Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Riprogettare le città a 40 anni da Seveso. Una riflessione a partire dal libro di Daniele Biacchessi

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La riedizione, in occasione del quarantesimo anniversario dello storico disastro di Seveso, del libro di Daniele Biacchessi – La fabbrica dei profumi. Seveso 40 anni fa (Jaca Book, 2016) – riporta alla mente le immagini spettrali del comune brianzolo dove, tra strade deserte e abitazioni evacuate, si aggiravano fantasmi bianchi muniti di tute e maschere integrali 1Oltre a questo libro (la cui prima edizione risale al 1995 per i tipi di Baldini & Castoldi), sul disastroso incedente di Seveso v. anche: AA. VV., Icmesa. Una rapina di salute, di lavoro e di territorio, Mazzotta, Milano 1976; B. Leonci, G. Nebbia, L. Notarnicola, Industria e ambiente. Il caso Seveso, “Quaderni di merceologia”, 16, 2, maggio 1977, pp. 177-209; M. Galimberti, G. Citterio, L. Losa, Seveso. La tragedia della diossina, Edizioni GR, Befana Brianza 1977; L. Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, Roma 1978; M. Ramondetta, A. Repossi, (a cura di) Seveso vent’anni dopo. Dall’incidente al Bosco della Querce, Fondazione Lombardia per l’ambiente, Milano 1998; L. Centenari, Ritorno a Seveso. Il danno ambientale, il suo riconoscimento, la sua riparazione , Bruno Mondadori, Milano 2006.. Evoca cioè nella memoria collettiva il trauma dell’incidente all’Icmesa del 10 luglio 1976: un evento cruciale per chi si occupa di storia del rapporto tra industria e ambiente per due ragioni fondamentali. Per la prima volta, l’opinione pubblica prese diffusamente coscienza del potenziale distruttivo degli apparati industriali e da quel momento non fu più possibile sottovalutare il problema della convivenza dei luoghi dell’abitare con le industrie, specie quelle pericolose.

Industria e artificializzazione dell’ambiente urbano –

Storicamente la formazione delle città non ha mai comportato una drastica frattura con la campagna. Anzi, per millenni sono state la ricchezza e la fertilità dell’ambiente naturale a determinarne la localizzazione. Con la civiltà termoindustriale – ovvero con il diffondersi delle tecnologie basate sulle combustioni dei fossili – questa relazione vitale con la campagna e l’ambiente naturale si è via via allentata fino alla rottura. La città si è cioè sempre più trasformata in un ambiente artificiale. Questo, sia perché funzionale alla diffusione delle industrie – di cui i cittadini tendevano a diventare semplici protesi come rappresentarono profeticamente film quali Metropolis (1927) di Fritz Lang o Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin – sia perché la meccanizzazione e la standardizzazione della produzione agricola ha allontanato sempre più la campagna dalla città. Da questo punto di vista appare esemplare la vicenda, vera, dell’allucinante illusione di poter trarre bistecche dai cascami del petrolio, per cui vennero costruiti due grandi impianti per la produzione di bioproteine a Saline Joniche in Calabria e a Sarroch in Sardegna, fortunatamente mai entrati in funzione 2P. Bellucci, Le bioproteine. Esperienze e ricerche per una fonte alimentare alternativa , Feltrinelli, Milano 1980., o quella, fantascientifica, narrata dal suggestivo film Soylent green (1973) di Richard Fleischer che racconta di una città che riesce a vivere del tutto artificialmente alimentandosi e riproducendosi con la sostanza dei cadaveri riciclata con processi chimici industriali. Probabilmente discende da questa sorta di perversione subita dalla città moderna, dal suo trasformarsi in tecnosfera, altra dalla biosfera, l’accumularsi e l’aggrovigliarsi di criticità in una sostanziale disattenzione e indifferenza generale, fino alla traumatica esplosione del reattore del triclorofenolo dell’Icmesa di Meda e la pioggia di diossina sugli abitanti di Seveso. Lo shock fu violento, ma l’elaborazione da parte di politici, amministratori e urbanisti della necessità di un cambiamento radicale nel rapporto industria, città e ambiente, almeno in Italia, fu assai lenta.

“Autocolonizzazione” e “autosfruttamento” distruttivi del territorio 

Uno sguardo a volo d’uccello sui principali siti inquinati che l’industrializzazione novecentesca ci ha lasciato in eredità fa emergere un processo apparentemente dissennato di distruzione di territori e di centri urbani di altissima qualità ambientale, paesaggistica e storico-architettonica. Ne citiamo alcuni: Laghi di Mantova-Mantova, Mestre-Laguna di Venezia, Laguna di Grado, Trieste, Ravenna, Pitelli-La Spezia, Livorno, Piombino, Orbetello, Napoli-Bagnoli, Falconara, Manfredonia, Bari, Brindisi, Taranto, Crotone, Porto Torres, Sulcis Iglesiente, Milazzo, Augusta-Priolo, Gela. Pur essendo praticamente priva di petrolio e di ferro nel sottosuolo, l’Italia è riuscita a ridurre alcune delle sue zone più belle a piattaforme per mega impianti siderurgici, petrolchimici e raffinerie con capacità produttiva di gran lunga superiore al fabbisogno (e infatti in buona parte oggi o in crisi o dismessi). Sembrerebbe un accanimento mirato a colpire proprio quelle magnificenze naturali, paesaggistiche e culturali incantevoli che, prima dell’industrializzazione, il territorio dell’allora Belpaese offriva quanto mai generoso, tanto che, tra Settecento e Ottocento, il viaggio in Italia era meta d’obbligo per le élite europee che riempivano i loro carnet di disegni, incisioni, resoconti di viaggio. Ebbene, su quell’ecosistema – unico per varietà ma anche fragilità – si è abbattuta, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, un’industrializzazione scriteriata, che ha fatto del territorio e delle matrici ambientali – acqua, aria e suolo – risorse offerte a titolo gratuito e senza alcuna limitazione a quello che venne con enfasi celebrato come “miracolo economico”. Questa sorta di “colonizzazione” pervasiva del territorio sembra essere avvenuta in Italia ad opera di iniziative industriali prevalentemente autoctone, per cui, potremmo forse parlare di “autocolonizzazione” e di “autosfruttamento” del proprio ambiente di vita. In sostanza, i meccanismi sono simili a quelli classicamente coloniali (sfruttamento selvaggio delle risorse umane, naturali ed economiche di un territorio da parte di una potenza straniera dominatrice), ma nel caso italiano sono messi in opera da forze interne che appartengono allo stesso Paese che – se così si può dire – si “autosfrutta” in un contesto democratico e con il consenso pressoché unanime delle forze sociali e delle rappresentanze politiche. Intendiamoci, di quella modernizzazione industriale violenta non si sono avvantaggiati tutti nella stessa misura: quegli anni sono stati anche il teatro del più duro conflitto di classe tra il profitto capitalista e la spinta emancipatrice dei lavoratori. Ma non sembra esservi dubbio che oltre quel conflitto, ambedue i contendenti calpestavano senza alcun riguardo lo stesso ambiente. Forse un unico soggetto, il mondo contadino, aveva avuto fin da subito percezione del danno arrecato, ma non aveva voce, considerato ormai un fardello di una storia proiettata verso la produzione industriale. Infatti, la legittimazione di quell’immane scempio avvenne in forza della necessità dell’Italia di superare d’un balzo il ritardo nei confronti dei Paesi industrialmente avanzati, sfruttando il vantaggio competitivo delle risorse ambientali a costo zero 3P. P. Poggio, M. Ruzzenenti (a cura di), Il caso italiano: industria, chimica e ambiente, Fondazione Micheletti-Jaca Book, Milano 2012, pp. 1-35.. Questo “peccato originale” rappresenta una pesantissima eredità che si rivela oggi nella vastità e profondità della devastazione ambientale che, all’esaurirsi del secolo termoindustriale, finalmente siamo in grado di “vedere” proprio in alcune delle aree più incantevoli della penisola e delle isole ma che, seppur con intensità differenti, investe pressoché l’intero Paese.

Un’ingombrante eredità: i siti industriali inquinati –

A questo proposito, i numeri sono davvero impressionanti. Com’è noto, i Sin, ovvero i Siti di interesse nazionale ai fini della bonifica, erano in un primo censimento 57, per un territorio di circa 9.000 kmq che coinvolge circa 10 milioni di abitanti esposti ad agenti inquinanti. Nel 2013 sono stati ridotti a 39 con il declassamento di 18 a Sir, Siti di interesse regionale 4DM 11 gennaio 2013.. Un’operazione compiuta da Corrado Clini, allora Ministro dell’Ambiente, che appare più un maldestro tentativo di ridimensionare il problema e di attenuare le responsabilità della classe politica data la pressoché totale e ultradecennale inazione governativa. Per una valutazione complessiva di quanto è stato, o meglio, non è stato fatto per le bonifiche dei Sin in 13 anni, a partire dal Dm 471/1999, rimane ancora valido quanto ha sancito la Relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, del 12 dicembre 2012:

Il settore bonifiche, almeno fino ad oggi, è stato fallimentare […]. All’interno dei 57 siti di interesse nazionale (Sin) (mega-siti contaminati) ricadono le più importanti aree industriali della penisola, tra cui: i petrolchimici di Porto Marghera, Brindisi, Priolo, Gela; le aree urbane ed industriali di Napoli Orientale, Trieste, Piombino, Taranto, La Spezia, Brescia, Mantova. […] All’esito dell’inchiesta della Commissione, il quadro risulta desolante non solo perché non sono state concluse le attività di bonifica, ma anche perché, in diversi casi, non è nota neanche la quantità e la qualità dell’inquinamento e questo non può che ritorcersi contro le popolazioni locali, sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista economico. Come già evidenziato, nel nostro territorio i siti di interesse nazionale sono 57, coprono una superficie corrispondente a circa il 3 per cento del territorio italiano e, sebbene il riconoscimento quali Sin per taluni di essi sia avvenuto diversi anni fa (talvolta anche oltre dieci anni fa), i procedimenti finalizzati alla bonifica sono ben lontani dall’essere completati 5Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti,Relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia, Roma 12 dicembre 2012, pp. 658-660..

Se si escludono alcune Regioni come la Lombardia, il Trentino Alto Adige e l’Emilia Romagna, anche per i Sir la situazione non è confortante. Pur tenendo conto che le anagrafi sono lacunose e realizzate con criteri disomogenei che ne rendono difficile la lettura comparata risulta che i Siti di interesse regionale potenzialmente contaminati inseriti/inseribili risulterebbero infatti 15.122; 6.132 i Sir potenzialmente contaminati accertati; 4.314 i Sir contaminati; 4.879 i Sir con interventi avviati; 3.011 i Sir bonificati. Per concludere: le bonifiche in realtà non si fanno a causa dello stesso perverso meccanismo che è stato all’origine delle distorsioni del passato 6M. Ruzzenenti, Le bonifiche in Italia, in “Lo straniero. Arte, cultura, scienza, società”, a. XVIII, n. 170/171, agosto-settembre 2014, pp. 81-89..

Leggi di tutela ambientale ignorate o inesistenti –

Occorre ricordare che ai primordi dell’industrializzazione il tema della tutela dei centri urbani e dei luoghi dell’abitare dai possibili inquinamenti prodotti dalle manifatture era già presente nell’ordinamento legislativo. La prima fondamentale legge sanitaria dell’Italia unita del 22 dicembre 1888 n. 5849 all’art. 38 intendeva disciplinare proprio le attività delle industrie insalubri dettando norme omogenee su tutto il territorio nazionale e superando la difformità di criteri preesistenti, quando ogni determinazione era demandata al giudizio pressoché esclusivo delle autorità locali. La stessa legge del 1888 prevedeva l’istituzione di un elenco delle industrie insalubri che però doveva essere compilato dal Consiglio Superiore della Sanità per tentare di unificarne l’applicazione a livello nazionale. In questo elenco ” le manifatture e le fabbriche […] che possono riuscire […] pericolose alla salute degli abitanti ” erano distinte in due classi. E per quelle di prima classe – le più inquinanti – la norma di primo acchito appariva perentoria – “debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni” -, mentre immediatamente dopo apriva il campo alle eccezioni: ” Una industria o manifattura la quale sia inscritta nella prima classe, può essere permessa nell’abitato, quante volte l’industriale che l’esercita provi che, per l’introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato “. La legge dunque non determinava con esattezza quale dovesse essere la distanza minima di queste industrie dall’aggregato urbano e dalle abitazioni sparse nelle campagne, evidentemente per non creare vincoli maggiori alle iniziative imprenditoriali. Ogni considerazione al riguardo – come pure quelle sull’efficacia delle “speciali cautele” che eccezionalmente consentivano la convivenza con l’abitato – erano demandati all’autorità locale, al sindaco e all’ufficiale sanitario. Per sollecitare gli adempimenti di questi ultimi venne emanato nel 1901 – con Regio Decreto n. 45 del 3 febbraio – il regolamento generale sanitario che esplicitava le competenze del potere locale:

La Giunta comunale, sopra proposta dell’ufficiale sanitario, determinerà con apposito regolamento le speciali cautele da osservare negli stabilimenti di manifatture, fabbriche e depositi insalubri o in altro modo pericolosi alla salute degli abitanti 7Regio Decreto n. 45 del 3 febbraio 1901, art. 93.. […] Spetta alla Giunta comunale, sovra proposta dell’ufficiale sanitario, di ordinare la chiusura dei predetti stabilimenti e l’allontanamento dei depositi insalubri o pericolosi, salvo nei casi di urgenza le facoltà attribuite al sindaco 8Ibidem, art. 94.. […] In base all’elenco compilato dal Consiglio Superiore di Sanità, giusta l’art. 38 della legge, delle manifatture o fabbriche che spandano esalazioni insalubri o possano riuscire in altro modo dannose alla salute degli abitanti, la giunta municipale dovrà, a richiesta dell’ufficiale sanitario, procedere alla classificazione dei predetti stabilimenti in attività nel territorio comunale e determinare se quelli compresi nella prima classe siano sufficientemente isolati nelle campagne, e lontani dalle abitazioni (salva l’eccezione fatta dall’art. 38 della legge, 5° capoverso), e se per gli altri siano adottate cautele speciali necessarie ad evitare nocumento al vicinato 9Ibidem, art. 102..

Ora, è facilmente comprensibile quale fosse il “tallone d’Achille” di quella normativa soprattutto alla luce di quel processo che abbiamo definito di “autocolonizzazione” del territorio. Le città e le amministrazioni che le rappresentavano hanno fatto a gara per attirare insediamenti industriali, non solo recando in dono il proprio territorio, ma in una certa fase – con la Cassa del Mezzogiorno e le politiche per le aree depresse – concedendo anche contributi e agevolazioni. Ovviamente, in questa competizione, non potevano trovare spazio preoccupazioni o vincoli di tutela dell’ambiente o della salute dei cittadini. È altresì noto che il rapporto perverso tra industria e urbanizzazione si è scaricato in particolare sulle periferie, sui quartieri popolari normalmente adiacenti alle fabbriche stesse, mentre gli ambiti urbani abitati dai ceti più abbienti sono stati tenuti il più possibile al riparo da ” esalazioni insalubri o che [potessero] riuscire in altro modo dannose alla salute degli abitanti “. Questa situazione è stata favorita dagli incredibili ritardi con cui il nostro Paese ha adottato normative efficaci per tutelare le matrici ambientali e quindi la salute dei cittadini: la legge sugli scarichi industriali, la cosiddetta Merli, è del 1976; la prima normativa sui rifiuti industriali è del 1982; la direttiva Ue del 1982 sui rischi di incidenti rilevanti, detta “Seveso”, venne recepita in Italia solo nel 1988; la prima normativa sistematica sull’inquinamento delle acque e dei suoli è del 1999. Non è stato un caso. La mancanza di tutele ambientali rappresentava infatti uno dei pochi vantaggi competitivi del nostro sistema industriale (insieme ai bassi salari, al petrolio allora a basso costo, alla capacità di imitazione creativa delle altrui innovazioni).

La cementificazione del territorio –

Dovremmo avere la capacità di voltar pagina: ma ne abbiamo la volontà? Ci sono buoni motivi per nutrire qualche dubbio. Una serie di segnali sembrano poco confortanti: dalla recente vicenda delle trivellazioni marine per la ricerca di idrocarburi, al decreto cosiddetto “Sblocca Italia” che ha meritato una critica serrata da parte di numerosi studiosi 10T. Montanari (a cura di) – con scritti di P. Maddalena, G. Losavio, M. Bray, E. Salzano, P. Berdini, V. De Lucia, S. Settis, A. Donati, M. P. Guermandi, P. Dommarco, D. Finiguerra, A. M. Bianchi, A. Caporale, C. Petrini, Wu Ming, L. Martinelli, P. Raitano -, Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia per la democrazia ed il nostro futuro , Altraeconomia, Milano 2014. proprio perché intenderebbe confermare quello sciagurato modello produttivo il cui rilancio richiederebbe ancora una volta l’allentarsi dei vincoli di tutela ambientale e territoriale. Ma altrettanto si può dire della difficoltà a varare una legge nazionale davvero vincolante, come lo fu quella per la tutela dei centri storici, tesa a salvaguardare quel poco di terreno naturalizzato e fertile che rimane dopo le varie ondate cementificatorie che hanno investito il nostro territorio soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Gli allarmi ricorrenti dell’Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale – passano nei mass media senza lasciare traccia. Eppure l’impermeabilizzazione del suolo e dunque il suo consumo, in particolare in alcune aree del Paese come la Pianura Padana e la megalopoli Milano-Venezia, è ormai giunta oltre i limiti di guardia. Che cosa comporti ce lo ricorda l’Ispra anche nel suo ultimo Rapporto:

L’impermeabilizzazione rappresenta la principale causa di degrado del suolo in Europa, in quanto comporta un rischio accresciuto di inondazioni, contribuisce ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità, suscita particolare preoccupazione allorché vengono ad essere ricoperti terreni agricoli fertili e aree naturali e seminaturali, contribuisce insieme alla diffusione urbana alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale (Antrop, 2004; Commissione Europea, 2012). È probabilmente l’uso più impattante che si può fare della risorsa suolo poiché ne determina la perdita totale o una compromissione della sua funzionalità tale da limitare/inibire il suo insostituibile ruolo nel ciclo degli elementi nutritivi (APAT, 2008; Gardi et al., 2013). Le funzioni produttive dei suoli sono, pertanto, inevitabilmente perse, così come la loro possibilità di assorbire CO2, di fornire supporto e sostentamento per la componente biotica dell’ecosistema, di garantire la biodiversità e, spesso, la fruizione sociale. L’impermeabilizzazione deve essere, per tali ragioni, intesa come un costo ambientale, risultato di una diffusione indiscriminata delle tipologie artificiali di uso del suolo che porta al degrado delle funzioni ecosistemiche e all’alterazione dell’equilibrio ecologico (Commissione Europea, 2013). La risorsa suolo deve essere, quindi, protetta e utilizzata nel modo idoneo, in relazione alle sue intrinseche proprietà, affinché possa continuare a svolgere la propria insostituibile ed efficiente funzione sul pianeta e perché elemento fondamentale dell’ambiente, dell’ecosistema e del paesaggio, tutelati dalla nostra Costituzione (ISPRA, 2015; Leone et al., 2013) 11Ispra, Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi eco sistemici . Edizione 2016, Roma 2016, p. 2. http://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/rapporti/Rapporto_consumo_suolo_20162.pdf.

Ciò che impressiona è l’ostinata inerzia della lobby dei cementificatori che hanno perseverato nel costruire anche dopo la crisi edilizia del 2008 e l’insostenibile accumulo dell’edificato invenduto che rischia di trascinare con sé nell’inevitabile collasso anche parte del sistema bancario. Il caso della Lombardia è emblematico al riguardo: il Centro di Ricerca sui Consumi del Suolo (Crcs) – fondato dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano (Dastu), dall’Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu) e da Legambiente – ha dimostrato che l’87% dei Pgt recentemente approvati prevede ancora un ulteriore consumo di suolo 12Ivi, p. 80.. Ora, in questa situazione procedere ostinatamente sulla strada dissennata dell’autosfruttamento del territorio è oggettivamente arduo e controproducente – anche il limone a un certo punto non si può più spremere -, sia per la penuria di spazi fisici da sfruttare, sia per l’emergere di nuove forme, accanite e radicali, di resistenza da parte delle popolazioni locali 13M. Ruzzenenti, L’ambiente non si vende, in Maurizio Pallante (a cura di), Un programma politico per la decrescita, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2008, pp. 53-73..

La resistenza delle popolazioni locali

L’attuale ceto dirigente vive ancora con il mito e la nostalgia del “miracolo economico”, del fantastico boom, preso nella trappola di un’economia neoliberista che per funzionare ha la necessità di crescere di continuo e a dismisura. Emblematiche le motivazioni a sostegno delle Olimpiadi a Roma nel 2024: “Le Olimpiadi del 1960 – ha affermato Renzi – ci hanno trasformato nel Paese più simpatico del mondo: boom economico e Dolce Vita. Perché non si fanno le Olimpiadi? 14Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, intervistato da Gianni Riotta alla festa dell’Unità di Firenze, l8 settembre 2016, in T. Rodano, Uno scomodo Riotta: “Matteo come va?“, “Il Fatto quotidiano”, 10 settembre 2016, p. 6.. Sta di fatto che, per questo ceto politico, sviluppo, crescita, modernizzazione e infrastrutture sono ormai dei mantra, assiomi assoluti e indiscutibili da perseguire “a prescindere”. Si comprende quindi l’irritazione che si manifesta laddove a livello locale comitati di cittadini comuni, donne, uomini, ragazzi hanno l’ardire di ostacolare queste poco lungimiranti strategie. Negli ultimi anni l’attivismo delle popolazioni locali sembra incontenibile: non vi è ipotesi di nuovo impianto per trattare i rifiuti, di nuova centrale, di nuova autostrada, che non produca subito, in opposizione, un comitato di cittadini, spesso svincolato dai partiti e dalle associazioni ambientaliste istituzionali, e quindi difficilmente controllabile, ricco di creatività e inusitata radicalità, capace di acquisire rapidamente competenze tecniche e robuste argomentazioni. È questa la grande novità dell’oggi che, giustamente, preoccupa più di ogni cosa l’attuale ceto dirigente. Per contrastare il fenomeno la strategia messa in campo è quella a cui, da che mondo è mondo, ricorrono i potenti: “il bastone e la carota”. Il “bastone” – che a volte si materializza anche come strumento della “forza pubblica”, come nel caso della Tav Torino-Lione – viene agitato con furore contro la “miopia campanilistica” di chi per salvaguardare “egoisticamente” il proprio “cortile” ostacola gli interessi generali del Paese, la sua modernizzazione, l’aggancio all’Europa, la crescita che beneficerà tutti. Della “carota” diremo nel prossimo paragrafo.

Il ruolo del Nimby Forum

A partire dal 2004 il Ministero delle Attività produttive in accordo con il Ministero dell’Ambiente sponsorizza la promozione di Nimby Forum, promosso da un’associazione no profit, Aris (Agenzia di Ricerca Informazione e Società): si tratta del ” primo Tavolo di lavoro pubblico-privato e primo Osservatorio Media italiano per studiare il fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali “, una struttura di ricerca per il monitoraggio costante che organizza convegni scientifici per studiare questa nuova e pericolosa “malattia sociale”, la “sindrome Nimby” (dall’inglese “Not In My Back Yard”). Nimby Forum si propone, quindi, di elaborare ” una politica del consenso intrinseca ai progetti impiantistici, che ne faciliti l’iter burocratico di approvazione e ne renda possibile la successiva fase costruttiva” con “l’obiettivo di individuare le più efficaci metodologie di interazione tra le diverse parti in causa per ridurre il fenomeno dei conflitti territoriali ambientali “. Insomma il compito che si è assunto Nimby Forum non è dei più semplici, anche se fin troppo eloquente nella sua ingenua (?) formulazione: ” Che cosa si può fare per mettere sullo stesso piano progresso e tutela del territorio, interessi pubblici e privati, impresa e governo, sviluppo e sostenibilità? “. A questa impresa titanica hanno dato direttamente il loro sostegno le più importanti aziende energetiche, dei rifiuti e delle infrastrutture, tra cui Actelios SpA/Gruppo Falck, AEM Milano SpA, Amsa Milano SpA (ora A2A), Assoelettrica-Confindustria, Atel Energia SpA, Autostrade SpA, Edison SpA, Enel SpA, Endesa Italia SpA, Fondazione Fiera Milano, Gruppo Enia SpA, Gruppo Impregilo, Gruppo Italgest, Gruppo Teseco, Hera, Siemens Italia, Stretto di Messina SpA, TAV SpA-Ferrovie dello Stato, Terna Spa, Waste [Rifiuti] Italia Spa, Trans Adriatic Pipleine. In diverse occasioni, hanno poi assicurato la loro partecipazione anche alcune blasonate associazioni: Amici della Terra, ACU Associazione Consumatori Utenti, Cittadinanzattiva, CMC Coop. Dunque, tutto lascia intendere che la mission di Nimby Forum sia quella di offrire un supporto agli operatori pubblici e privati alle prese con le resistenze delle comunità sul territorio. Questo agendo su due fronti. Da un lato si tiene alto l’allarme rosso per i troppi progetti strategici bloccati che aumenterebbero ogni anno in modo preoccupante: i 140 impianti contestati nel 2004 in un decennio si sono più che raddoppiati e anche l’ultimo rapporto rinnova l’allarme evidenziando che ” è nuovamente in crescita il numero degli impianti contestati: 355 i casi censiti nel 2014 contro i 336 del 2013 (+5%)” 15http://www.nimbyforum.it/area-stampa/comunicati. Dall’altro si suggeriscono le misure opportune per addolcire quelle “resistenze” – la “carota”, per l’appunto – come componente essenziale della strategia di “persuasione partecipata”, come si usa dire.

Da Nimby a Pimby

Non possiamo fare a meno di ricordare qui, per inciso, una singolare iniziativa, inventata da incalliti promotori dello sviluppo, di quel tipo di sviluppo, incuranti del ridicolo, come degno corollario di Nimby Forum: il premio Pimby, acronimo di “Please In My Back Yard”! L’idea era sbocciata nel “pensatoio” di veDrò [l’Italia del futuro] fondato da Enrico Letta con Anna Maria Artoni – allora presidente della Confidustria dell’Emilia Romagna – e altri (manager, accademici, ecc.), nell’agosto 2006, con l’autorevole partecipazione di Giulia Buongiorno – illustre avvocato e all’epoca deputato An – nel corso di un seminario con 300 partecipanti, “deliziati col dibattito, Da Nimby a Pimby. Lui [Letta] vuole l’Alta Velocità, le infrastrutture, le centrali elettriche, la modernizzazione. Non a caso il ‘totem’ lettiano è la centrale elettrica parzialmente dismessa di Dro, in Trentino, da cui il nome del think thank veDrò e il progetto politico: Far ripartire la scintilla per dare energia all’Italia16“Affari e Finanza – La Repubblica”, 11 settembre 2006.. Per il Comitato scientifico di Pimby si è trovato anche un degno presidente: Chicco Testa – già presidente di Legambiente, poi di Enel, quindi membro consultivo di Carlyle Europa, la finanziaria della famiglia Bush, managing director di Rothschild Italia, presidente di Assoelettrica e altre cose ancora – con il solito corredo di esperti “trasversali” provenienti dal mondo accademico, imprenditoriale, mediatico ed associativo. Il tutto con il patrocinio del Ministero dello sviluppo economico, della Provincia di Milano e con il contributo di importanti aziende energetiche, tra cui Enel, Cofathec (gruppo di servizi energetici europeo) e Gaz de France. Il primo premio Pimby venne consegnato il 29 novembre 2007 a realtà locali esemplari per la benevola accoglienza di impiantistica impattante. Dopo qualche anno, di Pimby si è persa traccia. Nonostante questa controffensiva mediatica – oggettivamente un po’ sgangherata – è piuttosto semplice per i comitati locali in un Paese come l’Italia – che supera ampiamente ogni sostenibile livello di guardia della “saturazione” impiantistica, infrastrutturale e cementizia – dimostrare che certi impianti propagandati come strategici non s’hanno da fare “né qui né altrove“. Ed è probabilmente superfluo ricordare che i vari Nimby non sempre si limitano al “no”, ma sempre più frequentemente elaborano alternative “dolci”, ragionevoli e facilmente praticabili sui singoli problemi che si trovano ad affrontare: per esempio, riduzione e riciclaggio spinto dei rifiuti invece di inceneritori e discariche; risparmio energetico e fonti rinnovabili efficienti invece di centrali e rigassificatori; prevenzione e riduzione del traffico e del bisogno trasportistico invece di nuove autostrade e aeroporti; rinnovamento e potenziamento dello sgangherato sistema ferroviario ordinario invece della Tav. Alternative meno costose, anche in termini economici, che forse proprio per questo non soddisfano i soloni dell’ambientalismo del sì perché escludono quel che per loro conta davvero: quello alla crescita del business che ne consegue.

La “carota” della monetizzazione dell’ambiente

Di fronte all’irriducibile opposizione delle comunità locali a un certo tipo di progetti scatta spesso la monetizzazione dell’ambiente, ovvero: la “carota”, il varco individuato per piegare, corrompere, comprare la loro resistenza. Ormai abitualmente, manager e imprenditori presentano agli enti locali un “pacchetto” già confezionato con le opportune dotazioni “ambientali e sociali”: una discarica con l’asilo nido per i residenti; un inceneritore con parchi pubblici alberati, piste ciclabili, piscina; una lottizzazione con oneri di urbanizzazione sovrabbondanti che promettono opere pubbliche fantastiche. Le procedure di Via ( Valutazione di impatto ambientale) – spesso ridotte nel nostro Paese a pedissequa applicazione di programmi informatici dagli esiti prevedibili – di sovente minimizzano gli effetti sulla salute di certe opere e, al tempo stesso, enfatizzano oltre misura le cosiddette “opere di mitigazione e compensazione ambientale”. Anche nel processo di cementificazione selvaggia in corso negli ultimi anni nel Paese la pratica della “monetizzazione dell’ambiente” si è istituzionalizzata in due meccanismi perversi che si alimentano reciprocamente: da un lato, c’è la sostanziale deregolazione urbanistica che ha messo i Comuni nella condizione di disporre a piacimento del loro territorio; dall’altro ci sono gli oneri di urbanizzazione che vanno spesso a surrogare le strette di bilancio imposte dal processo di risanamento finanziario dello Stato. Una situazione che ha fatto sì che le Amministrazioni comunali si dimostrassero particolarmente sensibili alle pressioni della speculazione immobiliare ed edilizia, attratte dai fondi prodotti dagli oneri per le nuove edificazioni, ma incuranti del lascito in termini di compromissione del paesaggio e del territorio che erediteranno le future generazioni.

L’ambiente non si vende: una questione etica

Il punto inaccettabile di queste pratiche è che la “vendita” di un ulteriore pezzo del proprio territorio, in un contesto di generale grave compromissione, viene compiuta da chi nell’immediato ne gode solo i vantaggi economici, scaricando i costi ambientali, ormai elevatissimi, sulla popolazione e le future generazioni. Insomma, vi è qui un comportamento profondamente immorale che fa il paio con la storia dell’autosfruttamento della salute dei lavoratori prima del Sessantanove operaio. In breve: negli anni Cinquanta il lavoratore che decideva di percepire un’indennità di rischio nello svolgere lavori pericolosi metteva a repentaglio, sbagliando, non solo la propria salute ma anche la sua integrità morale perché di certo non favoriva la ricerca di soluzioni atte a proteggere la sua salute e quella di quanti sarebbero venuti dopo di lui. Sullo stesso piano possiamo mettere oggi quell’imprenditore che ricava enormi vantaggi economici da una discarica, da un inceneritore o da una lottizzazione pagando il misero prezzo di qualche opera pubblica e lasciando per il futuro problemi spesso enormi dal punto di vista ambientale, potenzialmente irreversibili e comunque costosissimi da risolvere. Problemi che il più delle volte vanno ben oltre i confini dei comuni che beneficiano delle “elargizioni”, in termini di opere pubbliche, dell’imprenditore. Una discarica o un inceneritore, com’è noto, stanno fisicamente dentro i confini di un comune ma i loro impatti a breve e a lungo termine si fanno sentire in aree ben più grandi, per la semplice ragione che l’aria e l’acqua non sono imbrigliate nei confini amministrativi. Lo stesso vale per le lottizzazioni, se consideriamo, ad esempio, l’aumento di traffico veicolare indotto o il fabbisogno di servizi e infrastrutture collettive. Va quindi condotta innanzitutto una battaglia culturale. Va rispolverata una parola poco di moda, ma pregnante in questo caso, l’etica. Va stigmatizzata l’immoralità di quegli amministratori che per qualche soldo in più di entrate straordinarie nei comuni di cui si trovano temporaneamente a reggere le redini, prendono decisioni che andranno a incidere sulla vita delle popolazioni di quei contesti attuali e future. In un Paese come l’Italia, già stremato da un dissennato assalto all’ambiente e al paesaggio, la parola d’ordine urgente da adottare a tutti i livelli è che l'”ambiente non si vende”.

Dalle parole ai fatti

A questa affermazione di principio devono però seguire provvedimenti innovativi e coerenti sui processi decisionali circa l’uso dell’ambiente e del territorio. L’assunto è che la “sindrome Nimby” non è una malattia, bensì l’estrema salutare reazione di “difesa immunitaria” dell’ambiente aggredito. Piuttosto che combattuta, va dunque favorita ed estesa proprio per la sua capacità di combattere quella che appare come una vera e propria “metastasi sviluppista”. Ma come? Innanzitutto depotenziando il sistema degli incentivi alla monetizzazione dell’ambiente agendo in due direzioni. In primo luogo, occorre introdurre un vincolo per cui vi sia un limite quantitativo molto rigido, rapportato al numero degli abitanti, per le entrate straordinarie (oneri di urbanizzazione, Ici, contributi e compensazioni economiche varie, ecc.) dovute a opere che sottraggono territorio all’uso agricolo e naturale, distruggono il paesaggio e impattano sull’ambiente. In secondo luogo, va obbligatoriamente prolungata almeno a un decennio dalla conclusione dei lavori la durata delle fideiussioni che i costruttori sono obbligati a depositare per far fronte a eventuali imprevisti o conseguenze indesiderate che si manifestassero a medio termine. Le spese sostenute per rimediare ai danni da inquinamento prodotti dalle industrie devono essere pagati dalle industrie stesse, non dalle comunità locali o dalla collettività nazionale. Infine, ed è questo un punto decisivo, è assolutamente indispensabile che si corregga l’attuale deregolazione pianificatoria per cui al singolo Comune è di fatto concesso un uso del tutto discrezionale del proprio territorio. Da un lato i vincoli paesaggistici devono cioè diventare davvero stringenti e non aggirabili da parte di nessuno, con un potere e una capacità di controllo delle Sovrintendenze decisamente potenziati. Dall’altro, oltre a rafforzare il potere di pianificazione territoriale delle Regioni (o Province, qualora si decidesse che questi livelli di governo locale debbano sopravvivere ed essere rilanciati), occorre introdurre una norma per cui le decisioni che concernono opere che consumano territorio, alterano il paesaggio e impattano in modo significativo sull’ambiente devono essere assunte congiuntamente e con pari poteri non solo dal Comune ospitante, ma anche da tutti i comuni limitrofi coinvolti e potenzialmente toccati dagli effetti a breve, medio e lungo periodo delle opere stesse. Alle obiezioni di quanti ritengono che in questo modo si bloccherebbe la “crescita” o la “modernizzazione” del Paese, rispondiamo che invece così si salvaguarderebbe quel poco di paesaggio e di ambiente naturale che ancora non abbiamo deturpato. Bloccheremmo cioè la dilapidazione della maggiore risorsa “non-rinnovabile” del Paese, un patrimonio fondamentale per la vita di tutti noi.

Fuoriuscire dalla trappola della crescita

Dopo oltre un trentennio di globalizzazione senza regole e dopo che il nuovo millennio ci ha regalato una crisi finanziaria da cui non si intravede una via di uscita, forse sarebbe il caso di tirare le somme e fare il punto della situazione. La cura che ci è stata somministrata dai depositari del verbo neoliberista a dosi sempre più massicce non sembra abbia prodotto gli effetti auspicati. In realtà, la crescita appare sempre più un miraggio che continua inesorabile a sfuggire all’Italia, nonostante gli innumerevoli tentativi di “agganciarla” messi in atto dai tanti governi che si sono susseguiti. Forse dovremmo oggi essere sufficientemente lucidi per vedere che la globalizzazione senza regole non ha come obiettivo quello della “crescita” e di un diffuso benessere, ma soprattutto quello di permettere alle multinazionali di realizzare il massimo profitto, traendo spregiudicatamente vantaggio da un mercato del lavoro globale che in troppi Paesi si presenta con forme di vera e propria schiavitù. Purtroppo, ciò accade sempre più frequentemente anche qui in Europa dove i grandi manager globali hanno potuto spesso aggirare le conquiste civili, i diritti dei lavoratori, le tutele dell’ambiente che si sono realizzati in decenni di cultura democratica e di lotte sociali 17M. Revelli, ” La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi“. Vero, Laterza, Bari-Roma 2014.. Dunque, se consideriamo il bisogno di giustizia dei popoli di tutto il mondo e quello della salvaguardia dell’ambiente naturale, comprendiamo facilmente che la globalizzazione senza regole non funziona. Sono più d’uno gli economisti che auspicano una graduale de-globalizzazione rivalutando, contro l’idolo del mercato, il ruolo indispensabile dello Stato nell’economia, perché questa torni ad essere al servizio del bene comune. Una prospettiva che va nella direzione di garantire a tutti gli uomini e le donne del pianeta condizioni dignitose di vita (cibo, casa, salute, istruzione, lavoro, energia, internet…) assicurando alle generazioni future un ambiente vivibile e dunque pulito e non del tutto dilapidato.

Favorire la cura del territorio

In Italia, in modo sempre più compulsivo nell’ultimo decennio, si è cercato di far leva esclusivamente sulla competitività manifatturiera nei mercati globali per perseguire la mitica “crescita”. Più recentemente nel nostro Paese – ed è una singolarità nel contesto europeo – i diversi schieramenti della politica istituzionale (salvo rare eccezioni) si sono dimostrati in apparente competizione, ma di fatto sembrano mirare agli stessi obiettivi: determinare le condizioni per una “nuova crescita” dell’economia e per quella che chiamano “modernizzazione” del Paese attraverso la realizzazione di infrastrutture: autostrade (anche quelle inutili come la Bre-Be-Mi) Tav, rigassificatori, ecc. ecc. Insomma l’attuale ceto dirigente italiano (politico, imprenditoriale, manageriale, accademico e culturale) sembra essere fondamentalmente unito (ripeto, fatte salve lodevoli e minoritarie eccezioni) nel prospettare al Paese una direzione di marcia che ha già dimostrato tutti i suoi limiti. Nel contempo è stata del tutto trascurata la più preziosa risorsa per il benessere del Paese, il territorio. Sono enormi i costi che dobbiamo pagare come collettività per i danni prodotti ciclicamente dal dissesto idrogeologico, dalla mancata prevenzione antisismica, dalle mancate bonifiche e dall’evidente impatto sui costi sociali e sanitari. La cura e la bonifica del territorio per secoli hanno permesso a tante generazioni di vivere dignitosamente attraverso il prosciugamento delle zone paludose, l’innervamento di una capillare rete idrica per l’irrigazione delle zone aride, la sistemazione dei versanti montuosi per la coltivazione, la cura dei boschi per prevenire le frane. Ora, invece, sembra che il territorio non abbia più alcun valore, che possa essere del tutto trascurato e lasciato deperire. Eppure è solo dal territorio che può venire per la nostra economia e la nostra società un riscatto duraturo e su basi solide, perché non esposto all’aleatorietà della globalizzazione: è una battaglia culturale e politica durissima che non possiamo permetterci di perdere.

Verso una “decrescita serena”

Sembra non si voglia accettare la realtà di condizioni storiche mutate che rendono oggi improponibile e irrealistica la prospettiva di un nuovo “boom economico”. Quella crescita a due cifre fu possibile grazie a un’illimitata (in apparenza) disponibilità di combustibili fossili a basso costo, grazie a materie prime ottenute a prezzi di rapina dai rapporti neocoloniali imposti dal primo al terzo mondo, grazie a un patto sociale che permetteva di redistribuire una parte del benessere ai lavoratori. Queste condizioni non ci sono più e non si ricostituiranno facilmente. Anzi, il contesto della globalizzazione ci prospetta un drammatico peggioramento: non solo la produzione di beni tende inesorabilmente a un continuo decremento, ma quel che è peggio è che ciò si associa a una crescita esponenziale dell’ingiustizia sociale, a una redistribuzione alla rovescia del reddito prodotto da chi ne possiede meno a chi ne gode di più, nonché a un progressivo degrado ambientale. Diversi economisti concordano sulla prospettiva di una Stagnazione secolare in Occidente prefigurata da Larry Summers 18L. Summers, The Age of Secular Stagnation: What It Is and What to Do About It, http://larrysummers.com/2016/02/17/the-age-of-secular-stagnation/ che inevitabilmente sarebbe seguita ai Trenta anni gloriosi, ovvero all‘età dell’oro – per citare la definizione dello storico inglese Eric Hobsbawm – collocabile tra il 1945 ed il 1974, data del primo oil shock 19E. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991. L’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995.. E del resto non è pensabile una crescita quantitativa della produzione di merci e dei consumi illimitata in un pianeta che illimitato non è 20Club di Roma, I limiti dello sviluppo, Napoli 1972.. Secondo Serge Latouche si tratterebbe di una superstizione che stride con il buon senso e la ragionevolezza 21La bibliografia di Serge Latouche è molto ampia. Segnaliamo solo: Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo , EMI, Bologna 2004; Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino 2011; La scommessa delle decrescita, Feltrinelli, Milano 2014.Crescita è una parola presa in prestito dalla biologia, dagli organismi viventi: questi, però, nel loro flusso vitale, si sviluppano fino alla maturità, dopo di che declinano per essere riassorbiti e rigenerati nei grandi cicli naturali della biosfera. Negli organismi viventi la crescita smisurata e incontrollata è letale, frutto avvelenato delle neoformazioni tumorali. Ebbene, l’economia moderna ha avuto la presunzione di far meglio della natura, di dar vita a una macchina della crescita senza limiti, che non raggiungerebbe mai la maturità, che dovrebbe procedere all’infinito secondo una linea continua ascendente. Smascherare l’inganno è il compito che si è proposto Latouche, assumendo il punto di vista delle popolazioni che necessariamente da questo sviluppo sono escluse e incrociando la migliore cultura ecologista, in particolare la straordinaria intuizione dell'”impronta ecologica” con cui si dimostra come questo tipo sviluppo per alimentarsi richiederebbe le risorse non di uno, ma di due, tre, cinque o più pianeti, soprattutto se volessimo estenderlo a tutti i popoli. Insomma, su questa strada l’umanità prima o poi va a sbattere, come fa intravedere l’odierno caotico scenario internazionale, sconvolto dall’incontrollabile deflagrazione di conflitti cruenti e da migrazioni bibliche ingovernabili, alimentate da diseguaglianze abissali ed insopportabili. L’erranza di Latouche lo porterà a coniare espressioni fulminanti come “decrescita serena” e “abbondanza frugale”, apparentemente contraddittorie se si rimane ancorati alla logica di uno sviluppo senza limiti, ma in realtà anticipatrici di una nuova e feconda prospettiva per l’umanità. “Decrescita serena”, infatti, non ha nulla a che vedere con l’attuale recessione, ovvero con il disastro di una società programmata per la crescita, ma condannata a non raggiungerla mai: disoccupazione, debito pubblico, disuguaglianze e degrado ambientale aumentano, mentre peggiora la qualità della vita. La “decrescita serena” richiede ben altre politiche generali e comportamenti individuali e collettivi che Latouche riassume nelle 8 R: rivalutare, ovvero liberare l’immaginario dal giogo della logica di uno sviluppo illimitato; riconcettualizzare, nel senso di ridefinire i valori fondanti di una società “frugale” ed equa; ristrutturare, emancipandosi dalla crescita quantitativa, per un riordinamento qualitativo; ridistribuire le risorse e le ricchezze nel segno dell’equità; rilocalizzare le produzioni e le attività umane invertendo il processo dì globalizzazione; ridurre i consumi superflui a partire dagli sprechi, sia energetici che di merci; riutilizzare i beni contrastando l’attuale obsolescenza programmata dei prodotti; riciclare e rigenerare i materiali per ridurre il fabbisogno di risorse e la produzione di rifiuti. Quindi, se i dogmi dello sviluppo a ogni costo hanno spalancato l’abisso di una crisi senza fine, l’alternativa radicale, secondo Latouche, è uscire dall’economia, nelle pratiche e nell’immaginario. L’unica strada percorribile per lui, e per tutti gli obiettori della crescita, è quella di recuperare una prosperità non mercantile, ma relazionale. Peccato che, in generale, l’attuale classe dirigente non possa o non voglia permettersi il lusso di una visione di lungo periodo, non riesca a sporgere il proprio sguardo sulle condizioni tra cinquanta o cento anni, in termini di quantità e qualità delle risorse naturali disponibili, per un’esistenza dignitosa e salubre dell’umanità sulla terra.

La pesante eredità per le future generazioni

Chi avesse a cuore i giovani e le generazioni future dovrebbe preoccuparsi della pesante eredità che lasceremo loro: non solo un enorme debito pubblico ma, per esempio, oltre 10 milioni di ettari di superficie agraria e forestale distrutta dalla cementificazione selvaggia. Mentre 50 anni fa un italiano aveva a disposizione mediamente una superficie produttiva pari ad un campo di calcio, oggi questa si è ridotta a un terzo. Un territorio, dunque, a tal punto devastato dal disordine urbanistico che, in molte aree del Paese, basta un acquazzone troppo intenso per provocare frane e inondazioni con danni incalcolabili alle cose e alle popolazioni. Un patrimonio edilizio che in generale fa acqua da tutte le parti, sia in termini di dispersione energetica che per assenza di strutture antisismiche. Soprattutto dal secondo dopoguerra, in Italia si è infatti costruito troppo e male, senza tener conto che ci troviamo su una delle faglie più attive e che terremoti si verificano con regolare periodicità. Nel Paese del sole, i nostri sistemi di approvvigionamento energetico dipendono ancora in gran parte da combustibili fossili importati e comunque destinati all’esaurimento. Lasciamo in eredità alle future generazioni innumerevoli siti industriali inquinati e migliaia di discariche abusive o incontrollate, con importanti e diffuse contaminazioni dei suoli, delle acque superficiali e di falda, e con prevedibili impatti negativi sulla salute di centinaia di migliaia di abitanti attuali e futuri di quelle aree. Lasciamo una Pianura Padana con livelli di PM10 che normalmente superano di due o tre o volte il limite che l’Ue prescrive come insuperabile per la tutela della salute umana, smog che gli esperti stimano accorci di 3 anni la vita media delle persone, con diverse migliaia di morti all’anno. Sono solo alcuni esempi del pesante fardello che carichiamo sulle spalle delle future generazioni, di cui nessuno si occupa davvero, salvo nelle dichiarazioni rilasciate in occasione di eventi catastrofici, frettolosamente archiviati quando si spengono i riflettori dei mass media. Eppure sono debiti che hanno a che fare, non con la volatilità della finanza e con la stabilità dello spread, ma con questioni essenziali per la sopravvivenza umana: la sicurezza alimentare; la salubrità dell’acqua, dei suoli e dell’aria; l’energia indispensabile per la riproduzione della vita e per l’organizzazione della società; la garanzia di un’abitazione sicura per la propria famiglia e di scuole non pericolanti per i nostri figli, al riparo dagli effetti distruttivi, ma prevenibili, delle cosiddette “calamità naturali”.

Una necessaria “conversione ecologica”

È di questi debiti che la nostra società deve farsi carico, oggi, attraverso una necessaria “conversione ecologica”. Un concetto elaborato tanti anni fa da quel profeta tragico che fu Alex Langer, che richiede un’imprescindibile coerenza etica nello stile di vita per cui ognuno, qui ed ora, deve costruire innanzitutto nel suo piccolo il futuro che propugna. In questa prospettiva gli stili di vita, l’etica del quotidiano, la sobrietà sono qualcosa di indispensabile verso cui effettivamente negli ultimi anni si sono compiuti passi importanti tanto che non si contano le pratiche virtuose che vanno in questa direzione: dal consumo critico ai bilanci partecipati, dai gruppi di acquisto al commercio equo e solidale. Passi che, tuttavia, non sono sufficienti se slittano verso un atteggiamento di rinuncia quasi pregiudiziale al terreno della politica e del governo istituzionale. Senza di ciò, questo processo molecolare dal basso probabilmente non riuscirà ad aggredire quei “debiti di sistema” a cui si faceva riferimento. Per questo è indispensabile che la “conversione ecologica” sia sostenuta da una parallela “conversione politica”, cioè da una nuova buona politica, intesa come servizio disinteressato al bene comune dei cittadini e dell’ambiente, capace di valorizzare la partecipazione dal basso e anche di traguardare gli autentici bisogni di delle generazioni future.

Risanare le città

Prima di rimodellare le città, dobbiamo liberarle dal fardello dell’inquinamento ereditato dal passato. L’obiezione più comune è che bonificare comporta ingenti investimenti in larga parte “a perdere”. Invece, come ci spiega l’economista Andrea Di Stefano, sarebbero straordinariamente redditizi sul lungo periodo:

Sarebbe interessante un’analisi reale sui costi che la collettività ha sopportato nell’ultimo secolo a causa di “innovazioni” che hanno lasciato, e lasciano, pesanti eredità, dirette e indirette, per la salute umana. Temiamo che nessun istituto di ricerca pubblico riceverà mai le risorse necessarie per effettuare questo studio. Proprio per questo crediamo che debba essere acceso un riflettore sui siti da bonificare. Decine di milioni di persone in tutta Europa stanno pagando e pagheranno costi umani e sociali altissimi per l’inquinamento di attività produttive che creano un danno ingentissimo. Sappiamo che le attività di bonifica sono il primo passo per tentare di mettere un argine alla voragine economica che il mancato intervento sta già producendo. Investendo 100 euro in attività di risanamento è possibile risparmiare da 15 a 40 volte i costi connessi all’insorgenza delle patologie più o meno gravi connesse ai fattori di inquinamento e da 10 a 14 volte i danni fondiari riconducibili al deprezzamento del valore di aree e immobili presenti nelle aree confinanti con quelle da risanare. Che le bonifiche siano convenienti sul lungo periodo anche sul piano economico lo dimostrano, infatti due studi recenti. Il primo, Policies to clean up toxic industriai contaminateti sites of Gela and Priolo: a cost-benefit analysis , è stato pubblicato nel 2011 su una prestigiosa rivista internazionale, “Environmental Health”, da un’equipe internazionale, ma molto italiana (Carla Guerriero e John Cairns della London School of Hygiene and Tropical Medicine, Fabrizio Bianchi e Liliana Cori del Cnr di Pisa) e prende in considerazione due tra i grandi Sin in Sicilia, Gela, 10 mila ettari di terra su cui incombe il Polo petrolchimico Eni, e Priolo, 100 mila ettari sui comuni di Melilli, Priolo Gargallo e Augusta, dove si trova il Polo petrolchimico siracusano. Per bonificare l’area di Gela servirebbero 127,4 milioni di euro e 774,5 milioni per Priolo di contro ad un beneficio economico, sui 50 anni, che ammonterebbe rispettivamente a 6 miliardi e 639 milioni ed a 3 miliardi e 592 milioni di euro per costi socio-sanitari non sostenuti (prestazioni pubbliche, carichi di paure e sofferenza, spese private, mancata produttività ecc.), senza contare le 47 morti premature, i 281 ricoveri ospedalieri per tumore e i 2.702 ricoveri ospedalieri non tumorali, che si eviterebbero ogni anno. Il secondo prende spunto dal progetto di legge approvato in Israele nel 2011 per regolare tutti gli aspetti relativi alla contaminazione del suolo e disciplinare le bonifiche. Uno studio condotto da Lavee et al., finalizzato a valutare il rapporto costi/benefici economici delle bonifiche, che considera due tipi di benefici: quelli diretti (aumento del valore della terra bonificata) e quelli indiretti (aumento del valore delle proprietà circostanti). A fronte di un costo stimato di 670 milioni di dollari i benefici totali sarebbero di circa 9.6 miliardi, cosicché le operazioni di bonifica porterebbero a vantaggi economici considerevoli, risultanti in particolare in un rapporto costi/benefici di 1:14. Le bonifiche, che non sono quindi un costo, rappresentano il punto di partenza per testimoniare il valore del limite economico e sociale e, per questo, è indispensabile concretizzare al più presto le attività operative, utilizzando le risorse disponibili, a cominciare dai fondi strutturali comunitari. È venuto il tempo di rompere gli indugi per una rivoluzione economica che può avere importanti ricadute sui sistemi locali, non solo sul fronte prettamente del risanamento ambientale 22A. Di Stefano, Bonificare è meglio che curare, “Missioneoggi”, n. 1, gennaio 2014, pp. 25-26. .

Perché “Casa Italia” non sia solo un annuncio

Mettere mano a una grande, immensa, opera di riqualificazione del territorio non è più procrastinabile. Questa è evocata anche dal Piano “Casa Italia”, ma perché non si riduca a essere uno dei soliti annunci che cadono nel vuoto, vanno preliminarmente chiariti alcuni punti essenziali. Il primo è che bisognerebbe finalmente decidere con vincoli stringenti lo stop a nuovo consumo di suolo e a nuova cementificazione: una legge chiara e coerente in tal senso sarebbe fondamentale. Il secondo è che occorrerebbe compiere una severa revisione delle altre presunte “vere priorità” legate alle cosiddette “grandi opere infrastrutturali”. Le risorse sono scarse e vanno necessariamente impiegate con oculatezza. È necessaria una direzione chiara verso cui indirizzare gli investimenti. Non si può fare tutto e il contrario di tutto: ad esempio, rilanciare la ricerca dei combustibili fossili o l’idea di fare del Sud Italia un grande hub del metano con il gasdotto Tap e nel contempo investire per sviluppare le energie rinnovabili. Politiche errate producono errori che si potrebbero evitare con grande risparmio di risorse pubbliche. Si pensi, per fare un esempio, a quelle infrastrutture recentemente realizzate che si stanno rilevando pressoché inutili come l’autostrada Bre-Be-Mi: in questo caso non si tratta solo di spreco di denaro che poteva essere meglio impiegato, ma di distruzione irrimediabile di una vasta estensione di suolo fertile. I progetti per le “grandi opere” andrebbero dunque rivisti tenendo conto della nuova prospettiva in cui ci troviamo, che non può essere quella di un nuovo “miracolo economico”. Insomma, non possiamo permetterci di buttare soldi in “grandi opere infrastrutturali” dall’utilità controversa, mentre preme l’urgenza e la priorità assoluta dell’unica vera grande opera buona, ovvero la riqualificazione delle città e dell’insieme del territorio: quello che potremmo chiamare Progetto Belpaese 23M. Ruzzenenti (a cura di), Progetto Belpaese. Una grande opera per l’Italia, dossier di “MissioneOggi”, n. 1, gennaio 2014, http://www.ambientebrescia.it/ProgettoBelpaeseMO_gennaio_2014.pdf.. Qui le azioni possibili sono molte e ci sarebbe spazio per la ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica, l’economia e l’occupazione. Facciamo cenno solo ad alcune. Di attualità (ma ancora per quanto tempo?) è la ristrutturazione antisimica dell’edificato, con l’avvertenza che in quest’opera, come ricorda Vittorio Emiliani, vengano coinvolte le Sovrintendenze, onde garantire che la messa in sicurezza degli edifici storici sia coerente con la loro tutela. Questa linea di intervento potrebbe cioè essere l’occasione per la programmazione di interventi di manutenzione del patrimonio architettonico e culturale, onde evitare che al prossimo “inaspettato” crollo si gridi alla scandalo. Al contempo, si dovrebbe operare per una ristrutturazione energetica degli edifici, sia nella direzione del risparmio (nelle città lombarde, oltre il 60% degli edifici si trovano ancora delle ultime due classi energetiche) che dell’uso dell’energia solare. Occorrerebbe poi liberare le città dai rifiuti che come ricorda l’Ue, con la nuova direttiva sull’ economia circolare, dovrebbero essere trattati non come residui da “smaltire” in discariche o inceneritori (la Lombardia ne ha 13, un’enormità!) ma come materiali post consumo da rigenerare, recuperare, riciclare: dunque bisognerebbe a tal fine riprogettare i processi industriali e i prodotti incorporandone la possibilità tecnica di un completo riciclo; bandire gli “usa e getta” e i prodotti ad obsolescenza incorporata, premiando la durabilità degli stessi; e infine sviluppare tutta la filiera della raccolta intelligente di questi materiali e della loro riutilizzazione: solo così potremo evitare alle nostre città il destino di Leonia delle Città invisibili di Italo Calvino che a forza di produrre e smaltire rifiuti attorno a sé si ritrovò sommersa rovinosamente dalla “monnezza”. Avremmo poi bisogno di sistemi di trasporto “dolci” che rendano sempre meno conveniente l’uso dei mezzi a motore privati nelle città, come già avviene spesso nel centro e nord Europa (per esempio, a Monaco, Amsterdam, Berlino, Budapest). Infine bisognerebbe reintegrare la città con il territorio naturale circostante. Innanzitutto rendendo quest’ultimo di nuovo amico dell’abitare, con quell’altra grande opera buona e urgente di un riassetto idrogeologico capace di prevenire gli effetti boomerang indesiderati sulle residenze causati da un suo uso dissennato e da decenni di incuria. In secondo luogo diffondendo la pratica degli orti urbani e scolastici e sviluppando il consumo di alimenti di prossimità e di qualità con i gruppi di acquisto solidale. Infine, la “conversione ecologica” dovrebbe investire anche l’agricoltura 24P.P. Poggio, Le tre agricolture, Fondazione Micheletti – Jaca Book, Milano 2015. emancipandola dalla chimica tossica e dai combustibili fossili.

Città: né camere a gas, né isole di calore

Il degrado della città contemporanea è stato recentemente descritto con grande efficacia dall’urbanista Paolo Berdini 25P. Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano , Donzelli, Roma 2015.. Mi limito a segnalare qui un aspetto che sta rendendo i nostri ambiti urbani difficilmente vivibili, soprattutto per i soggetti più fragili, anziani e bambini: in inverno diventano “camere a gas” e in estate “isole di calore”. Nel caso di quelle della Pianura Padana incide anche la conformazione orografica a “catino” che impedisce la ventilazione e determina una stagnazione dell’aria, anche con fenomeni di inversione termica nei periodi freddi che comprimono l’aria (e le emissioni) al suolo. A ciò si aggiunga la consistente soppressione della copertura arborea dei suoli urbani e l’estesa cementificazione che hanno determinato una riduzione delle correnti d’aria endogene, le cosiddette “brezze”. In questo quadro le emissioni prodotte dalle combustioni industriali e dai motori dei veicoli trasformano la Pianura Padana in una delle 4-5 zone del mondo con l’aria maggiormente inquinata, in particolare di ossidi di azoto che in inverno danno origine alle PM10 e PM2,5 e in estate all’ozono. La letteratura scientifica sui danni per la salute dell’inquinamento atmosferico è sterminata, ma basti qui ricordare che il 17 ottobre 2013 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Oms ha dichiarato che lo smog è cancerogeno certo per l’uomo. Il Decreto Ministeriale n. 60/2002 di recepimento della Direttiva 1999/30/CE del Consiglio del 22 aprile 1999, stabilisce che, per ciò che concerne le PM10 il valore limite di 50 µg/m3 non si può superare “per più di 35 volte per anno civile“. L’art. 17 del citato D.M. stabilisce che tale valore è il limite massimo volto alla ” tutela della salute umana“. Tale limite è entrato in vigore il 1 gennaio 2005 e da quella data l’Italia, come tutti i Paesi Ue, avrebbe dovuto rispettarlo. Ovviamente, com’è noto, nelle città della Pianura Padana (ma non solo), dal 2005 a oggi, i giorni in cui invece è stato superato sono stati mediamente da 2 a 3 volte quelli indicati. Cosicché, il 19 dicembre 2012, accompagnata dall’assordante silenzio dei media, è giunta anche la prima condanna della Corte di giustizia della Ue per inadempimenti del diritto comunitario in relazione al limite per le PM10 26 http://curia.europa.eu/juris/document/document_print.jsf?doclang=IT&text=&pageIndex=0&part=1&mode=lst&docid=131974&occ=first&dir=&cid=169804#Footnote.

In estate, oltre all’inquinamento da ozono tossico per l’uomo, si verifica il meno noto fenomeno delle “isole di calore”. Il tema fu studiato in un lontano passato da Laura Conti 27L. Conti, Che cos’è l’ecologia, Mazzotta, Milano 1977, p. 57., poi ripreso, a partire dal 2007, da Legambiente 28Legambiente, Città, il clima è già cambiato. Rapporto, settembre 2007; Il clima cambia le città, Conferenza a Venezia, 23-24 maggio 2013, http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/climacitta_atticonferenza.pdf ; le città italiane alla sfida del clima, Roma 2016, http://www.qualenergia.it/sites/default/files/articolo-doc/le_citta_italiane_alla_sfida_del_clima_2016.pdf.. L’espressione “isole di calore” è stata coniata per descrivere l’ambiente e il clima delle aree urbane durante i periodi caldi. Il fenomeno si verifica un po’ ovunque nel mondo, in particolar modo nelle grandi metropoli divenute veri e propri deserti di cemento e asfalto. Nelle città, infatti, il surriscaldamento del pianeta si esaspera e diventa più percepibile che altrove a causa della concentrazione di combustioni civili, energetiche, trasportistiche e industriali in condizioni di sostanziale assenza di verde. Un fenomeno che rischia di tradursi in emergenza sanitaria oltre che in un significativo peggioramento della qualità delle vita nelle aree cittadine. L’eccesso di caldo è responsabile dell’aumento di decessi: nel 2003, in Italia, dove le temperature furono per settimane intorno ai 40 °C in molte città, le morti durante l’estate sono state 18.000 in più rispetto all’anno precedente 29Plan B Updates – 56, Setting the Record Straight – More than 52,000 Europeans Died from Heat in Summer 2003 .. E il fenomeno si è ripetuto nel 2015 alla cui calda estate vanno in parte addebitati i 68.000 morti in più rispetto al 2014 30C. Tromba, Caldo, grande guerra e influenza. I segreti del boom dei decessi, “Il Fatto quotidiano” 9 febbraio 2016.. Nel 2015 ricercatori dell’Istituto di biometeorologia (Ibimet) del Cnr hanno sviluppato, per le più popolose città italiane, mappe relative alla distribuzione spaziale del rischio diurno e notturno da caldo urbano per la popolazione anziana (soggetti di età superiore a 65 anni). I risultati di questo studio sono stati recentemente pubblicati sulla rivista “Plos One” 31http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0127277 (32) http://eu-uhi.eu/it/. Ma al di là della mortalità, la vita in città d’estate è diventata spesso estremamente disagevole: una questione la cui rilevanza è dimostrata dal fatto che l’Unione europea ha recentemente elaborato il Progetto Uhi con cui intende fronteggiare proprio il fenomeno delle isole di calore ( urban heat island – Uhi) attraverso la pianificazione territoriale (32).

La “città intelligente” è prima di tutto salubre

Per tutte le ragioni sopra esposte, l’obbiettivo delle città italiane dovrebbe essere quello dell’abbandono dell’attuale modello termoindustriale, incompatibile con il proposito di ottenere una buona qualità dell’aria e con la necessità di liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili (green economy). Ciò sarebbe, in sostanza, quanto viene indicato dall’Europa per realizzare le cosiddette “città intelligenti” che dovrebbero essere prima di tutto salubri. Una significativa riduzione delle combustioni (70-80%) può essere ottenuta agendo su tre fronti: le combustioni industriali, le combustioni domestiche, le combustioni dei veicoli

Per le combustioni industriali: a) andrebbero gradualmente smantellate quelle facilmente evitabili, come quelle necessarie per l’incenerimento dei rifiuti urbani e speciali: questi andrebbero recuperati come materia, con benefici economici, occupazionali, ambientali; a tal fine andrebbe generalizzata una raccolta differenziata di qualità, sia domestica sia presso le singole unità commerciali e produttive; b) andrebbero drasticamente ridimensionati i cementifici, in relazione all’obiettivo di perseguire la “crescita zero” del suolo edificato e delle infrastrutture viabilistiche, assolutamente inderogabile in un territorio congestionato in cui la copertura verde e i terreni agricoli sono già sotto i limiti di soglia per conservare un accettabile equilibrio ecologico; c) andrebbero tendenzialmente chiuse tutte le centrali termoelettriche, alimentate con i più diversi combustibili (carbone, gas, “biomasse”, rifiuti, olio di colza o di palma, reflui zootecnici): questo processo andrebbe accompagnato da una drastica riduzione delle domanda energetica conseguita con interventi di risparmio sia nel settore industriale (ridimensionamento dei settori ad alto consumo energetico come l’elettrosiderurgia), sia nei consumi domestici; andrebbe inoltre sviluppato un processo di diffusione capillare della piccola produzione decentrata con fonti rinnovabili (piccolo eolico, microidroelettrico, fotovoltaico); il fotovoltaico è l’opzione strategica, purché non venga implementato su terreni agricoli o comunque verdi; si può infatti calcolare che coprendo i tetti civili, commerciali, industriali della pianura lombarda con pannelli fotovoltaici (nell’ordine di un 2% del territorio di pianura, dimensione facilmente inseribile sull’attuale edificato e cementificato), si potrebbero installare circa 20.000 MW elettrici, molto vicini alla produzione fornita dal termoelettrico da combustibili fossili); d) andrebbe ridimensionato, anche in relazione alla crisi strutturale in corso, tutto il settore della metallurgia secondaria, fortemente energivoro e inquinante: è sempre più illogico e antieconomico rastrellare rottami a migliaia di chilometri di distanza, laddove potrebbero essere facilmente rifusi in loco; in sostanza, al massimo, la dimensione potrebbe essere commisurata alla disponibilità di rottame prodotto sul territorio stesso della Pianura Padana.

Per le combustioni domestiche: a) le abitazioni, gli uffici, i luoghi di lavoro, dovrebbero essere riscaldati a precise condizioni: innanzitutto con una coibentazione ad alta efficienza; in secondo luogo bisognerebbe rendere accettabile una temperatura ambiente anche in inverno inferiore ai 20° con apposite campagne tese a spiegare come una maglia di lana in più e calze pesanti permettano condizioni di comfort accettabili e un considerevole risparmio energetico; così pure, bisognerebbe prevedere interventi di aerazione, di diffusa piantumazione di alberi in città e di coperture arboree degli edifici tesi a garantire anche in estate temperature accettabili così da non rendere necessario il condizionamento dell’aria; tali interventi dovrebbero essere sostenuti sviluppando al massimo l’impiego del solare termico (che sottrae calore agli edifici in estate e che può trovare parziale impiego anche nelle stagioni fredde) e della geotermia locale, con effetti benefici, quest’ultima, di raffrescamento in estate e di riscaldamento in inverno; in questo quadro, bisognerebbe procedere alla progressiva dismissione dei grandi sistemi di teleriscaldamento che provocano un enorme spreco di energia termica prodotta con combustioni e in estate contribuiscono al surriscaldando delle città.

Per le combustioni dei veicoli: la bussola, in questo caso, non può che essere quella della drastica riduzione dei veicoli a combustione interna, a partire da quelli diesel, molto più inquinanti di quelli a benzina. In particolare: a) le risorse disponibili per le infrastrutture viabilistiche, inutili e controproducenti, dovrebbero essere dirottate verso il potenziamento del trasporto su rotaia, delle merci e delle persone, sviluppando attorno alle città efficienti reti di metropolitane di superficie, sia tranviarie che ferroviarie, utilizzando al meglio la rete esistente; il modello potrebbe essere la città di Monaco dove la mobilità è garantita da un simile sistema, per cui l’automobile risulta perfino non necessaria; b) per le merci, si tratta anche di prevenire il bisogno di trasporti, incentivando la cosiddetta filiera corta, il “chilometro zero”, mentre andrebbero ridotti i settori ad alta intensità trasportistica (come, ancora una volta, la metallurgia); nei trasporti urbani, andrebbero del tutto sostituiti gli autobus, molto inquinanti, con i filobus, tenendo conto che quelli più moderni dotati di accumulatori al litio, non richiedono l’installazione della rete elettrica nei centri storici, che possono attraversare in totale autonomia; c) l’uso dell’automobile andrebbe quindi drasticamente ridimensionato: l’obiettivo a breve potrebbe essere quello di ridurre il traffico automobilistico, da record mondiale, presente ad esempio in Lombardia, allineandoci a Paesi più all’avanguardia come l’Olanda: si tratterebbe di abbassare le attuali 65 automobili circa ogni 100 cittadini lombardi, alle 45 auto ogni 100 cittadini olandesi: una riduzione del 30%, possibile mantenendo una qualità della vita elevata; ciò sarebbe realizzabile offrendo valide alternative: un sistema di trasporto pubblico, possibilmente a trazione elettrica, capillarmente diffuso ed efficiente; un sistema di piste ciclabili, anch’esso capillarmente diffuso e tutelato rispetto al traffico veicolare (da questo punto di vista la città di Ferrara insegna che la bicicletta può essere padrona della mobilità urbana); d) per scoraggiare l’uso dell’automobile andrebbero poi adottati provvedimenti quali: la chiusura dei centri storici alle auto; targhe alterne per tutti i periodi critici; ecopass; forte tassazione, progressiva in ragione della cilindrata e del tipo di motore; incentivi per le auto ibride (benzina-elettriche) e le auto elettriche.

Dunque, riprogettare le città a 40 anni da Seveso appare un compito di eccezionale portata perché si tratterebbe di attuare in primo luogo una sorta di rivoluzione antropologica e culturale. Da questa però non possiamo prescindere per la nostra stessa sopravvivenza e per quella di chi verrà dopo di noi: l’intelligenza delle città e delle collettività che le abitano si coglierà soprattutto dalla loro capacità di dimostrare di aver appreso la lezione del passato e di aver agito di conseguenza.

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