenere i contributi della Cassa per il Mezzogiorno. Di qui la scelta della sede a Bari, con stabilimento a Modugno. Fino al 1977 fu impegnata a fabbricare 1.420.000 mine antiuomo modello VAR 40 per l’Esercito italiano, ma mine dello stesso modello sono state vendute anche alla Thailandia e se ne sono trovati esemplari in Angola, Iraq e Turchia, una versione maggiore anche in Mozambico. 4I dati tecnici e di produzione, e i paesi in cui è stata riscontrata la presenza di mine Tecnovar sono ricavabili dai rapporti pubblicati annualmente a partire dal 1999 dall’ICBL International Campaign to Ban Landmines (vedi http://icbl.org/en-gb/home.aspx ).Dopo la nascita della Misar, anch’essa fondata da ex quadri della Valsella, si staccò dal distretto bresciano, cambiò il nome nel 1979 in Tecnovar Italiana Spa e rimase nelle sole mani di Ludovico Fontana. Cominciò ad operare su larga scala sul mercato estero dal 1979, soprattutto grazie a un impianto di assemblaggio in Egitto di proprietà del Ministero egiziano per la produzione militare, denominato M.F. 81 e sito in Heliopolis, che nel periodo 1979-1993 produsse 1.242.000 mine antiuomo del modello TS 50, molto simile alla VS 50 della Valsella. Know-how e parti delle mine egiziane provenivano dall’Italia, per un fatturato complessivo per Tecnovar di 5,3 miliardi di lire. Campi minati con TS 50 sono stati documentati in Afghanistan, Azerbaigian, Ecuador, Georgia, Kurdistan, Kuwait, Iraq, Libano e nel Sahara Occidentale. Nel 1996 la Commissione di inchiesta dell’ONU sul Ruanda ha trovato in un deposito di un gruppo armato hutu uno stock di TS 50 di produzione egiziana, probabilmente venduto dal governo del Cairo a quello di Kigali nel 1992. Attribuite alla Tecnovar ma negate dall’azienda sono anche vendite di mine al Qatar e, nel 1984, all’Iran. A complemento dell’offerta di mine antiuomo, anticarro e marine, anche nel catalogo di Tecnovar – come in quello di Valsella – sono presenti i sistemi DAT, dispenser che consentono la diffusione delle mine da un elicottero in volo rapido (il contenitore per TS 50 ne contiene 1536 per volta). Materiale pubblicitario aziendale risalente agli anni 1984-86, sotto lo slogan «30 anni di tecnologia al vostro servizio» vanta infine la completa rispondenza dei prodotti Tecnovar agli standard NATO.

C’è un certo stridente contrasto – nel tono e nei fatti – rispetto a ciò che afferma nel documentario il figlio del fondatore, l’ing. Vito, entrato nell’azienda di famiglia nel 1975-76, azienda che egli presenta come «una ben nota ditta per impianti elettrici, una ditta come tante…». Dopo averla ereditata dal padre, Vito sente la responsabilità della “successione” (da cui il titolo scelto dal regista): «Tutti i collaboratori si aspettano da te che tu agisca come “erede”… figuriamoci mio padre, che aveva messo la prima pietra di quella ditta… si aspettava una persona convinta della giustezza, o meglio della regolarità di quello che si faceva. […] La prima cosa che mi veniva in mente sedendomi al tavolo da disegno, alla mattina, era una mina. La Tecnovar poteva produrre 1,5 milioni di mine all’anno, tra antiuomo e anticarro. Le mine italiane erano richieste per la loro persistenza, anche dopo dieci e vent’anni garantivano il corretto funzionamento». In effetti, ancora oggi si denunciano le vittime che le mine fabbricate in Italia continuano a fare in tutto il mondo, dall’Afghanistan alla ex Iugoslavia, e le difficoltà di uno sminamento sempre costoso e pericoloso. 5Francesco PALMAS, Mine antiuomo: la vergogna che uccide ancora , in «Avvenire», 4.12.2015. Da quando è stata firmata la Convenzione internazionale che bandisce le mine antiuomo, cioè dal 1997 ad oggi, sono morti circa 100.000 civili per lo scoppio di questo tipo di ordigni, 10 al giorno nell’ultimo anno di cui sono disponibili dati statistici (2015).

Il film di Epifani insiste sul percorso di pentimento ed espiazione intrapreso da Vito Alfieri Fontana, in particolare dopo che, interrogato dal figlio, si sente dire «Ma papà, tu fai le armi? Ma sei un assassino!», e dopo aver ricevuto per posta decine di scarpe spaiate (le mine antiuomo mirano soprattutto a mutilare le gambe delle vittime) e centinaia di cartoline di protesta. Chiusa l’azienda, per 12 anni ha cooperato allo sminamento come volontario sul campo in Bosnia Erzegovina per conto dell’ong Intersos. Ma la cronologia dell’itinerario personale e lavorativo dell’ing. Alfieri Fontana, di presa di coscienza certamente sofferta, si intreccia con quella più generale e pubblica che ha portato al bando internazionale delle mine antiuomo.

La Tecnovar, afferma Alfieri Fontana, ha deciso di non produrre più mine antiuomo dal 1993. Teniamo però presente che:

– con l’approvazione della legge 185 del luglio 1990, che prevede un rapporto annuale della Presidenza del Consiglio sulle esportazioni militari italiane, le esportazioni autorizzate della Tecnovar diventano pienamente tracciabili: 50.000 TS 50 inerti e disassemblate, più 36.000 mine anticarro nel 1990; 6.000 parti per mine anticarro nel 1991; 90.000 mine anticarro nel 1992; 30.000 TS 50 nel 1993. Tutte vendute all’Egitto;

– la condanna con patteggiamento degli ex manager e proprietari della Valsella davanti al tribunale di Brescia è del febbraio 1991;

– la mobilitazione per bandire le mine antiuomo parte negli Stati Uniti nei primi mesi del 1992 per impulso dell’attivista per i diritti civili Jody Williams e nell’ottobre dello stesso anno un gruppo di organizzazioni umanitarie (Handicap International, Human Rights Watch, Medico International, Mines Advisory Group, Physicians for Human Rights, Vietnam Veterans of America Foundation) dà vita al coordinamento dell’ International Campaign to Ban Landmines (ICBL);

– ha grande risalto internazionale l’articolo del settimanale belga «Le Vif/L’Express» uscito il 13 febbraio 1992 che descrive una rete di intermediari e trafficanti a supporto delle forniture di mine italiane all’Iraq di Saddam Hussein e all’Iran di Khomeini. Il Belgio sarà il primo paese al mondo a varare una legge sul bando delle mine antiuomo, nel 1995;

– nel novembre 1992 una missione in Egitto della Valsella guidata da Giovanni Borletti sonda la possibilità che l’azienda di Castenedolo si sostituisca a breve alla Tecnovar – considerata in crisi irreversibile, “finita” – come committente nell’assemblaggio delle mine italiane;

– nell’aprile del 1993, Alfieri Fontana partecipa su invito di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi, a un incontro pubblico sul commercio delle armi e la messa al bando delle mine antiuomo. L’incontro si svolge in un clima abbastanza teso;

– sempre nel 1993 si tiene a Londra la prima conferenza internazionale delle ong impegnate sule tema delle mine, organizzata dell’ICBL. Il Dipartimento di Stato americano pubblica il rapportoHidden Killer: The Global Problem with Uncleared Landmines, seguito da uno studio dell’ICBL, Landmines: A deadly Legacy;

– nel novembre 1993 il governo italiano cessa le autorizzazioni all’export di mine antiuomo. Nell’agosto 1994 adotta la moratoria unilaterale su produzione e commercio delle mine antiuomo, e nel gennaio successivo deposita la ratifica della Convenzione sulle armi convenzionali e il II protocollo sulle mine;

– nel 1994 la Tecnovar, con i bilanci in rosso, mette in cassa integrazione tutti i lavoratori.

Nel documentario, Alfieri Fontana afferma di aver deciso di fermare la produzione di mine nel 1995, per poi chiudere definitivamente l’azienda nel 1997. Il 1997 è in effetti un anno di svolta cruciale:

– nel gennaio la campagna per la messa al bando delle mine antiuomo ottiene l’appoggio di una testimonial prestigiosa, la principessa Diana Spencer: la sua foto con giubbotto da sminatore in un campo minato dell’Angola fa il giro del mondo;

– in ottobre ICBL e Jody Williams ricevono il Nobel per la pace del 1997;

– il 3 dicembre 1997 si firma a Ottawa, in Canada, la Convenzione internazionale per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione. È uno dei maggiori successi del movimento per il controllo degli armamenti. L’Italia firma la Convenzione nello stesso giorno, e la ratificherà nell’aprile 1999 con applicazione effettiva a partire dall’ottobre dello stesso anno.

Credo che la figura esemplare quanto contraddittoria dell’ing. Alfieri Fontana acquisisca un miglior spessore alla luce dei molti fatti sopra riportati, frutto dell’impegno civile e delle lotte di migliaia di attivisti della pace e del disarmo. 

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