Pensare il 68 a cinquant’anni di anni di distanza presuppone la messa a fuoco di alcune considerazioni preliminari sul 68 come oggetto storico. Le elenco in ordine sparso: esiste una storiografia sul 68 ? E se sì con quali caratteristiche, a livello nazionale-italiano, ovvero internazionale, o locale. Quali che siano le risposte un primo tema parrebbe essere il bilancio della storiografia sul 68; il che però si collega subito a uno dei topos più ricorrenti: quanto è durato il 68, quando iniziato e quando finito? Cosa che rimanda alle diverse partizioni spaziali di cui sopra, tenendo presente che una delle interpretazioni che vanno (andavano ?) per la maggiore sostiene che il 68 è il primo evento storico globale ( rischiando di dimenticare la Seconda guerra mondiale e l’inaugurazione dell’era atomica).
Una volta stabilito che il 68 c’è stato, quale che ne fosse la consistenza, l’importanza, l’estensione, le cause e le conseguenze, bisogna individuare quali sono stati gli attori del 68. Qui ci sono state forse più analisi sociologiche che storiche, in ogni caso è uno dei terreni cruciali, anche perché è un tema, a suo tempo, fortemente influenzato dalle ideologie degli attori in campo. In ogni caso mi sembra ineludibile inserirlo nel progetto di pensare il 68, individuando l’esistenza (o meno) di tale tipo di indagine e per quali aree e contesti. Aggiungo che la questione ha a che fare direttamente con il tema della classe, quella per eccellenza, vale a dire operaia, ovvero con la confutazione della centralità di tale attore sociale, con il venir meno della sua operatività politica, o al contrario (vedi 69 italiano) con la sua conferma. Secondo un’interpretazione che parrebbe maggioritaria il 68, del tutto contro le sue intenzioni, cioè della gran parte dei suoi protagonisti, segnò il venir meno dell’operatività del programma classista socialista o comunista piuttosto che una sua nuova e inedita manifestazione. Questo, a mio avviso, rimanda a due altri macrotemi: il 68 e il capitalismo, il 68 e la democrazia.
Negli anni 90, ma diversi segnali erano precedenti, ha preso piede un’interpretazione secondo cui il 68 ben lungi dal segnare un momento di attacco al capitalismo e di tentativo di metterne in crisi i fondamenti, in ragione di comportamenti, azioni, obiettivi e valori propugnati e più o meno attuati, ha segnato invece una svolta in avanti del capitalismo stesso. La questione credo vada sviscerata, per stabilire, del tutto provvisoriamente è ovvio, se si tratta di un caso classico di eterogenesi dei fini ovvero , al contrario, di una applicazione, sia pure inedita, del modello ben noto secondo cui la rivoluzione si sarebbe affermata veramente solo dopo che il capitalismo avesse esplicitato tutte le sue potenzialità. Oppure se, come penso, tutto questo lavorio interpretativo ex post sia più di ostacolo che di utilità per collocare e conoscere il 68 in una prospettiva storica. Detto bruscamente, il 68 non è stato il battistrada del nuovo capitalismo né per scelte soggettive né per gli effetti oggettivi e involontari del suo manifestarsi, della sua azione e della sua cultura, se non in un senso che va indagato e non solo affermato. Nel senso che il 68 ebbe la capacità di far emergere e coagulare tutte le forze reazionarie presenti nella società, nell’economia e nella politica. La potenza di questa reazione, che ebbe il suo epicentro negli USA, non venne affatto colta dai protagonisti e portavoce, più o meno riconosciuti, del movimento del 68 e dei suoi esiti rapidamente frammentati. E qui si tocca un altro tema di rilievo, vale a dire la grande asimmetria tra ciò che è stato il 68 nel suo manifestarsi molteplice e ubiquitario e le capacità soggettive dei suoi protagonisti, un dislivello micidiale in cui è già inscritta la sconfitta, per altro molto più laboriosa di quanto non recitino i racconti dei vincitori, in genere mediocri se non miserabili.
Il tema della democrazia, sotto forma di presa della parola, orizzontalmente in ogni ambito della vita e della società, apparve subito come un tratto qualificante, capace di scavalcare antichi e recenti steccati, riuscendo ad avere una presa sociale che per un momento spaventò realmente il potere, nelle sue varie concrezioni. Era una democrazia che aveva il suo luogo di elezione nell’assemblea, fulcro espressivo e forma politica del confronto diretto tra gli attori del movimento. Ma una rivoluzione democratica, sia pure radicale e diretta, non era ciò a cui aspiravano i protagonisti del 68, e questo per più motivi: l’impazienza rispetto alla costruzione faticosa di forme organizzative in cui dare espressione e continuità alla partecipazione generalizzata che si avvitava su se stessa; l’aspirazione, riaffiorante, di prendere il potere, spezzando il rituale democratico; l’ambizione di costruire nuovamente il partito della classe, cancellando i tratti borghesi e interclassisti della democrazia universale e generalizzata, smentita dai comportamenti reali dei soggetti sociali, carichi di tutta la vecchia zavorra che soffocava la manifestazione del nuovo, appena intravisto. Ma in questo modo l’impazienza buttava l’acqua con il bambino neonato. E nondimeno semi importanti erano stati gettati, solo che fruttificavano in tempi e luoghi diversi, senza che fosse più possibile ritrovare in termini di coscienza un’unità raggiunta in modo spontaneo. Sempre con grande sommarietà possiamo dire che il 68 fu sia anticapitalista che filodemocratico, pur non riuscendo ad abbattere il capitalismo (chiamato sistema) né riuscendo a dare forza e radicamento alla democrazia (anzi finendo per propendere verso ideologie antidemocratiche).
Le perduranti difficoltà a inquadrare storicamente il 68, la sua costitutiva ambivalenza, emergono a livello di giudizio sintetico: il 68, quale che ne sia la natura e importanza, ha vinto o ha perso ? Qui il ventaglio delle posizioni si apre a 180 gradi; lo stesso quando lo si misura come evento storico più o meno significativo, trascurabile per alcuni cruciale per altri. Una maggiore convergenza pare registrarsi sulla natura del 68. Al di là della sua rilevanza esiste un accordo ampio sul fatto che si trattò di un moto di ribellione generalizzato di giovani studenti prevalentemente di classe media. Sosterrò di seguito che per capire il 68 bisogna sottoporre ad analisi critica tale rappresentazione, che è servita a costruire l’immagine condivisa del 68 ma che, a mio avviso, si frappone a una sua più piena e approfondita comprensione.
Ritorno ancora sul robusto raggruppamento di critici e demistificatori del 68, trasversale alle posizioni politico-ideologiche, che è riuscito nel corso degli anni ad assumere un peso egemonico nel dibattito intellettuale. Secondo costoro il 68, ovviamente come rivoluzione culturale e non come movimento politico, ha vinto la sfida lanciata contro la società e i suoi valori obsoleti, ma una tale vittoria si è rivelata il vettore di una piena nemesi storica, per il cui il 68, lungi dal realizzare una critica pratica della società dello spettacolo, secondo la teorizzazione più radicale formulata a ridosso dell’evento, ha dato una spinta decisiva alla sua generalizzazione.
In sostanza il 68, contravvenendo alle sue intenzioni, non ha colpito e messo in discussione il capitalismo, anzi è stato alla base del suo rilancio e dell’apertura di un nuovo ciclo di sviluppo, non più basato sui valori dell’etica protestante ma sull’edonismo di massa (da cui il presunto passaggio dalla centralità della produzione a quella del consumo). Ora questa interpretazione e critica del 68, qui esposta in termini sommari, si basa su due presupposti dati per assodati, vale a dire che si trattò, come detto, di una rivoluzione culturale vittoriosa, guidata da una élite di giovani studenti universitari di estrazione borghese.
Si tratta letteralmente dell’immagine costruita e diffusa dai media dell’epoca e tramandatasi nel tempo, sino ad assumere le fattezze di una indiscutibile realtà storica; attorno ad un tale simulacro del 68 si sono costruiti i diversi giudizi e ingaggiati i successivi conflitti di interpretazione. Credo che sia possibile respingere o decostruire entrambi gli assunti argomentando che il 68 non fu solo e essenzialmente una rivoluzione culturale anche perché la sua dimensione sociale andava molto al di là dei giovani studenti stigmatizzati da Pier Paolo Pasolini. E’ fattualmente dimostrabile che contemporaneamente alla mobilitazione degli studenti gli stessi fermenti stavano manifestandosi nelle fabbriche, specie presso i giovani lavoratori da poco entrati in produzione, ma lo stesso accadeva in numerosi altri contesti. Solo questa diversa più ampia e più profonda dimensione assunta rapidamente dall’evento 68 può spiegare la violenta reazione del Potere, di cui proprio Pasolini più di ogni altro seppe cogliere la portata e le ragioni. Non mi pare che ad oggi sia stata adeguatamente indagata la fenomenologia complessiva di tale reazione che si manifestò con fenomenologie diverse ma convergenti nelle diverse aree geopolitiche dagli Usa all’Urss, dall’Europa all’America Latina, la quale ultima seguiva una propria dinamica storica ma non del tutto disgiunta dal contesto globale, a cui è da ricondurre il fiorire di dittature militari sanguinarie nel subcontinente e sul versante 68 il radicarsi della teologia della liberazione.
Il caso italiano, ancora una volta, è di notevole interesse. In ragione delle vaste mobilitazioni sociali dispiegatesi attorno al 68, e non certo per i cambiamenti in atto nella sfera dei costumi e dei consumi, a causa altresì della delicata collocazione geopolitica, con conseguente mobilitazione anticomunista degli apparti di sicurezza e non solo, il nostro paese vede l’elaborazione e attuazione della “strategia della tensione” riconducibile ai massimi livelli statali nord-americani e italiani. Lo spostamento sul terreno della violenza armata trova terreno fertile presso aree significative del movimento tanto da rendere possibile la rappresentazione, altresì egemonica, degli “anni di piombo” antitetici e funzionali al 68 come rivoluzione culturale pacifica. La reazione contro il 68 non coinvolse e mobilitò soltanto i centri di potere istituzionali o economici, alle prese con una rivolta inedita, contagiosa e sfuggente, da sconfiggere attraverso una netta semplificazione che consentisse di separare e contrapporre nemici e amici, aggressori del modello di vita occidentale e suoi seguaci e diffusori, in continuità con lo scontro ancora in atto tra Occidente e Oriente, capitalismo e comunismo. In questa visione da Guerra fredda, ampiamente condivisa da detentori e funzionari del potere, il 68 non era altro che una maschera del comunismo, ridiventato militante sotto le spoglie della pacifica contestazione giovanile.
Anche altri avversari del 68, sul piano intellettuale, stavano forgiando le loro armi per ribadire la necessità di un ordine fondato sulla tradizione, se non sulla trascendenza, contro l’anarchismo mistico, la dissoluzione di ogni legame e autorità che individuavano come il nocciolo essenziale della contestazione antisistemica. In tale ambito appartato ma non privo di influenza, si forgiavano alcune delle analisi che sarebbero confluite nell’interpretazione del 68 come tappa e snodo della modernizzazione, laboratorio del passaggio dalla modernità alla postmodernità, ovvero, secondo una lettura parallela, come acceleratore del movimento di dissoluzione proprio del capitalismo allorché è nelle condizioni di esplicitare liberamente la sua natura.
L’anticapitalismo della contestazione sarebbe stato di pura facciata, indirizzato contro gli aspetti più arretrati e arcaici dell’assetto sociale, del rapporto tra le generazioni (autoritarismo) e tra i sessi (maschilismo patriarcale) e al loro interno (omofobia). Quindi secondo il pensiero della tradizione e della reazione, erede della controrivoluzione otto novecentesca, il lato più pericoloso e efficace del 68 era proprio quello culturale che compensava l’irrilevanza politica operando efficacemente per una mutazione antropologica di cui avrebbe beneficiato il nuovo capitalismo sulla strada della rivoluzione tecnologica, informatico digitale. D’altronde come noto non mancavano coloro che riconducevano anche quest’ultima allo spirito del 68 nella sua versione americana.
Il tema della tecnica, che il capitalismo risolve sistematicamente in tecnologia, può solo essere sfiorato in un rapido excursus. Ci limitiamo allora a dire che nel 68, inteso in senso lato come ciclo storico che dai primi anni 60 arriva ai 70, sono sicuramente rintracciabili posizione tecnofile, oltre a rifiuti più o meno radicali che si intrecciano con le prime forme di ecologismo, ma la tecnica viene costantemente disaccoppiata dal suo utilizzo capitalistico, mentre sono presenti vivaci critiche alla subordinazione della scienza al potere, propugnando una radicale democratizzazione sia della scienza che delle sue applicazioni; si pensi da noi all’interessante vicenda di Medicina democratica, sorta sullo sfondo delle lotte del 68-69 ad opera di ricercatori e medici sotto la guida di uno scienziato come Giulio Alfredo Maccacaro.
Anche su questo terreno non mi pare corretto ricondurre al 68, bensì alla sua sconfitta, sviluppi successivi che ne capovolsero impostazioni e intenzioni. Così non è sicuramente riconducibile al 68 ma alla impasse in cui sfociò dopo la fase alta della mobilitazione collettiva la riproposizione, sotto nuove vesti, della tesi già ricordata secondo cui il capitalismo sarebbe stato superato solo grazie al suo massimo sviluppo, proprio di una robusta corrente di pensiero politico legata al movimento operaio e coniugata tanto in termini riformistici che radicali. L’ingenuità con cui venivano posti gli interrogativi fondamentali non ne autorizza lo stravolgimento: il 68 era contro il capitalismo anche se non aveva soluzioni praticabili per il suo superamento; era contro il potere verso cui non aveva rivendicazioni e a cui chiedeva semplicemente di sparire. Era sicuramente contro la guerra e anche questo aspetto non può essere banalizzato e dato per scontato.
In generale il movimento si collocava in posizione critica e di sostanziale estraneità rispetto alle grandi strutture e forze attorno a cui si è sviluppata la storia otto-novecentesca: lo Stato nazione e le sue leggi, i partiti politici, l’organizzazione industriale dell’economia, l’esercito, la scuola, la chiesa, la famiglia patriarcale. Questi diventano i bersagli della contestazione che arriva a proporne l’abolizione o, il che è lo stesso, una radicale democratizzazione. Si può certo affermare che i risultati raggiunti sono stati abissalmente distanti dagli obiettivi; in certi casi c’è stata una rapida restaurazione e il ritorno all’ordine, però qualcosa è cambiato in modo irreversibile. Le istituzione hanno perso di legittimità; nei decenni successivi, senza che alcuna contestazione le ponesse sotto accusa, si sono autodistrutte, con una perdita di credibilità irrimediabile. Si pensi ovviamente ai partiti politici ma poco si è salvato dalla corruzione dilagante e sistemica, vigorosa in Italia ma presente e crescente ovunque. E’ possibile allora argomentare che il 68, per quanto misterioso e sfuggente, abbia una portata periodizzante in quanto vettore di cambiamenti profondi e rivelatore di processi che maturavano in seno alla società. Crediamo d’altra parte che sia una forzatura attribuirgli i caratteri salienti della realtà contemporanea forgiatisi non sull’onda del movimento di contestazione ma quale risultato della sua sconfitta, dovuta all’attacco dall’esterno non meno che alle debolezze interne. Il ritorno in forze della guerra dopo l’ondata pacifista del 68 e suoi sempre più deboli sviluppi successivi ne è una prova evidente.
L’attuale situazione di caos geopolitico, di guerra permanente sotto forma di conflitti locali devastanti, rende difficile la comprensione dell’utopia pacifista, tratto saliente del 68. Un’utopia pacifista militante che trovava molti ostacoli all’interno stesso del movimento ma la cui portata e significato debbono essere compresi e valorizzati per collocare il 68 nella giusta prospettiva storica. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale furono subito gettate le basi per una terza guerra di dimensioni apocalittiche, congelata con l’instaurazione dell’equilibrio del terrore, sotto il cui segno e sullo sfondo del quale si svolgeva la vita delle popolazioni, anche quando l’economia prometteva benessere per tutti (compresi i miliardi di poveri per il momento tenuti fuori dalla porta). Ma questa era di prosperità, in concreto di generalizzazione dei consumi di massa nelle aree centrali del sistema, era minata al suo interno dalla minaccia atomica, dall’accrescimento quantitativo e qualitativo degli arsenali militari.
Il confronto con il tempo presente, in cui si combatte secondo il Papa una guerra mondiale a pezzi e secondo Marcos la quarta guerra mondiale, induce alla nostalgia e a magnificare i “trenta gloriosi”; si tratta però di un inganno a cui si ribellarono i giovani degli anni 60. Una ribellione contro il sequestro della storia e della libertà da parte della guerra e del terrore. A differenza degli adulti, provati dall’esperienza diretta della Seconda guerra mondiale, i giovani pensarono che fosse possibile e necessario dissequestrare la vita dalla presa del potere, dalla minaccia dell’annientamento totale. Più che una scelta consapevole fu un impulso vitale potente, una ribellione contro l’ipocrisia, il tentativo ingenuo di dare base concreta e immediata all’universalismo, facendo proprie le battaglie di tutti coloro che lottavano per la dignità e la giustizia in ogni luogo della terra. Le repliche della storia, l’inerzia di una normalità malata, non tardarono a farsi sentire, ma senza quel sogno utopico di porre fine all’ingiustizia, allo sfruttamento, al dominio imposto con la forza delle armi, non ci sarebbe stato il 68.
La fase insorgente, in ogni caso ben diversa dalle rotture rivoluzionarie del passato, non durò oltre il biennio 68-69; i tentativi di strutturare il movimento e di attrezzarlo, secondo l’ipotesi formulata da Rudi Dutschke, per una lunga marcia nelle istituzioni non andarono a buon fine. Alcune istanze di fondo rimasero operative, anche al di là degli anni 70, ma in definitiva prevalse la diaspora, mentre tornavano a imporsi le specificità nazionali anche quando parve possibile l’avvio di un nuovo ciclo di lotte. E’ il caso del movimento del 77, unicamente italiano e fortemente ipotecato dalla centralità attribuita alla violenza se non alla lotta armata.
Il 68 seppure inteso in senso lato, come un ciclo storico che comprende gli anni 60 e 70, non riuscì a dar vita ad un partito politico che ne raccogliesse e organizzasse le istanze, e non si pose nemmeno un tale obiettivo. A distanza di tempo si può dire che con il 68 finisce l’epoca dei partiti politici di tipo ideologico, da allora su questo piano le uniche novità, nefaste, sono costituite dai partiti fondamentalisti religiosi. Per il resto si hanno solo dei movimenti in genere di breve durata che si dissolvono senza lasciare tracce apparenti ovvero si trasformano in macchine elettorali per entrare nel sistema politico vigente. Il 68 per tutto il tempo in cui ci fu una mobilitazione collettiva mantenne la caratteristica del movimento antisistemico, fatto di molte anime accomunate da alcune caratteristiche condivise e però anche da profonde diversità che divennero divisioni allorché alcuni segmenti e raggruppamenti cercarono di assumere la forma partito, in genere mutuandola dalla tradizione del movimento operaio.
I piccoli partiti sorti a ridosso o all’interno del movimento non riuscirono a decollare riducendosi alla condizione di gruppuscoli estremamente litigiosi e settari. In ragione di questa impasse la base sociale del 68 in parte si inabissò cercando di dare una soluzione privata o microcomunitaria alle istanze della fase insorgente, il grosso invece finì con il rifluire nei partiti politici tradizionali della sinistra, tentando in vario modo di rivitalizzarli. In Italia ciò riguardò soprattutto il Pci, ma in certi momenti anche il Psi (si pensi alla dirigenza di Lotta continua), ancor più, e questo fu un passaggio cruciale, a ridosso dell’autunno caldo vennero irrobustiti dal 68 i sindacati, è il caso della Cgil e della Cisl e di esperienze unitarie come la Flm.
Nel suo insieme il fenomeno, particolarmente vistoso nel caso italiano, conferma che il 68 agì in profondità, mettendo in moto ampie fasce sociali, in primo luogo di lavoratori. La rilevanza di quel che accadde, dispiegatosi nel corso degli anni 70, e giunto a conclusione con la spaccatura e sconfitta nel referendum sulla scala mobile (1985), ha sollecitato per tempo indagini di taglio sociologico e storico, in genere portatrici di una lettura positiva di un tale esito del 68 e del cosiddetto 69 operaio, sia perché si trattò di un ciclo di effettiva rilevanza sociale e politica (il Pci giunge ai suoi massimi risultati elettorali) sia perché la mobilitazione operaia, pur con alti e bassi di combattività, aveva dismesso i tratti utopici e di radicalismo culturale, sociale e politico, tipici del 68. La mobilitazione sindacale e le lotte politiche, indirizzate sul terreno del welfare state, mettevano fine al “momento di follia” protrattosi troppo a lungo ovvero tradottosi in lotta armata terroristica, sostanzialmente nichilista.
La prospettiva storica che è consentita dall’ampio intervallo di tempo che ci separa dagli anni 70 e l’insieme degli eventi successivi legittimano un diverso giudizio sugli esiti riformistici del 68 italiano. La discontinuità tra i valori di fondo del 68 e la politica dei partiti e sindacati del movimento operaio (non a caso schieratisi massicciamente contro il movimento di contestazione) ha fatto sì che la rottura del 68 venisse riassorbita nella continuità del quadro politico-istituzionale nazionale, sino al tentativo, per altro rapidamente frustrato, di rieditare l’unità nazionale contro gli opposti estremismi. In breve il 68 con l’apporto del grosso dei suoi militanti finì con il rivitalizzare organizzazioni ufficiali che vantavano una lunga genealogia storica e si presentavano come eredi legittimi e gestori di un grande patrimonio di lotte ma che erano in realtà dei giganti coi piedi d’argilla, anche per l’imprinting che avevano ricevuto dalla vicenda sovietica che ne aveva tenuto a battesimo la nascita e lo sviluppo.
Si tocca qui una delle principali debolezze del 68, particolarmente vistosa nel caso italiano. Se da un lato l’esperienza del comunismo sovietico non aveva alcuna attrattiva per il movimento del 68, è altrettanto vero che esso era privo di strumenti efficaci di critica nei confronti del sistema edificato sotto l’egida di Lenin e Stalin. Ho già avuto modo di sottolineare la proiezione americana del 68 (“Il Sessantotto italiano e l’America”, Studi bresciani, 19, 2009), il risvolto di tale investimento sull’altra America, della controcultura, del pacifismo, dei movimenti per i diritti civili, delle lotte dei neri, era costituito dalla scarsa attenzione per le crisi e i processi che maturavano sotto la crosta dell’immobilismo gerontocratico dei paesi socialisti e, all’opposto, per le dinamiche dirompenti che interessavano la Cina di Mao (fissata non meno della Cuba di Castro in una dimensione irreale, mitica).
In tale contesto, trovandosi di fronte alla necessità di indicare una prospettiva, allorché la fase alta della mobilitazione inevitabilmente si stava attenuando, le diverse leadership, prima ancora di tentare di organizzarsi in forme partitiche, fecero ricorso alla cassetta degli strumenti che avevano a disposizione, cercando di applicare a un movimento nuovo e inedito le ricette disponibili nella tradizione rivoluzionaria novecentesca, tutte apparentemente a portata di mano e da rinverdire e, però, tutte ampiamente inadeguate se non ereditate direttamente dai fallimenti storici che ci si ostinava a non voler riconoscere, affidandosi al mito invece che al pensiero critico.
La ripresa della tradizione rivoluzionaria novecentesca assunse in Italia una particolare pregnanza dato che avvenne in coincidenza con il passaggio alla lotta armata da parte di spezzoni minoritari, ma non marginali, del movimento. Ne è derivata una rappresentazione del 68 italiano schiacciata sulla parabola terroristica degli anni 70. E’ così avvenuto che il progetto di egemonizzare il movimento, o quel che ne restava, da parte di chi a ridosso del 68 fece la scelta delle armi, è stato realizzato dal nemico, che ha ricondotto su un terreno famigliare, quello del potere e della violenza, lo scarto imprevedibile e pericolosamente contagioso impresso alla dinamica storica dall’evento 68. Con il che non si vuole affatto sostenere che tra il 68 e la lotta armata non ci siano stati legami molto forti e, in numerosi casi, una evidente continuità (non mancano qui analogie con il caso americano), solo che un tale rapporto fa parte del problema da indagare, non ne rappresenta la naturale e inevitabile conclusione, come recita la vulgata reazionaria, divenuta senso comune, e reazionaria è da intendersi in senso letterale, in quanto reazione contro il pericolo rappresentato dalla crisi sociale e dai cambiamenti culturali posti in essere dal manifestarsi del movimento.
L’esito terroristico del 68 italiano costituisce una delle traiettorie che si sono dispiegate negli anni successivi e, al di là delle inevitabili strumentalizzazioni politiche, è sicuramente da indagare il rapporto di continuità e rottura tra 68 e lotta armata, il rapporto altresì tra terrorismo e conflitti sociali nelle fabbriche e nelle città del decennio 70. Traiettorie terroristiche si ebbero anche in altri contesti nazionali, in particolare in Germania, Giappone, Stati Uniti, mentre rientra in percorsi di più lungo periodo la guerriglia sudamericana. Però tra i paesi industrializzati il caso italiano fa eccezione perché è l’unico in cui la scelta delle armi si sviluppa lungo un arco di tempo prolungato, venendo ad assumere l’aspetto di una guerra civile a bassa intensità, alimentata sia dal terrorismo dall’alto, evidente a partire dalla strage di piazza Fontana, che di quello intrecciato al precedente di matrice fascista, secondo la ricetta della “strategia della tensione”.
Un insieme di fatti su cui, al di là delle altalenanti verità giudiziarie, vi sono certezze acquisite in sede storica, anche per quanto concerne i comportamenti dei cosiddetti organismi deviati dello Stato. Con il che si rientra nella consolidata tradizione italiana di utilizzo spregiudicato, cinico, illegale e illegittimo del potere statale a fini politici di parte. Si rientra nella normale manipolazione della democrazia a cui il 68 voleva porre fine. Di sicuro non è stata fatta piena luce sulle dinamiche del doppio Stato e sull’incidenza degli arcana imperii che hanno circondato e gestito la politica spettacolo di ieri e di oggi. Ma su questi tratti caratteristici, anche se non esclusivi, della nostra Repubblica molti si sono esercitati a riflettere e indagare, ben più povera e modesta di risultati è la ricerca storica sul 68, prossima all’inesistenza.
Le cause di questo ritardo che si configura, fatte pochissime eccezioni, come una assenza di tematizzazione, oltre che di ricerche empiriche, sono molteplici, la principale a mio avviso dipende dal sentimento della sconfitta, a conferma che il 68 non ha affatto vinto, una sconfitta così grande da far precipitare nell’irrilevanza quel che è accaduto; ne consegue che nel passaggio dalla memoria, prevalentemente privata, alla storia la cancellazione e stigmatizzazione potrà insediarsi sovrana e potrà verificarsi la profezia di Benjamin: “anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince”.
Mantenendoci sul terreno della storiografia si può osservare che le difficoltà di periodizzazione e identificazione discendono dalla mancanza o pluralità di eventi topici (al contrario di quel che avvenne nelle rivoluzioni del passato). Certamente il maggio francese è ben identificabile ma nel caso italiano, tedesco, nordamericano le cose stanno diversamente. A differenza dei grandi eventi storici riconosciuti come tali, a partire dalle guerre, non esistono testimonianze fisiche del 68, che si presenta come un evento smaterializzato, al più alcuni luoghi simbolici rapidamente dimenticati e cancellati dalla memoria; ne consegue che il 68 non avendo lasciato nulla di solido più facilmente di altri fenomeni della modernità può dissolversi nell’aria. Costruirne la storia e interpretazione è parte di una battaglia politica e culturale.
Ho già avuto modo molti anni fa di polemizzare contro il rifiuto della storia tipico di alcune componenti del movimento (“Il Sessantotto: l’evento e la storia”, Annale Fondazione Micheletti, 1990). A distanza di tempo è forse più utile porre l’accento sul carattere anticipatore che il 68 ha avuto rispetto al modello culturale oggi dominante, per altro individuato tempestivamente da Gunther Anders quando riconduceva la società attuale sotto il segno della a-storicità, priva di interesse per il proprio passato e per il proprio futuro, in quanto incapace di costruire e dare un senso alla storia.
Il movimento nei suoi momenti alti, di piena effervescenza, realizza una sospensione del tempo storico e si percepisce come eterno presente. Oggi il presente è l’unica dimensione in cui vive la gente comune e in cui opera la politica. Il che non è affatto in contrasto con la pretesa, tipica anche del 68, di incarnare l’innovazione continua, la modernizzazione infinita. In realtà l’immediatismo e spontaneismo furono due tratti del 68 che rimandano alla sua debolezza teorica, all’incapacità di rielaborare in una visione prospettica i contenuti innovativi che stava proponendo. Il 68 fu così una falsa partenza non riuscendo a inaugurare una nuova dinamica storica. La sua incidenza fu però molto profonda, forgiando mentalità e modelli culturali nonostante l’evidente sconfitta politica; alimentando correnti sotterranee nelle quali si tramanda la sua eredità meno caduca.
L’impatto del 68 fu particolarmente vistoso sulle scienze sociali, interrompendo il processo di confluenza tra ambito umanistico e ambito delle scienze della natura, che sarebbe ripreso nei decenni successivi specie attraverso lo spezzettamento delle discipline e la loro informatizzazione, ma siamo ormai nel ciclo della globalizzazione quando ogni eredità del 68 sembra essere stata del tutto consumata. Nel periodo che ci interessa e che copre su questo terreno tutti gli anni 70, l’irruzione del 68, un evento difficile da definire e del tutto inaspettato, mise in crisi gli approcci scientisti, cresciuti impetuosamente sull’onda del processo di sviluppo economico post-bellico, dal funzionalismo allo strutturalismo, che nella loro pretesa di lettura avalutativa e oggettiva della realtà sociale garaggiavano con il marxismo ortodosso, il quale, a sua volta, presumeva di possedere gli strumenti per conoscere le leggi della storia e del funzionamento dell’economia e della società.
Il 68, molto più vicino agli esiti novecenteschi della ricerca scientifica, portava in primo piano la soggettività, la relatività e indeterminatezza dei processi sociali, l’incidenza dei processi culturali, la complessità della natura umana e la ricchezza inesauribile della natura, contro ogni riduzione a res extensa e progetto di dominio. A questa ridefinizione antropologica non si sottraevano le scienze dure di cui si criticava la contiguità se non subordinazione rispetto al complesso militare-industriale, chiedendo che la scienza fosse per il popolo. E’ facile bollare tutto ciò di ingenuità, molto più utile capire la portata di un tale programma e le impasse a cui andò incontro. Anche su questo terreno l’incidenza del 68 fu di grande rilevanza e la sua banalizzazione è funzionale ad una battaglia politica il cui esito non è scontato; la sconfitta è innegabile ma i problemi posti in luce rimangono anzi si incancreniscono per effetto della grande restaurazione capitalistico-liberista dispiegatasi negli ultimi decenni sino alla crisi strutturale senza uscita in cui è precipitata.
Il carattere ambivalente, sfuggente o enigmatico del 68 è anche il portato della scissione tra teoria e prassi, azione e elaborazione intellettuale, che ne definì un limite all’epoca invalicabile, e che spiega il ruolo centrale che vi ebbe lo spontaneismo, nonostante tutte le deprecazioni nei suoi confronti da parte degli stessi portavoce del movimento, o pretesi tali o così disegnati dai media. Ed è proprio sul terreno della leadership che il 68 denota un’intriseca debolezza, anche perché l’inadeguatezza teorica risultava più evidente a livello di leader, contestati e però creati dal movimento, che su questo piano delicatissimo della direzione subisce l’azione dei media, interessati alla personalizzazione e spettacolarizzazione dell’evento 68 per renderlo notiziabile e addomesticabile.
La tesi qui sostenuta è che la storiografia sul 68 sia complessivamente molto modesta e inadeguata, priva di adeguati strumenti interpretativi e forse anche per tale motivo inconsistente anche da un punto di vista quantitativo. Non solo per lo sfuggente e enigmatico 68 ma anche per gli stessi gruppi organizzati e piccoli partiti della nuova sinistra siamo poco più che al grado zero della ricerca storica. Può darsi che risultati più stimolanti si possano raccogliere esaminando la letteratura, il cinema, la musica. Un filone sicuramente molto rilevante, su cui è tornato più volte Peppino Ortoleva, è quello dei media (stampa, radio, televisione), dato che il 68 è il primo evento storico di rilievo seguito passo a passo in presa diretta dal sistema dell’informazione e quindi restituito mediatizzato all’opinione pubblica.
Le piste di ricerca principali sembrano essere due: la ricostruzione e analisi critica del racconto costruito dai media nel momento in cui i fatti accadevano; le rappresentazioni storiche del 68 fornite retrospettivamente dagli stessi, molto diverse tra di loro a seconda della collocazione ideologica e dei diversi contesti politici in cui furono prodotte. Nel caso italiano è assodato che il 68 televisivo ma anche cinematografico risulta schiacciato dal terrorismo molto più agevole da trattare essendo pronti cliché consolidati, lo stesso dicasi per la droga e il riflusso. Al contrario le istanze più proprie del 68: democrazia diretta, presa della parola generalizzata, egualitarismo, nuovo rapporto uomo-natura finiscono con l’essere censurati o trattati in modo superficiale o farsesco. Più in profondità, si può dire che risultino incomprensibili e non rappresentabili. Con il che intendo sostenere che anche in sede storica il rapporto di diffidenza e ostilità del movimento verso i mezzi di informazione, molto evidente al momento degli eventi, aveva un fondamento: non concerneva la semplice manipolazione dei fatti, che sicuramente ci fu, ma proprio l’incapacità di capirne il significato, di raccontare la verità di un evento senza precedenti.
La tesi del 68 come rivoluzione culturale può essere mantenuta solo dando una forte curvatura antropologica al concetto di cultura, in linea con un filone di studi che si affermerà fortemente grazie al 68. L’attenzione si sposta su ogni momento della vita e della realtà, spezzando le gerarchie e le grandi narrazioni, indagando e valorizzando le resistenze che i singoli e le comunità oppongono alla marcia del Progresso. Il 68 è stato un atto di ribellione collettivo contro il senso predefinito della storia, una breccia nel tempo unilineare calato dall’alto sotto il segno della necessità, incarnato dalle leggi dell’economia.
Si colloca su questo sfondo il lavoro di ripensamento della soggettività e intersoggettività, in esplicita rottura con i modelli politici novecenteschi, in cui il soggetto, la sua unicità e irriducibilità venivano annullate per la preminenza assegnata al collettivo organizzato. Di fronte al 68 alcuni osservatori particolarmente perspicaci (da Michel Foucault a Philippe Ariès) ebbero modo di esprimere la convinzione che il movimento di contestazione giovanile, contrariamente a ciò che appariva nei suoi slogan, bandiere e proclami, lungi dal costituire una riattualizzazione molto spettacolarizzata della rivoluzione sociale, segnava piuttosto una cesura con le culture politiche novecentesche di sinistra e non solo, imperniate su movimenti di massa e guidate da partiti politici fortemente strutturati, il suo tratto saliente era la valorizzazione della soggettività e della diversità di ognuno come di ogni specifica situazione. Contemporaneamente era volto alla ricerca della comunità, spezzando le gabbie istituzionali e le divisioni di ruolo: la comunità viene cercata in ogni ambito, nella scuola come nelle fabbriche, nei quartieri e all’interno di ogni organizzazione, investendo la stessa Chiesa cattolica quintessenza del principio di autorità gerarchica. Contro la massificazione e il livellamento così nell’industria come in ogni ambito della vita, sino allora condivisi da campi avversi in guerra tra di loro, la contestazione giovanile proponeva spontaneità, creatività, libertà da regole e costrizioni. Il pendolo della storia si spostava dallo Stato verso l’individuo, si creava uno spazio che l’industria culturale, molto più flessibile degli apparati di potere tradizionali, sarà in grado di occupare prontamente, sfruttando la spinta verso la privatizzazione quale esito del fallito assalto al cielo.
Questo è il massimo che si può concedere alle letture post-moderniste del 68 che, secondo l’inveterato modello unilineare, avvertitamente o meno, tendono a farne l’antecedente e battistrada del ciclo neoliberista, il quale è stato invece l’esito principale della potente ondata reazionaria contro il 68. Bisogna infatti tener ben fermo il rapporto costitutivo tra libertà e giustizia, soggettività e legame sociale che definisce il nucleo essenziale del 68, la sua cifra politica e culturale identificativa. Si può certo affermare che il movimento non riuscì a realizzare quella saldatura e che quel tentativo fu sconfitto. Altra cosa sostenere che non ci provò, ovvero che si trattava e si tratta di un’impresa impossibile, ma questo non riguarda il 68 bensì noi nella misura in cui siamo convinti che l’esistente per l’essenziale non possa essere modificato e che la libertà (in pratica la libertà di consumare) degli uni possa aversi solo a spese dell’oppressione degli esclusi. Ovvero anche che l’attuazione della giustizia sociale, come nel comunismo reale, debba avvenire a scapito della libertà. E’ precisamente contro queste gabbia mentali e pratiche che tentò di ribellarsi il movimento del 68, partendo da soggetti aperti sul mondo, niente affatto individualisti e però non disposti a farsi inglobare nel collettivo.
Contrariamente a quanto sostenevano gli avversari dell’epoca, il 68 non vide il prevalere della massa sui singoli, i momenti fusionali erano di breve durata e non si sedimentavano in strutture organizzate, secondo il modello del partito politico. Si può anche dire che dopo il 68 non si ebbero più veri partiti politici ma solo raggruppamenti di breve durata e dimensione, oppure sette marginali. Inizia piuttosto la stagione dei movimenti, se si vuole inizia la “rivoluzione silenziosa” di Inglehart, di cui è però da contestare la tesi del carattere unicamente post-materialistico delle rivendicazioni dei nuovi movimenti. In realtà i movimenti sociali ben presenti in tutte le aree del globo hanno mantenuto e accentuato le domande di giustizia sociale, spesso intrecciata a quella ambientale. L’ecologismo, colto nella sua pienezza, ha nel 68 un referente forte anche se mediato da una riflessione che risale a molto prima e si sviluppa successivamente. Lo stesso si può dire per il femminismo ma qui il rapporto è più diretto e fa presa sulla tematica della soggettività e del corpo (lontanissimi dalle tradizioni politiche ufficiali) .
In base a quanto detto non sembra sostenibile la tesi, divenuta senso comune, secondo cui a una fase di mobilitazione effervescente e creativa, con richieste impossibili, succedette una fase di normalizzazione caratterizzata da rivendicazioni ragionevoli e conseguenti negoziati in sede politica e sindacale, insomma un esito riformistico a cui si sottrassero solo le schegge impazzite del terrorismo. Le cose sono andate diversamente e quel che successe rappresenta un passaggio necessario per capire la situazione in cui ci troviamo, inspiegabile sulla base della lettura normalizzatrice volta a inglobare il 68 in una continuità appena increspata dagli strani avvenimenti e comportamenti di anni ormai lontani.
Da più parti si è spesso insistito sul carattere pacifico e festoso del movimento, in contrapposizione alla svolta violenta degli anni successivi e all’apatia dei decenni a venire. Ma la partecipazione attiva alla contestazione non era unicamente una festa, implicava una sospensione della vita ordinaria, sconvolgendo i ritmi legati allo studio e al lavoro, ingenerando forti tensioni psichiche, aggressività e fragilità. I confini tra vita privata e pubblica erano saltati completamente sino a limiti pericolosi per l’integrità e l’equilibrio dei soggetti, sottoposti alla tensione di un rivoluzionamento continuo di sé e della propria collocazione nel mondo. Di qui crisi e abbandoni del campo per lasciare progressivamente spazio a coloro che si stavano convertendo in politici di professione, ma a quel punto il movimento si avviava al tramonto. Un processo non lineare perché nuove leve si affacciavano e nuovi territori venivano contagiati, ripercorrendo a distanza di mesi, talvolta di anni, la stessa parabola.
Il 68 fu anche una forma di rivoluzione permanente, seppure lontana da quella a cui avevano pensato Marx e Trockij, ad un tempo post politica e iper politica, dato che il 68 si percepisce come portatore di una rivoluzione ininterrotta che avviene in primo luogo nella quotidianità, avendo messo in moto un movimento che non avrebbe mai dovuto finire. E’ sicuramente un tratto caratteristico e storicamente inedito, rivelatore però di una intrinseca debolezza, nel senso che il tentativo di fermare il tempo non era dovuto solo o principalmente alla volontà di prolungare la giovinezza, obiettivo poi impostosi grazie al recupero di tale istanza da parte dei media e della pubblicità, quanto alla drammatica incapacità di dare consistenza e solidità ai valori ispiratori, attraverso un cambiamento non reversibile della vita quotidiana, della soggettività e dei rapporti intersoggettivi, del rapporto uomo-donna, realizzando nel concreto, per quanto era possibile, la rivoluzione e ponendo le basi per una nuova dinamica storica nei rapporti tra i popoli, ponendo fine alla guerra, e nell’azione dell’uomo sulla natura, non più ispirata unicamente alla logica del dominio e dello sfruttamento economico. Si può allora sostenere che, dopo averne evidenziato il rilievo storico, è necessario prendere atto che non solo la rivoluzione politica ma anche quella culturale non raggiunse i suoi obiettivi: da un lato fu recuperata in forme parodistiche dall’odiato sistema che abbandona il suo assetto gerarchico, patriarcale, autoritario, per farsi giovanilista, nuovista, fautore del cambiamento incessante senza altri fini che non sia la sua autoperpetuazione; dall’altro alimentò percorsi carsici, minoritari, non riuscendo più a riconquistare pienamente la ribalta della storia.
In realtà il 68 cercò di affrontare con armi inadeguate i problemi fondamentali dell’assetto capitalistico industriale del mondo, la sua specifica forma di civiltà. Fu il tentativo di un nuovo inizio e il fallimento di tale tentativo. Quel che ne è seguito sino ad oggi ne conferma l’attualità e l’impossibilità di cancellarlo, a meno di soggiacere a qualche forma di servitù volontaria. Ciò che si impone è piuttosto un nuovo pensiero del 68, che dovrebbe essere il frutto di una storiografia all’altezza del tema ma anche di una riflessione intellettuale che si confronti con i difficili problemi interpretativi e teorici che il 68 impone. Come avvicinamento a tali traguardi ritengo che sia auspicabile un lavoro di analisi su due versanti tra loro collegati ma non coincidenti: mettere a fuoco il pensiero del 68, vale a dire i pensatori che esercitarono la maggiore influenza sul movimento; analizzare e metterne a confronto i migliori interpreti, cioè coloro che hanno saputo, anche con strumenti diversi, coglierne il significato, inclusa l’ambivalenza e complessità. L’augurio è che il cinquantenario sia utile per avviare un tale lavoro storico e teorico.