Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Un nuovo corso

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L’Italia ha dovuto affrontare, nella seconda metà del 2000, un’ennesima catastrofe ambientale, questa volta ancora più chiaramente di origine umana, dovuta a mancanza di visione dei governi che si sono succeduti nel corso di mezzo secolo nel Novecento; una politica del territorio è venuta a mancare per non disturbare e intralciare le clientele e i gruppi di pressione speculativi, delle costruzioni e agricoli e per non intralciare lo stesso abusivismo da cui si sperava di ottenere voti.

Con coloro che sono stati colpiti e hanno perduto la vita e i propri beni l’Italia ha un debito che deve essere pagato non con le solite procedure – stato di emergenza, soldi a fondo perduto, commissioni di inchiesta, condoni –  ma solo con una svolta politica, con un “nuovo corso” di politica sociale e civile, con una nuova moralità nei rapporti fra i cittadini e il potere.

L’occasione per tale svolta è offerta dall’attuale situazione interna e internazionale: siamo di fronte ad una lunga campagna elettorale nella quale gli elettori chiedono, non commedie o promesse o blandizie, ma dimostrazione di coraggio e di determinazione nelle cose che si vogliono fare.

La situazione internazionale vede un aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime, difficilmente frenabile a causa dell’esaurimento delle riserve di idrocarburi, dell’aumento dei costi di estrazione e trasporto e delle tensioni politiche nelle aree petrolifere; nello stesso tempo il rafforzamento del dollaro colpisce l’Italia e l’Europa facendo aumentare i prezzi delle merci che il paese deve importare.

Le brevi considerazioni che seguono rappresentano una proposta di discussione per i prossimi mesi, limitatamente ad un nuovo corso di politica ambientale.

Dissesto idrogeologico

Gli eventi degli ultimi anni hanno mostrato che la apparente “crescita economica” che ha caratterizzato soprattutto gli anni ottanta e novanta del Novecento, privilegiando peraltro soltanto alcune classi, è stata accompagnata da una crescente fragilità del supporto fisico di tale crescita, cioè del suolo, da una crescente “insostenibilità”.

Tale fragilità si è manifestata con una crescente serie di frane e alluvioni, e con una crescente erosione del suolo e delle spiagge. La crescita economica è stata resa possibile dall’uso del suolo come se fosse una piattaforma di cemento su cui appoggiare abitazioni, insediamenti e porti turistici, quartieri e fabbriche, strade e autostrade, eccetera. La parte non occupata da edifici è stata usata per trarne campi coltivati, poi abbandonati, cave di pietre e sabbie.

In questa frenesia di opere pubbliche e soprattutto private, ci si è dimenticati che il suolo è invece un fragile sistema di terra, vegetazione, acque, fiumi e torrenti, fossi e laghi e paludi: il tutto disegnato dall’unica vera forza fisica ed economica del paese, il moto delle acque dalle parti elevate verso il mare: 150 miliardi di metri cubi di acqua che ogni anno scorrono sulla superficie del paese verso gli ottomila chilometri di coste per rientrare nel mare.

“Sfortunatamente” le zone in cui scorrono le acque – in cui dovrebbero scorrere liberamente le acque – sono anche pregiate: fondo valli, valli alberate, argini, golene, paludi, spiagge, eccetera, e sono attraenti per gli insediamenti umani di edifici, strade, eccetera, cioè per gli unici “beni economici” che generano ricchezza privata.

Non c’è quindi da meravigliarsi se ad ogni pioggia più intensa le acque trovano un terreno privo di protezione vegetale, trovano il corso dei fiumi e dei torrenti occupato da corpi estranei – edifici, dighe, rifiuti, strette canalizzazioni e intubazioni, eccetera – e se le acque stesse sono “costrette”, dalle leggi della natura, a spazzare via i corpi e gli ostacoli che incontrano nel loro movimento, ad espandersi nelle zone adiacenti al letto dei fiumi, dei torrenti e dei fossi, distruggendo beni privati, quelli stessi che sono stati miope fonte di ricchezza, o anche beni pubblici, come strade e porti, spesso incautamente collocati, spesso per soddisfare e compiacere miopi esigenze “economiche”.

I danni provocati da interventi privati o interventi pubblici (strade, dighe) sbagliati, fatti in violazione delle leggi della natura, ma anche spesso in violazione delle leggi dello stato esistenti e mai attuate o ignorate, vengono riparati e risarciti con pubblico denaro, per cui ancora una volta, in  maniera vistosa e certa, il privato profitto si traduce in costi per la collettività.

Costi che spesso ricadono proprio sulle classi meno abbienti: i pensionati hanno minori pensioni, i servizi sanitari e scolastici sono peggiori per mancanza di soldi, perché lo stato deve spendere tali soldi per risarcire i proprietari dei villaggi turistici o delle case abusive allagati o spazzati via dalle frane o per ricostruire strade o opere costruite, nei posti sbagliati, da amministrazioni pubbliche imprevidenti o compiacenti.

La situazione andrà avanti per decenni, perché alcune opere che ostacolano il moto delle acque non possono essere rimosse, ma è possibile avviare una nuova politica economica e sociale fermando almeno gli scempi che possono essere ancora fatti e riparando il sistema suolo-acqua in modo da potere, in futuro, utilizzare razionalmente il territorio evitando futuri danni e costi pubblici.

L’opera di prevenzione comporta due “sgradevoli” effetti:

– investimento di pubblico denaro per interventi in opere “pubbliche” di difesa del suolo, rimboschimento, difesa contro gli incendi, sistemazione dei fiumi, torrenti e fossi.

– Limitazioni alle iniziative private che contrastano con le opere di scorrimento libero e non violento delle acque.

Si badi bene che ho chiamato “sgradevoli”, sulla base degli interessi privati, interventi che sono peraltro già vietati dalla “legge”: si possono ricordare innumerevoli leggi, alcune delle quali risalgono alla metà del 1800, che pongono limiti alla proprietà privata quando questa contrasta con il più generale “diritto” pubblico all’uso delle acque e del suolo, delle rive e dei boschi.

Solo per citare leggi “recenti”: la “legge Galasso” prescrive che non è possibile edificare nelle vicinanze di fiumi, fossi, torrenti, laghi e delle rive del mare; la legge sulla difesa del suolo, la “centottantatre” del 1989 prescrive che la pianificazione territoriale deve svolgersi nell’ambito dei bacini idrografici da organi in cui sono presenti gli interessi, talvolta contrastanti, di amministrazioni che “possiedono” differenti pezzi dello stesso bacino idrografico; la legge sulle acque dichiara solennemente, all’inizio, che le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche, ma poi procede consentendo, nel nome del profitto, la privatizzazione di gran parte di tali acque, addirittura legalizzando grandi ingiustizie, come il maggiore costo dell’acqua potabile nel Mezzogiorno, dove l’acqua è più scarsa, la cessione di acque pubbliche a chi le imbottiglia e vende a prezzi altissimi, eccetera; la “legge Sarno” obbliga lo stato a identificare le zone ad alto rischio idrogeologico vietandone l’edificazione.

“Padroni delle acque” e responsabili della pianificazione territoriale sono innumerevoli enti, dai vari ministeri, alle amministrazioni locali, ai consorzi di bonifica, ciascuno con proprie politiche e con propri criteri “commerciali” di vendita delle acque o dell’uso del suolo.

Impressionante è che gli enti “dello stato”, che avrebbero dovuto assicurare il bene pubblico evitando danni, frane, alluvioni, dolori e morti, sono spesso stati i primi, nel nome della difesa del profitto privato – mascherato col nome falso di “sviluppo economico” – a tollerare la violazione delle stesse leggi dello stato: evitando di redigere piani territoriali e di salvaguardia, con operazioni di sanatoria, contestando le leggi dello stato.

La svolta di politica economica e territoriale qui proposta comporta anche un ricupero di “moralità” degli stessi organi dello stato.

Il rispetto delle leggi che pongono divieti a interventi che alterano le condizioni del suolo e il moto delle acque sposta gli investimenti dal settore privato a quello delle opere pubbliche pagate dallo stato; tali opere pubbliche – rimboschimento, pulizia dei fiumi, ripristino del corso delle acque, eliminazione degli ostacoli nelle valli, lungo i fiumi e fossi e sulle rive del mare, bonifica dei suoli contaminati – comportano spese pubbliche che creano occupazione e ricchezza; da tale nuova, diversa, occupazione e intrapresa possono venire le imposte che assicurano i nuovi investimenti.

Parlare di nuova moralità pubblica significa anche chiedere allo stato la capacità di garantire la mobilità dei lavoratori e delle imprese e un controllo da parte della pubblica amministrazione sulla compatibilità territoriale e ambientale delle opere da svolgere.

Il nuovo corso di politica territoriale qui auspicata ha, come sottoprodotti di grande valore economico, la possibilità di aumentare la disponibilità di acqua per l’agricoltura, le industrie e le comunità urbane, e la possibilità di identificare fonti di inquinamento come depositi di rifiuti dannosi o discariche di rifiuti vari, fatte in passato proprio nelle zone umide, sul greto di fiumi o lungo le valli.

Il nuovo corso presuppone alcune azioni di politica amministrativa che qui si accennano:

– Rassegna della normativa sull’uso delle acque e del suolo e riconoscimento delle aree normative che rivendicano la proprietà di, e la competenza pubblica su, tali beni.

– Aggiornamento dei catasti e confronto fra i catasti dei terreni e degli edifici e lo stato reale delle cose mediante confronto con i rilievi fotogrammetrici. Questa opera è oggi resa possibile con le nuove tecniche di rilievo e di elaborazione dati e può, se si vuole, essere fatta in tempi relativamente brevi con rilevante aumento dell’occupazione (si pensi che alcune amministrazioni stanno conducendo la trascrizione delle volture catastali mediante elaborazione informatica affidata ad aziende situate … in Albania !).

– Aggiornamento dello stato del demanio pubblico, rilevamento delle recenti (negli ultimi dieci anni) alienazioni a privati  e aggiornamento delle concessioni.

– Rilevamento dello stato dei suoli soggetti a usi civici e attuale condizione di “possesso”, di alienazione e di occupazione.

– Rilevamento dei bacini idrografici e delle zone a rischio idrogeologico, secondo le indagini condotte nell’ambito della “legge Sarno”.

– Diffusione  pubblica, specialmente nelle scuole, di pubblicazioni che spieghino in forma chiara e sintetica gli elementi di difesa del suolo e di stato delle acque e dei fiumi, e la cause e la localizzazione di frane e alluvioni, con particolare riferimento alla regione – o, meglio, al bacino idrografico – in cui la scuola si trova. Il fine di tale pubblicità dovrebbe essere la capacità di riconoscere dove si trovano edifici o strade a rischio, di agire sulle amministrazioni locali perché non ne vengano realizzati altri.

Guerra alla sete

Strettamente legate alla politica del territorio e alla difesa del suolo sono le azioni politiche per sconfiggere la sete in tante parti d’Italia dove lp’acqua manca nelle abitazioni, nelle città, per le industrie, per i campi.

L’accesso all’acqua di buona qualità e per tutti è – e dovrebbe essere – uno dei diritti fondamentali umani, come il diritto alla vita, alla libertà, al cibo, alla salute. Ci sono state in passato e ci sono iniziative delle Nazioni Unite che riconoscono tale diritto, ma nonostante questo la situazione peggiora continuamente.

Nei mesi scorsi è stato lanciato un “Manifesto per un contratto mondiale dell’acqua”, elaborato dal “Gruppo di Lisbona” e presentato anche in Italia; il testo del manifesto e le notizie relative si trovano nel sito Internet http://web.tin.it/cipsi/acqua/index.html

Il “Manifesto dell’acqua” – se ne parla più a lungo in una scheda della rubrica “Eventi” in questo stesso n. 4 di “altronovecento” – spiega che è dovere degli stati provvedere ad evitare la contaminazione dell’acqua che si trova nei fiumi, nei laghi, nel sottosuolo, assicurare a tutti i cittadini sistemi di purificazione dell’acqua esistente, e sistemi di distribuzione che assicurino a ciascuna persona una quantità di acqua che consenta di soddisfare i bisogni alimentari ed igienici essenziali.

La raccolta e la protezione dell’acqua non sono problemi solo locali; cadendo sulla superficie terrestre con le piogge l’acqua alimenta le sorgenti, i fiumi che confluiscono in altri fiumi, che alimentano le falde idriche sotterranee, e che tornano al mare dopo un cammino più o meno lungo. Succede così che l’inquinamento provocato da una comunità umana in una zona si diffonde e disperde, attraverso il moto superficiale e sotterraneo delle acque, rendendo inutilizzabili riserve idriche anche grandi, anche a grande distanza.

La legge italiana riconosce che l’acqua è un bene collettivo, da usare, secondo i principi di solidarietà, nell’interesse della presente e delle future generazioni, che le acque vanno “amministrate”, governate, sulla base dei bacini idrografici, quell’insieme di valli, affluenti, fiumi principali, laghi, falde sotterranee, attraverso cui l’acqua si muove in un territorio.

Facile parlare di solidarietà, ma l’acqua è purtroppo considerata anche una merce per cui potenti interessi privati riescono ad ottenerla in concessione per venderla, attraverso gli acquedotti, magari in bottiglie, per cui quello che dovrebbe essere un diritto deve essere pagato, spesso a caro prezzo, diverso da una zona all’altra. Solo per fare il caso del nostro paese, nell’Italia settentrionale, dove l’acqua è abbondante e facile da raccogliere e distribuire, l’acqua per uso domestico costa circa mille lire al metro cubo; costa quattro volte di più ai cittadini dell’Italia meridionale e delle isole, dove l’acqua è disponibile in minore quantità. Una bella maniera di fare una politica per lo sviluppo del Mezzogiorno!

E se l’acqua è poca e di cattivo sapore, ecco che molti benefattori vi permettono di acquistare l’acqua in bottiglia che costa da cento a cinquecento mila lire al metro cubo, cento volte di più di quella che ogni cittadino dovrebbe avere nelle proprie case ad un prezzo basso e uguale per tutti.

Ma il “Manifesto dell’acqua” chiede degli impegni anche ai cittadini: ciascuna persona ha l’obbligo di usare meno acqua e deve essere preparata a pagare a caro prezzo ogni spreco e uso superfluo dell’acqua. Gli stessi doveri valgono per le città, per gli agricoltori e per le industrie. Fra l’altro, la progettazione di elettrodomestici e impianti a basso consumo di acqua, ma soprattutto di processi e apparecchiature per la depurazione delle acque inquinate presenti, ma inutilizzabili, nei paesi del Sud del mondo, rappresentano grandi occasioni di innovazione e di nuova occupazione.

Energia

In pochi mesi il prezzo del petrolio è passato da 200.000 a 500.000 lire alla tonnellata. Ogni anno nel mondo vengono estratti circa 3 miliardi e mezzo di tonnellate di petrolio greggio, dalle sabbie del deserto, dai ghiacci dell’Alaska, dalle giungle del sud-est asiatico o dell’Africa, dal fondo del mare in cui il petrolio viene raggiunto con trivelle sempre più sofisticate e che comportano crescenti costi di ricerca, estrazione, trasporto, raffinazione.

Da anni ci si chiede se è veramente necessario dipendere da una risorsa le cui riserve sono di poco superiori a 100 miliardi di tonnellate, appena sufficienti per trent’anni, ai consumi attuali e da tempo sono state identificate varie soluzioni possibili per ottenere dei carburanti per autoveicoli, cioè quelle merci che assorbono quasi la metà dei consumi mondiali di petrolio. Il motore a scoppio, quello delle automobili e dei camion, è stato inventato dai fisici italiani Barsanti e Matteucci nel 1854, quando la benzina era sconosciuta. Funzionava allora con gas e liquidi derivati dal carbon fossile; quando hanno cominciato a funzionare le prime raffinerie di petrolio non è sembrato vero ai petrolieri smaltire i prodotti raffinati (quelli che oggi chiamiamo benzine e gasolio) come carburanti per motori a scoppio. E l’industria automobilistica è cresciuta, nell’America, paese del petrolio, fabbricando motori adatti proprio per consumare tali prodotti petroliferi.

Ma varie volte nella storia – durante le guerre, nei periodi di autarchia, durante le crisi petrolifere – sono stati utilizzati carburanti diversi dalla benzina; e ogni volta, davanti al pericolo di una concorrenza, le compagnie petrolifere hanno fatto in modo di relegare le alternative nei cassetti.

Per restare al caso della benzina, ai prezzi attuali della benzina sarebbe già economicamente conveniente utilizzare alcol etilico ricavato da prodotti e sottoprodotti agricoli, oppure derivati dei grassi naturali, adatti come sostituti del gasolio. Una parte dei soldi che lo stato spende per consentire agli italiani di continuare a consumare “più benzina”, dipendendo di più dalle costose importazioni di petrolio, potrebbe essere dirottata a incentivare la trasformazione di prodotti e sottoprodotti agricoli in carburanti, creando occupazione nelle zone arretrate agricole italiane. Col vantaggio di un minore inquinamento atmosferico e dell’uso di risorse naturali rinnovabili.

Carburanti per autoveicoli possono essere ottenuti dalla gassificazione e idrogenazione del carbone, di cui esistono nel mondo riserve 50 volte più abbondanti di quelle del petrolio; anche in questo caso in passato, per decenni, è stata prodotta benzina “sintetica” dal carbone. Le tecniche di trasformazione del carbone in benzina sintetica sono notissime, sono state continuamente perfezionate in questi anni, sono state tenute intenzionalmente da parte per non disturbare le multinazionali del petrolio. È possibile riprogettare i motori a scoppio in modo che consumino meno carburante.

Ma l’unica vera “benzina alternativa” – la ricetta che consentirebbe di spendere meno denaro per importare petrolio, che farebbe diminuire l’inquinamento e la congestione del traffico automobilistico nelle città – sarebbe rappresentata dalla “diminuzione” dei consumi di benzina e gasolio, da una coraggiosa “diminuzione” dell’uso e abuso dell’automobile privata, dal potenziamento e miglioramento dei trasporti collettivi, che consentono alle persone di percorrere la stessa strada con minore consumo di carburanti petroliferi, dal trasporto per ferrovia o via mare delle merci oggi trasportate su camion.

Un nuovo corso dovrebbe disincentivare i consumi di energia di origine fossile e di quella elettrica, pure derivata da fonti energetiche fossili, mediante un sistema di tariffe che assicuri energia a basso prezzo in corrispondenza di bassi consumi e prezzi crescenti a mano a mano che i consumi aumentano. In alternativa alla campagna di sostegno dei consumi energetici, dovrebbe essere lanciata una campagna di incentivi al contenimento dei consumi che si traduce in minori importazioni di energia e in minore inquinamento atmosferico.

L’aumento del prezzo mondiale del petrolio greggio sta innescando però anche un’altra curiosa “reazione a catena”: il settore dei trasporti, è vero, assorbe una frazione, pur rilevante, dei prodotti petroliferi, ma una gran parte di tali prodotti viene utilizzata per produrre elettricità. Se vogliamo risparmiare una parte delle spese del petrolio – sostengono i resuscitati avvocati dell’energia nucleare – quale migliore soluzione che costruire tante belle centrali nucleari, quelle di cui i bizzarri ecologisti, venti anni fa, ci hanno privato?

Non c’era da meravigliarsi che a questo si sarebbe arrivati: del resto la martellante campagna di incentivazione dei consumi di elettricità – i fiumi di luce sui campi sportivi e sulle basiliche, sui teatri, nelle strade, sui monumenti, la moltiplicazione di televisori e impianti di telecomunicazioni, tutti assorbitori di elettricità – ha da anni lo scopo di aumentare i consumi di energia elettrica anche per preparare un ritorno delle centrali nucleari.

Che cosa conta se la produzione nucleare di elettricità è inquinante, costosa, insicura, pericolosa, lascia eredità di scorie radioattive che nessuno sa dove smaltire, se è strettamente legata alle avventure militari ? Che cosa conta se ormai nel mondo anche i paesi con maggior numero di centrali nucleari non ne costruiscono più e le stanno chiudendo ? Per sventare questa folle tentazione di “modernità” all’italiana, per contenere i costi crescenti dei combustibili fossili, per rallentare le modificazioni climatiche, non c’è altro che attuare con coraggio un rallentamento dei consumi energetici: di tutti i consumi energetici.

Si tratta non di raccomandare dei “limiti allo sviluppo”, ma di auspicare un vero sviluppo umano, una crescita dell’occupazione, dell’innovazione, e della ricchezza, basati su una diminuzione dell’uso delle risorse naturali scarse, come il petrolio, sul crescente ricorso alle fonti energetiche rinnovabili – solare, vento, idroelettrico, prodotti agricoli – ma soprattutto sulla “lotta allo spreco”, unico vero nemico di un’economia moderna.

Produrre che cosa?

Il discorso sull’acqua e sull’energia porta a considerare gli effetti ambientali e sociali dei settori che tale acqua ed energia utilizzano: i settori della produzione agricola, della produzione industriale e il settore dei “consumi” finali delle famiglie, a cui arrivano tutte le merci prodotte ed importate in un paese.

L’agricoltura è l’attività produttiva primaria, non solo a parole. Nella sola Italia la massa di prodotti agricoli e zootecnici supera i 70 milioni di tonnellate all’anno. Il vanto che in Italia solo una piccola frazione dei lavoratori è impegnato in agricoltura è pagato dalla collettività nazionale con l’obbligo di importare milioni di tonnellate, ogni anno, di materie prime da trasformare – cereali, frutta, animali vivi, carne, legno – e altrettanti milioni di tonnellate di prodotti confezionati, dalle conserve di pomodoro, alla frutta conservata, alla pasta alimentare, alle bevande alcoliche, e poi pasta da carta, carta, fibre tessili, eccetera, per circa 60 mila miliardi di lire correnti.

Gran parte di questi prodotti di importazione potrebbero essere ottenuti dalle attività agricole, forestali e zootecniche all’interno, aumentando l’occupazione, incentivando la permanenza di attività agricole sul territorio con effetti positivi sulla difesa del suolo.

Una analisi dovrebbe anche essere fatta sul flusso di materiali e di risorse naturali che attraversano i vari settori manifatturieri: la qualità e la quantità delle merci prodotte influenza la massa e il costo delle importazioni, i consumi di acqua e di energia e la qualità dell’ambiente attraverso gli inquinamenti dell’aria e delle acque.

Non basta, per un nuovo corso, stabilire che le varie attività produttive devono scaricare acque di rifiuto con una certa quantità massima di agenti inquinanti o stabilire che devono essere installati impianti di depurazione: si tratta piuttosto di esercitare un controllo pubblico proprio sui processi e sulle merci.

Tanto più che molte produzioni industriali sono sovvenzionate o incentivate con pubblico denaro, attraverso concessione di minore protezione ai lavoratori, attraverso incentivi a chi si insedia in particolari zone del paese. Se la collettività è disposta a pagare con pubblico denaro – ancora una volta in parte sovvenzionato dalle classi meno abbienti e più deboli – quello che poi si traduce in profitto privato, deve essere anche in grado di esercitare un controllo su quello che viene prodotto e su come viene prodotto.

La qualità delle merci influenza, infatti, la salute e la sicurezza sia dei lavoratori sia dei consumatori. Sono infatti i lavoratori, nella loro qualità anche di consumatori, e le loro famiglie che acquistano ogni anno oltre cento milioni di tonnellate di merci sia di quelle a breve vita, come alimenti, tessuti, plastica, sia di quelle a vita media e lunga come mobili, macchinari, autoveicoli, elettrodomestici, televisori.

Un controllo pubblico della produzione è tanto più necessario in quanto sia nella fase di produzione agricola e industriale, sia nella fase di consumo la maggior parte delle merci ritorna nell’ambiente sotto forma di gas, liquidi e solidi. Dai gas che modificano la composizione dell’atmosfera e hanno effetto sul clima, a quelli che intossicano le strade urbane, fino ai rifiuti solidi che ammontano – ma lo stesso stato non ha cifre attendibili – a oltre 100 milioni di tonnellate all’anno, da 25 a 30 milioni di tonnellate sotto forma di rifiuti “domestici” raccolti dai servizi pubblici nelle città.

Questa massa di rifiuti aumenta continuamente e alimenta attività più o meno limpide, talvolta addirittura criminali, di smaltimento, incenerimento, talvolta mascherato da produzione di elettricità spacciata col nome di “rinnovabile”, in realtà fonte di inquinamento dell’aria e del suolo.

Dalla trappola dei rifiuti si può uscire soltanto attraverso un controllo, ancora, della qualità dei prodotti, con incentivi per quei manufatti che sono facilmente riutilizzabili dopo l’uso, con incentivi per le operazioni di genuina raccolta separata e riciclo.

Insomma

Insomma: un  nuovo corso politico attento ai problemi ambientali non coinvolge soltanto gli aspetti più tradizionali, come zone protette, depuratori, filtri, ma richiede un nuovo corso sia nella pubblica amministrazione, sia nel controllo pubblico delle tariffe e della produzione.

Chiedersi che cosa si produce, che cosa è opportuno produrre, come si producono merci e servizi, avrebbe come effetto anche la crescita di una cultura industriale e della produzione, di una crescente consapevolezza nei consumatori.

So bene che a queste considerazioni si obietta che dobbiamo rispettare le leggi della Unione europea, che non possiamo ignorare la globalizzazione; tuttavia ritengo che vi siano dei segni che anche le grandi prospettive dell’economia capitalistica odierna, anche nei suoi volti contrabbandati come “nuova economia”, una economia che è poi la fonte delle crisi ambientali locali e planetarie con l’impoverimento delle risorse naturali, l’inquinamento, la congestione urbana e il degrado del territorio – debbano ben presto cambiare davanti alla scarsità delle materie prime, alla pressione dei paesi poveri per più equi frapporti internazionali.

E proprio ai paesi del Sud del mondo potrebbe guardare una pianificazione economica pubblica lungimirante, considerando i giganteschi bisogni di cose essenziali – strutture educative, sanitarie, igieniche, strumenti di informazione, utilizzazione di fonti di energia, valorizzazione e conservazione dei prodotti e sottoprodotti agricoli, difesa delle acque – procurabili soltanto con nuove correnti di ricerca scientifica e di produzione a cui un paese come il nostro potrebbe dare un grande contributo, migliorando il proprio ambiente e la propria economia e manifestando solidarietà con popoli che premono alle frontiere del Nord del mondo.

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