In quale quartiere di Bari si trovava la premiata fabbrica di fiammiferi Losacco Nicola che destò la doverosa attenzione del sig. prefetto Annaratone, tanto da fargli scrivere preoccupato addirittura al Ministro Pelloux, nel novembre 1898, che anche a Bari c’era il pericolo di una serrata contro il monopolio dei fiammiferi ?
Il regno d’Italia aveva disperato bisogno di quattrini dopo le costose stangate prese nella guerra di Etiopia di due anni prima e dopo i moti di protesta per il caro pane che Bava Beccaris aveva soffocato nel sangue nella primavera di quello stesso anno. L’idea di unificare le grandi fabbriche di fiammiferi e di creare un monopolio statale per riscuotere una fruttuosa imposta su un genere di così grande necessità come i fiammiferi, sembrava geniale ai governi che si succedevano senza tregua, spesso senza il controllo del Parlamento.
Il “cartello” fra produttori avrebbe gettato sul lastrico migliaia di piccoli fabbricanti e i loro sventurati operai. Sventurati davvero perché la fabbricazione dei fiammiferi era una delle manifatture più pericolose e nocive. I fiammiferi erano allora fabbricati tagliando dei pezzetti di legno, immergendoli in una massa fusa e fumosa di fosforo bianco e lasciando essiccare all’aria la capocchia. I fiammiferi si accendevano, come forse qualche lettore ancora ricorda, sfregandoli su una superficie ruvida.
Si trattava di una industria relativamente giovane; la tecnica di fabbricazione dei fiammiferi era stata perfezionata intorno al 1840, dopo che era stato messo a punto anche un processo per la produzione del fosforo. La materia prima era rappresentata dai fosfati minerali e dalle ceneri delle ossa, contenenti fosfato di calcio; per trattamento con acido solforico, altro prodotto dell’industria chimica nascente, si otteneva l’acido fosforico che veniva poi trattato con carbone e trasformato in fosforo. Ho parlato prima di fosforo bianco perché il fosforo esiste in due forme chimicamente identiche, ma diverse come tossicità. Il fosforo bianco, più facile da ottenere e più economico, era usato per i fiammiferi; col fosforo rosso, molto meno tossico, era più difficile produrre i fiammiferi.
Lavorare in spazi ristretti, pieni di fumi, rappresentava una delle più gravi fonti di mortalità sul lavoro: si trattava di alcune decine di migliaia di persone, per lo più donne e bambini, che letteralmente mangiavano “pane e fosforo”. “Il pane attossicato”, infatti, è proprio il titolo di un recente libro che offre uno sguardo agghiacciante su un oltre un secolo di morti e incidenti. L’autrice, Nicoletta Nicolini, una chimica e una storica, ripercorre il lungo intreccio di rapporti fra industriali e governo, da una parte, e la voce di coloro che difendevano la salute dei lavoratori, sparsi in alcuni grandi stabilimenti, ma anche in decine di fabbrichette presenti in tutta Italia, talvolta nelle cantine delle case.
Nel corso di oltre mezzo secolo il fosforo bianco dei fiammiferi è stato causa di morti anche fuori dalle fabbriche; a parte la nuova moda del suicidio per ingestione delle capocchie degli ”zolfanelli”, erano numerosi i casi di intossicazione per contatto accidentale, specialmente nelle campagne, con il fosforo dei fiammiferi, fino ai bambini che si ustionavano per l’accensione accidentale dei fiammiferi con cui stavano giocando. In un libro “pedagogico”, che si leggeva ancora quando ero ragazzo io, ”Pierino Porcospino”, è raccontata la triste favoletta dell’imprudente Paolinella, ridotta in cenere per aver acceso i fiammiferi nonostante l’invito alla prudenza dei gatti di casa.
Le morti e le malattie si potevano evitare sostituendo il fosforo rosso a quello bianco; addirittura l’Italia aveva firmato accordi internazionali che vietavano l’uso del fosforo bianco. Ma gli industriali, con la complicità anche di alcuni grandi cattedratici e di vari parlamentari, riuscirono ad evitare i costi dei mutamenti tecnologici richiesti dal divieto dell’uso del fosforo bianco, rimandandone l’entrata in vigore dal 1905 al 1924. Il libro è dedicato alle migliaia di giovani vite sacrificate, nel corso di questo ventennio, sull’altare del profitto e racconta gli intrighi di questa pagina sconosciuta della storia industriale ed economica italiana nell’Italia preunitaria poi di quella unita, fino alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo. Tutti eventi visti attraverso gli occhi di piccoli imprenditori, di sconosciuti operai, di grandi affaristi.
Il libro racconta anche la lunga storia dell’imposta sui fiammiferi e dei tentativi per allontanare le industrie nocive dai centri urbani, due gruppi di eventi che ricevettero, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, grande risonanza e furono oggetto di inchieste e dibattiti parlamentari.
Il libro della Nicolini può quindi essere letto a vari livelli, come storia della chimica e come storia politica, ed è ricco di riferimenti a scritti di grande interesse, dimenticati. L’unico rammarico sta nella difficoltà di trovarlo: per procurarselo bisogna scrivere o telefonare alla casa editrice Documentazione scientifica, Via Irnerio 18, 40126 Bologna, telefono 051-245290. Non si capisce perché libri di grande valore e interesse siano così inaccessibili e “sommersi”.