In questi ultimi anni la questione ambientale ha superato la soglia della visibilità sino a diventare rapidamente un’ovvietà. Non è la prima volta che succede: già negli anni Settanta il dibattito sui “limiti allo sviluppo” aveva conquistato il centro della scena politica e mediatica, per poi ricadere improvvisamente nel limbo dei temi “di nicchia”.
In effetti, l’attività che la Fondazione Micheletti è andata sviluppando a partire dagli anni Novanta nel campo della storia dell’ambientalismo scientifico e del rapporto tecnica-ambiente è stata spesso classificata come una pista eccentrica e controcorrente: così, il “Centro di storia per l’ambiente” e la rivista “Altronovecento. ambiente storia società” sono sembrate a molti iniziative curiose, magari anche meritevoli, fatte da poche e pochi (e su questo non ci piove) ma per pochissime e pochissimi. La stessa collaborazione con ISDE Brescia è nata e cresciuta all’ombra silenziosa delle minoranze.
Adesso, improvvisamente quanto prevedibilmente, “sostenibilità” è diventato il nuovo mantra: nessuno oggi può ignorare, se non la cosa, almeno la parola. Questa parola è usata in discorsi che sono però quasi sempre o molto generali, o molto puntuali. Si tende a passare dal Pianeta da salvare a “il cartone del latte va nella carta?” senza fermarsi in nessuna delle moltissime stazioni intermedie.
Le conferenze alla base di questo libro permettono di mettere a fuoco livelli di realtà che spesso restano sfocati: ambiti troppo complicati per essere davvero a portata di quanto posso fare io adesso, meglio se con un clic, ma troppo specifici per essere spendibili in un’ottica larga e comprensiva, sia questa orientata a negazione, minimizzazione, rassicurazione, sensibilizzazione o denuncia (lo spettro degli atteggiamenti è in realtà ancora più vasto e sfumato). Grazie a questi testi, siamo invitati a fare conoscenza di realtà che impattano in modo significativo sulla vita di molte persone e che comportano problemi di gestione tipici dei sistemi ecologici in contesti a industrializzazione diffusa.
Per esempio, l’acqua. Da un lato, certo, è necessaria, è vita etc. Dall’altro, sicuramente mi serve per lavarmi i denti stasera. Ma com’è gestita, nello specifico, l’acqua che attraversa la pianura padana? Come sono irrigati i campi di una delle regioni più fertili d’Europa e in cui è più forte l’impatto dell’agricoltura industriale? Non è un tema da poco, da un punto di vista ecologico. Certo, questa non potrà essere la priorità per chi sta in Ucraina, in Brasile o in Arkansas, ma è pur vero che quasi la metà della popolazione italiana vive di quest’acqua. L’orizzonte in cui siamo accompagnati è, come si dice, “complesso”, ma concreto: è complesso perché non è riducibile a sommatoria di azioni individuali, è concreto perché è un processo con confini e protagonisti specifici, su cui è possibile intervenire in modo consapevole. Non qualcosa di gigantesco e ineluttabile come la tettonica a placche, quindi, ma nemmeno un fenomeno localizzabile e aggredibile puntualmente come una spiaggia sporca. E per affrontare questo specifico ordine di realtà, bisogna impararne le regole del gioco.
Restiamo sull’acqua padana. Addentrandoci in questo ambiente si scoprirà, tra le altre cose, che il livello istituzionale pertinente, nell’ambito della gestione della risorsa idrica, è in Italia l’Autorità di bacino: l’acqua non può essere governata seguendo i limiti amministrativi degli enti territoriali (comuni, province, regioni), bisogna rispettare i confini segnati via via dalle diverse combinazioni del ciclo monti-laghi-fiumi-mare. Ed ecco allora che tra Alpi, Appennini e Adriatico si stende il bacino del Po, confinante con i bacini dell’Adige e dell’Arno. Come in altre occasioni, l’istituzione umana nasce per effetto di una legge originata da una catastrofe: era stata l’alluvione di Firenze del 1966 ad aver dimostrato che la gestione degli eventi alluvionali non poteva essere condotta su scala locale. Ecco quindi un’istituzione, fondata sull’esperienza del Peggio, chiamata a vegliare su un distretto geografico con 35 sotto-bacini, 5 grandi laghi prealpini, 55.000 km di corsi d’acqua naturali e circa 20.000 km di corsi d’acqua e canali artificiali. Tutte cose facilmente riscontrabili guardando una foto dall’alto – tutte, a parte l’azione politica dell’autorità di bacino e gli innumerevoli soggetti di cui essa deve tenere conto, perché l’azione sia efficace. Quando si dice una bella sfida.
Tra cosmo e anima ci sono quindi dei mondi concreti con caratteri ricorrenti: i sistemi biologici di cui si parla nel titolo del libro sono la base naturale su cui si innestano strumenti artificiali (politici, tecnologici etc.) che ne permettono la gestione, chiamando in causa una pluralità di attori con prospettive parziali e spesso confliggenti. Vale per la gestione dell’acqua, vale per il destino delle biomasse, vale per l’uso dei fanghi in agricoltura: i sistemi biologici sono anche sistemi tecnici, azionati o osservati da soggetti con interessi distinti, in certa misura inevitabilmente conflittuali.
Il libro include una mini-sezione storica che in parte conferma questa lezione: il testo dedicato alla tradizione agroecologica italiana è centrata su una sorta di genealogia dell’azienda agricola, intesa come “unità elementare” dell’intreccio virtuoso tra agricoltura e ambiente. Una storia fatta di personaggi maggiori e minori, di esperimenti, fallimenti, eredità e possibili recuperi. Il contributo di Pier Paolo Poggio, invece, merita un discorso a sé.
Lo merita anzitutto perché quando si diceva che la Fondazione Micheletti è andata sviluppando a partire dagli anni Novanta un’attività nel campo della storia dell’ambientalismo scientifico e del rapporto tecnica-ambiente, si stava parlando di azioni in buona parte riconducibili all’impegno di Poggio, per decenni e fino all’aprile 2021 direttore scientifico della Fondazione. Quindi, il ciclo di conferenze e il libro sono parte di questo lungo cammino, non solitario ma reso possibile da un fortissimo investimento personale e diciamo non troppo intralciato dalle luci della ribalta.
Ma è anche il testo ad avere un respiro e un tono differenti. Finora, forte del taglio degli altri contributi qui raccolti, ho provato a dire che parlare di ambiente significa entrare in sistemi biologici specifici che sono anche sistemi tecnici attraversati da faglie politiche (perché se l’acqua è di tutti, in compenso non tutti inquinano allo stesso modo e non tutti hanno le stesse idee circa le priorità da perseguire in tema di tutela della qualità delle acque; che poi, in effetti, siamo davvero tutti d’accordo che l’acqua è di tutti?). Insomma, anche se è abbastanza facile, e non del tutto inutile, parlare di ambiente in generale o cavarsela con la propria buona azione quotidiana, il libro spinge a entrare nei dettagli delle questioni e sta qui il suo merito principale.
In tale discorso, la frase di Poggio: “Il progetto fondamentale delle culture politiche della modernità è la cancellazione del mondo contadino” suona un po’ contraddittoria. Questo è un epitaffio, non è un’istruzione per l’uso.
Penso che questo motto e le prime pagine del testo di Poggio entrino in una contraddizione fruttuosa con il resto del libro. Il resto del libro porta a fare passi avanti verso le cose. Queste pagine portano invece a fare un passo indietro o, per restare sul corporeo ma con una metafora più vicina al comportamento reale, a sollevare la testa dal libro. Nella mente del lettore sospeso, comunismo sovietico, colonialismo occidentale e agricoltura nordamericana balenano come processi storici convergenti, con una dinamica che ha in effetti qualcosa della citata tettonica a placche. Stessa invisibilità a occhio nudo, stesso rumore senza suono.
Una volta riabbassata la testa sui problemi posti dal trattamento delle biomasse, le campagne ucraine, la foresta amazzonica e i trattori dell’Arkansas passano inevitabilmente sullo sfondo. Ma è bene non dimenticare mai del tutto che i nostri sbattimenti tra chiuse, mangimi e alberi di melo fanno parte di una storia che è sempre più una.