Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Uno dei nostri problemi più angoscianti

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Storia dell’Ambiente di Brescia, un’inedita relazione del 1989 sul tema dell’eutrofizzazione delle acque interne settentrionali.

L’eutrofizzazione delle acque interne del bacino padano-veneto, e dell’Adriatico settentrionale di cui esso è tributario, ha evidenziato in termini drammatici, nel corso del 1988, le conseguenze dell’inquinamento da fosforo dovuto alla concentrazione abitativa del bacino, all’impiego di fertilizzanti artificiali, agli scarichi dell’industria zootecnica, all’additivizzazione dei detersivi con fosfati. Le medesime cause, fuorché l’ultima, provocano anche un’altra forma di danno ambientale: l’aumento della concentrazione di nitrati nelle acque superficiali e sotterranee.

A differenza dell’eutrofizzazione, che nei nostri climi non ha ancora provocato gravi problemi sanitari, l’aumento della concentrazione di nitrati nelle acque di falda crea problemi sanitari veramente gravi in quanto l’inquinamento nitrico delle acque potabili provoca negli organismi molto giovani (neonati e lattanti) fatti tossici che possono risultare anche mortali, e negli adulti può esercitare azione cancerogena, soprattutto a carico dello stomaco. Solo in rari casi, sinora, la concentrazione di nitrati nelle falde da cui si preleva l’acqua per uso potabile ha superato la soglia di rischio (se esiste una soglia di rischio per l’azione cancerogena!): ma il fatto che, mediamente, il nitrato impieghi trent’anni per scendere dalla superficie coltivata alla falda, unitamente al fatto che la nitratazione massiccia delle coltivazioni della Valle Padana ebbe inizio negli anni Sessanta, lascia prevedere che negli anni Novanta l’inquinamento nitrico della falda costituirà uno dei nostri problemi ambientali più angoscianti.

Per quanto con ritardo, il problema viene finalmente affrontato con uno stanziamento di risorse (884 miliardi dal bilancio pubblico per il triennio ‘89-’91) finalizzato a interventi di salvaguardia ambientale nell’ambito delle attività agricole e zootecniche delle cinque Regioni padano-venete (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Friuli-Venezia Giulia). Il Ministero Agricoltura e Foreste e le cinque Regioni hanno recentemente pubblicato uno schema del riparto degli 884 miliardi prelevati dal pubblico bilancio (che mobiliteranno un investimento globale di 1.300 miliardi). Poiché non esiste la possibilità di interventi di depurazione che separino i nitrati dalle acque provenienti dai campi, o dagli scarichi zootecnici, gli unici interventi capaci di ridurre il contributo della coltivazione e dell’allevamento alla nitratazione delle acque sono quelli indicati nel documento: cioè l’impiego delle deiezioni animali in funzione fertilizzante, e i provvedimenti che lo rendono possibile, vale a dire modalità di allevamento e di pulizia che riducano il volume dei materiali, e ridistribuzione del patrimonio zootecnico sul territorio così da ridurre gli oneri di trasporto dei materiali stessi dal ricovero degli animali al campo coltivato.

Degli 884 miliardi stanziati per proteggere l’ambiente padano-veneto dal degrado derivante da uno svolgimento irrazionale delle attività agricole e zootecniche, 660,5 sono dedicati alla difesa delle acque dall’inquinamento nitrico e fosfatico, e il rimanente è destinato ad altri fini, quali il rimboschimento, la lotta integrata, modalità di diserbo ecologicamente compatibili. È una scelta valida, ma nascono diverse perplessità quando si va a vedere in qual modo, nel progetto formulato dal Ministero e dalle cinque Regioni, la somma di 660,5 miliardi viene ripartita tra le diverse attività.

Non sembra da criticare la previsione di 71 miliardi dedicati alla costruzione di una struttura tecnica capace di assistere gli agricoltori nel difficile passaggio a una fertilizzazione scientifica, e in particolare alla fertilizzazione organica. Ma è il riparto degli altri 589,5 milioni a lasciare insoddisfatti, sia per la scelta tra prevenzione del degrado e opere intese a porre rimedio al degrado stesso, sia per il livello di impegno delle pubbliche risorse nei due ordini di attività. La prevenzione del degrado è realizzabile solo attraverso l’adozione di tecnologie di allevamento e pulizia che rendano fruibili le deiezioni in funzione fertilizzante, e attraverso la ridistribuzione dell’attività zootecnica sul territorio che minimizzi i costi economici e ambientali del trasporto del materiale fertilizzante al luogo d’impiego. A queste attività di prevenzione sono riservati soltanto 209,5 miliardi, mentre assai maggiore (380 miliardi) è l’onere che il pubblico bilancio si assumerebbe per rendere, alle aziende che non adottano misure di prevenzione, il servizio di raccolta dei liquami, del loro trattamento che li renda trasportabili e fruibili, del loro trasporto sino al luogo d’impiego, e persino di depurazione dei residuati liquidi eccedenti, da scaricare in acque di superficie (depurazione che, comunque, non sarebbe in grado di eliminare i nitrati). Vi è da rilevare inoltre che i 209,5 miliardi per la prevenzione sarebbero costituiti da agevolazioni sui mutui e da contributi in conto capitale, che non coprirebbero l’intero onere dell’azione preventiva: si calcola che l’adozione di tecnologie razionali di allevamento e di pulizia richiederà un investimento di 515 miliardi, che sarebbero a carico del pubblico bilancio per un ammontare di 154,5 miliardi, mentre i rimanenti 360,5 sarebbero a carico delle aziende; il decongestionamento delle aree a più alta densità zootecnica richiederà un investimento di 110 miliardi (evidentemente siamo in presenza di una significativa sottostima), per metà a carico del pubblico bilancio e per metà a carico delle aziende. Per contro, l’onere relativo alla mancata prevenzione, valutato come si è detto in 380 miliardi, sarebbe interamente a carico del bilancio pubblico.

Si tratta di un meccanismo finanziario assurdo, destinato a conseguire un risultato opposto a quello che si desidera: quella parte dell’industria zootecnica che accoglierà l’invito a prendere misure di prevenzione del degrado ambientale dovrà esporsi per 415,5 miliardi (360,5 per le tecnologie pulite e 55 per il trasferimento degli animali) mentre quella parte dell’industria zootecnica che non assumerà alcun provvedimento preventivo non dovrà esporre nemmeno una lira: qualcuno provvederà a pulire dove sporca, a spese dei cittadini che pagano le tasse. Chi mai sarà a farsi carico di prevenire il degrado ambientale, a queste condizioni?

La cosa si manifesta tanto più assurda quando si pensi che l’adozione di misure preventive (pulizia a secco, decentramento degli allevamenti) non richiede solo investimenti, ma anche un maggiore impiego di manodopera; e quando si rifletta, per di più, che la difesa del corpo idrico dall’inquinamento nitrico e fosfatico non è il solo vantaggio ambientale che la concimazione organica offra. Essa offre infatti un contributo significativo alla lotta contro il dissesto idrogeologico, cioè alla difesa del suolo contro l’erosione che è opera del vento, e contro l’asportazione che è opera dell’acqua; contribuisce a fare della falda sotterranea un volano che attenua l’andamento torrentizio dei nostri fiumi; contribuisce a migliorare la qualità, anche sanitaria, dei cibi di origine vegetale e animale; offrendo ai giovani un maggior numero di occasioni occupazionali contribuisce ad alleviare le patologie sociali del nostro tempo.

Con un investimento previsto di 110 miliardi il problema del decongestionamento delle aree ad alta densità zootecnica eccessivamente alta viene soltanto lambito, non viene affrontato. Se si deciderà di affrontarlo occorrerà rispondere a tre interrogativi che il documento del Ministero dell’Agricoltura e delle cinque Regioni non si pone neppure: quale carico zootecnico può sopportare l’intero bacino padano-veneto senza rilasciare nitrati alle falde, nitrati e fosfati alle acque di superficie? quale capacità hanno le acque superficiali del bacino padano-veneto di ricevere nitrati senza andare incontro a un aggravamento dei fenomeni di eutrofizzazione? Infatti la popolazione umana del bacino padano-veneto è così numerosa, e così numerosa è la sua popolazione bovina, suina, avicola, che l’impiego delle deiezioni animali in funzione fertilizzante può darsi che sia insufficiente a risolvere il problema. Occorrono attente verifiche scientifiche: e può darsi che tali verifiche porteranno a concludere che un piano di distribuzione razionale della zootecnia sul territorio non debba chiudersi entro i confini del bacino padano-veneto ma debba chiamare il Mezzogiorno a un recupero di funzioni produttive perdute.

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