1. “I’m proud I’m a farmer”
“Contadino” è, per alcune persone, parola offensiva, a differenza di altre riferite ad arti o mestieri. Nessuna madre avrebbe perplessità se la figlia intendesse sposare un “bancario”, “tipografo”, “meccanico”, ma alcune storcerebbero il naso se il candidato fosse un “contadino”. Questo stato di cose deriva forse dalla nascita della nostra società, essenzialmente nei borghi, per cui una persona è “cittadino” se vive dentro il borgo e, se vive fuori dal borgo, è un contadino, qualcosa di “inferiore”.
Poche idee sono così stupide. Ricordo di avere visto, in alcune abitazioni americane — di quell’America che non è New York, o Las Vegas, ma una sterminata estensione di campi, fattorie, fabbriche, case mobili, boschi — un cartello con scritto “Sono orgoglioso di essere un agricoltore”. Il padrone di casa aveva ben motivo di esserne orgoglioso perché l’agricoltura e chi vi lavora rappresentano il grande motore della più grande fabbrica di beni indispensabili per la nostra vita.
Non date retta all’esaltazione per le vendite di telefoni cellulari, computer, televisori, automobili da corsa e lussuosi panfili, eccetera, perché nessuno di questi oggetti potrebbe essere “goduto” se alcuni milioni di persone — alcuni milioni in Italia, molte centinaia di milioni nel mondo — non faticassero per noi sotto il sole cocente o nel freddo degli inverni innevati, per assicurarci il rifornimento di grano e patate, zucchero e pomodori, frutta e carne, bevande e medicine, grazie ai quali ciascuno di noi sopravvive. Ma anche di altre materie, la cellulosa per la carta, ingredienti per l’industria chimica, oli industriali, eccetera. La massa delle materie estratte dai campi e dai boschi è superiore, in milioni di tonnellate all’anno, alla massa del petrolio, dei minerali metallici, dei macchinari che attraversano ogni anno l’economia di un paese industriale come l’Italia.
Purtroppo queste considerazioni sono assenti non solo nei grandi mezzi di comunicazione, nelle scuole, ma nella cultura del paese, dominata da avvocati, letterati, giornalisti, umanisti. Eppure ce ne sarebbero di occasioni per spiegare, anzi per raccontare, l’agricoltura e le sue meraviglie. A cominciare dalla storia: la nostra condizione umana moderna è cominciata, diecimila anni fa, quando alcuni nostri predecessori si sono stancati di camminare per cercare bacche, frutti, radici e di correre dietro agli animali per ricavarne la carne, e si sono accorti che alcune piante potevano essere coltivate e che alcuni animali potevano essere allevati: è stata questa la “rivoluzione agricola”, all’inizio del Neolitico, che ha generato il concetto di proprietà (il campo è mio, la mucca è mia), la divisione del lavoro (chi possiede i campi e chi li lavora) e quindi la divisione in classi, la tecnologia di conservazione degli alimenti col fuoco e col sale, la nascita dei commerci internazionali (globalizzati anche allora) alla ricerca di sale e di spezie, eccetera.
Da quei lontani tempi la superficie della Terra è stata modellata e disegnata per trasformare le paludi in terre fertili, per migliorare le rese agricole, la tecnica è stata usata per conoscere e trasformare i prodotti dei campi e delle foreste.
2. La fabbrica dell’agricoltura
La “fabbrica” dell’agricoltura funziona partendo dai gas dell’atmosfera e dai sali del terreno, per “produrre” (gli ecologi chiamano bene “produttori” gli organismi vegetali autotrofi) una enorme varietà di molecole: carboidrati, grassi, proteine. Ed entro ciascuna “classe” di molecole la natura si sbizzarrisce, in ogni pianta, a offrire varietà e sostanze la cui conoscenza è ancora purtroppo in gran parte incompleta.
L’agricoltura “economica” utilizza, a ben pensare, soltanto un numero molto limitato delle ricchezze della natura, quelle per cui esiste un mercato commerciale immediato o tradizionale: eppure se si esplorassero appena un poco le sostanze vegetali presenti anche in piante minori, per il loro potenziale interesse commerciale, si scoprirebbero numerose occasioni di produzione industriale, di ricerca, di lavoro.
L’agricoltura continua il suo ciclo nella zootecnia, in quegli organismi “consumatori” che trasformano le sostanze organiche vegetali in sostanze organiche animali, in proteine alimentari pregiate, ma anche in altre preziose molecole, presenti nelle parti degli animali che spesso sono gettate via come scarti per mancanza di una cultura della chimica delle sostanze naturali. La chimica dei prodotti sintetici derivati dal petrolio ha come isterilito la fantasia e la curiosità dei naturalisti e dei chimici nei confronti dei prodotti zootecnici, oltre che agricoli.
Per la maggior parte delle persone il legno è quello dei tavoli, o dei pannelli truciolari, o la fonte di cellulosa per la carta o per vari tipi di rayon. Ma in realtà in ciascun albero si trovano numerose sostanze come le cellulose (al plurale), emicellulose, lignine, tannini, eccetera, alcune delle quali hanno, in passato, alimentato attività industriali e potrebbero essere utilizzate in futuro per molte altre.
3. La natura come fonte di materie prime e merci
Attraverso una lenta e attenta opera di scelta, i nostri predecessori hanno identificato, per tentativi ed errori, le piante nutritive, quelle curative e aromatiche, quelle che erano in grado di fornire merci sempre più raffinate e diversificate come combustibili, prodotti chimici industriali, coloranti, fibre tessili, pellami, legnami per case, navi e ponti, eccetera.
Nella biosfera sono presenti milioni di specie vegetali e animali, la cui massa ammonta a miliardi di tonnellate, con un continuo processo di rinnovamento attraverso i cicli chiusi dei produttori —> consumatori —> decompositori e con una produzione primaria netta, sulle sole terre emerse, di circa cento miliardi di tonnellate all’anno che ogni anno tornano puntualmente, rinnovabili.
Nonostante la grandissima varietà e ricchezza della natura, le specie di piante e animali di interesse “economico” sono limitate a poche centinaia e sono aumentate di poco anche dopo la scoperta, da parte degli Europei, di “nuovi mondi”: il continente americano, quello africano e i paesi dell’oriente asiatico.
L’importanza commerciale di alcuni dei prodotti offerti dalla natura ha fatto crescere la curiosità per i loro caratteri e composizione: si può ben dire che “la chimica” è nata come chimica delle sostanze naturali. A mano a mano che aumentava la richiesta di merci e per rompere il monopolio che di esse avevano alcuni paesi che possedevano le colonie da cui tali merci venivano, è nato un vasto movimento scientifico per la riproduzione artificiale di molte di tali merci e per l’invenzione di “surrogati”.
La “rivoluzione sintetica”, cominciata nei primi decenni del XIX secolo, ha fatto sì che oggi, ad eccezione dei prodotti alimentari, almeno l’ottanta per cento degli oltre dieci miliardi di tonnellate di merci consumate ogni anno sulla Terra sia di origine “non biologica” (anche se le materie prime fossili, carbone, petrolio, gas naturale, a rigore sono di pur lontana origine biologica).
Le condizioni geopolitiche ed i conflitti che hanno escluso alcuni paesi dall’accesso ad alcune materie prime (si pensi all’autarchia nei periodi sovietico, fascista e nazista); o le occasionali eccedenze di prodotti agricoli (nel periodo della grande crisi negli Stati Uniti); o il temporaneo aumento di prezzo e scarsità di alcune materie prime (durante la “crisi petrolifera” degli anni settanta del secolo scorso), hanno indotto di tanto in tanto a riesaminare le risorse biologiche come fonti di materie prime e di merci; nel complesso, però, nel corso degli ultimi decenni si sono perdute conoscenze tecniche, sementi, colture batteriche, per cui diventa sempre più difficile una resurrezione di iniziative industriali basate su molte tecniche che erano importanti in passato.
Sembra tuttavia possibile riconoscere alcune nuove tendenze. La prima consiste nella crescente attenzione per gli effetti ambientali negativi delle attuali merci: molte merci sintetiche derivate dal petrolio, salutate, alla loro comparsa, come mezzi per “liberarsi” dalla schiavitù della natura, ritenute progettabili e modificabili a piacere, non sono biodegradabili, restano a lungo inalterate dopo l’uso e creano problemi di smaltimento. Molte altre merci sintetiche (coloranti, pesticidi, additivi) si sono rivelate dannose per la salute umana e per gli ecosistemi naturali, al punto da indurre l’abbandono dei “nuovi” prodotti per tornare ai prodotti naturali. Uno dei casi più noti è quello dell’insetticida sintetico DDT, che aveva soppiantato i pesticidi a base di derivati del piretro e che, dopo alcuni anni, è stato vietato e si è dovuto di nuovo ricorrere agli stessi derivati del piretro.
La seconda tendenza deriva dal fatto che la produzione delle merci sintetiche è possibile soltanto in impianti ad alta tecnologia e concentrazione di capitale e di conoscenze, quali sono disponibili soltanto nei paesi industrializzati. Tali merci sono accessibili ai paesi poveri soltanto se essi accettano una posizione neocoloniale dominata dal capitale internazionale.
Vi sono segni di una crescente insofferenza verso questa prospettiva e di una crescente attenzione per le merci che possono essere ottenute dalle grandi risorse naturali di origine biologica e continuamente rinnovabili, che molti paesi poveri e oggi “arretrati” possiedono, con impianti costruiti e funzionanti sul posto. Le pubblicazioni della FAO e di altri organismi internazionali indicano chiaramente questa tendenza.
4. Uno sguardo al futuro
A favore della nascita o della rinascita di attività associate all’agricoltura, alle foreste, alla zootecnica, alle ricchezze della biomassa, insomma, sta il fatto che dei milioni di specie vegetali e animali esistenti in natura, soltanto alcune centinaia di migliaia sono state osservate e caratterizzate scientificamente e hanno ricevuto un “nome”, e soltanto di poche centinaia sono stati esplorati a fondo i caratteri botanici, zoologici e chimici in relazione al loro uso come fonti di materie prime e merci.
Il principio dell’economia tradizionale che spinge a utilizzare soltanto le materie che assicurano una elevata resa di “denaro” per unità di superficie coltivata o per unità di peso, ha provocato un graduale impoverimento delle varietà vegetali e animali utilizzate. Tale impoverimento è stato trasferito anche nei paesi sottosviluppati da cui vengono tratte molte delle materie di interesse commerciale.
L’abbandono, per motivi di prezzo, di molte merci di origine naturale ha provocato un impoverimento della diversità biologica e la scomparsa di specie di animali da allevamento, di piante da fibra e di altre utilizzate come fonti di coloranti e di medicinali, eccetera.
Un motivo di ottimismo per la ripresa dell’uso merceologico di molte risorse biologiche sta nella grandissima varietà di molecole che esse contengono: mentre “la chimica”, come si ricordava prima, è nata come “chimica delle sostanze naturali”, l’attenzione per tali sostanze è andata declinando, proprio per il minore loro interesse commerciale. L’industria farmaceutica è probabilmente l’unica che trova ancora conveniente, per la preparazione di nuovi medicinali, partire da molecole naturali suscettibili di modificazioni.
C’è un altro aspetto interessante: la produzione commerciale di prodotti, soprattutto alimentari, nei paesi industriali comporta l’utilizzazione di tecniche di trasformazione e conservazione che generano grandi quantità di sottoprodotti ricchi di molecole organiche che spesso creano problemi di smaltimento e sono fonti di inquinamento. Si pensi ai sottoprodotti e scarti dell’industria delle conserve, dell’industria lattiero-casearia, dell’industria della macellazione e trasformazione della carne, eccetera.
Si può calcolare che, ogni due kilogrammi di materia organica secca di origine biologica che entra negli attuali cicli agroalimentari, almeno un kilogrammo finisca negli scarti o addirittura nei rifiuti. Una più attenta conoscenza della composizione chimica e fisica e dei caratteri di tali scarti potrebbe consentire di ricuperare grandi quantità di merci usando come “materie seconde” tali sottoprodotti.
5. La fantasia della natura
Circa il 60 % della biomassa vegetale è costituita da carboidrati come zuccheri, cellulose, amidi, che sono poi i primi materiali che si formano nel processo di fotosintesi. Con tre soli atomi, carbonio, idrogeno e ossigeno, la natura “fabbrica”, in una grandissima varietà di combinazioni, materie diversissime, talvolta accumulate per la prima fase di sviluppo dei semi, talvolta come materiali da costruzione capaci di trasportare acqua e sali inorganici dal suolo a decine di metri di altezza.
Di questa grande fantasia naturale viene utilizzata soltanto una piccola parte a fini umani. L’industria della carta, che assorbe ogni anno molte centinaia di milioni di tonnellate di materiali lignocellulosici, va a cercare le proprie materie prime sulla base della necessità di ottenere della “cellulosa” standard adatta per i suoi cicli produttivi.
L’industria tessile utilizza un numero molto limitato di fibre cellulosiche, rispetto alla grande varietà di materiali offerti dalla natura. L’industria chimica produce, talvolta faticosamente, per sintesi molecole che sono state e possono essere ottenute per via microbiologica dai carboidrati.
Fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento l’attenzione dei chimici è stata rivolta ai derivati chimici della cellulosa e si è così visto che, “grazie” ai vari gruppi funzionali alcolici presenti, la cellulosa può essere trasformata in numerose sostanze, per la maggior parte poi abbandonate per il loro scarso interesse finanziario immediato. Sono sopravvissuti alcuni acetati come fibre artificiali o materie per pellicole, di limitata produzione, e i nitrati utilizzati come ingredienti per esplosivi. Il successo delle pellicole di polimeri sintetici ha spazzato via l’interesse per quelle di cellulosa rigenerata (tipo cellophane) che pure presentano importanti proprietà di permeabilità ai gas, ai liquidi e di biodegradabilità.
Una migliore conoscenza dei materiali lignocellulosici — le lignine accompagnano le cellulose in ragione di circa una parte ogni due o tre parti di cellulosa — potrebbe dare un contributo a nuove forme di utilizzazione della carta e dei cartoni usati, di fronte ad una crescente difficoltà delle operazioni per la loro trasformazione in nuovi prodotti cartotecnici.
Le altre importanti macromolecole della classe dei carboidrati sono gli amidi, sostanze con diversissima composizione e peso molecolare, variabili da una specie vegetale all’altra e suscettibili di trasformazione in molti derivati, finora ben poco studiati. Per idrolisi chimica o microbiologica degli amidi si formano numerosissime sostanze, “le destrine”, molto variabili come caratteristiche chimiche e fisiche e usate solo limitatamente. Simili considerazioni valgono per molti zuccheri, dai monosaccaridi come il glucosio, ai disaccaridi, agli zuccheri “più rari”, di cui esistono grandi quantità in natura. Molti di questi sono capaci di fornire derivati, alcuni dei quali noti dal punto di vista chimico, ma finora poco o niente studiati dal punto di vista delle proprietà tecniche che aprirebbero probabilmente le porte a molti impieghi merceologici.
Le sostanze proteiche presenti in tutti i vegetali ed animali, rappresentano le pietre fondamentali per tutti i fenomeni biologici. La natura, con infinita fantasia, partendo da un limitato numero di amminoacidi, che sono le “pietre fondamentali” delle proteine, ha predisposto i comuni materiali da costruzione per organi vitali tanto diversi fra loro. Nelle pareti cellulari delle foglie, nel sangue animale, nelle ali delle farfalle, troviamo sostanze diversissime come caratteri e funzioni; la diversità deriva dalle proporzioni in cui sono presenti tali amminoacidi e della loro successione.
Nonostante la varietà delle proteine esistenti in natura soltanto pochissime hanno ricevuto attenzione, al di fuori degli usi alimentari e di quelli dell’industria conciaria e tessile (seta, lana). Poche sostanze proteiche (quelle della caseina, della zeina, dell’arachide) sono state utilizzate per la produzione di fibre artificiali, oggi abbandonate. Eppure ogni anno milioni di tonnellate di proteine derivate dalle industrie di trattamento dei prodotti agricoli, dal siero di latte, presenti nei residui dell’estrazione dei grassi, negli scarti della macellazione e delle operazioni conciarie, eccetera, vengono destinate ad usi poveri, come l’alimentazione del bestiame, o la concimazione dei terreni, quando addirittura non sono buttate vie costituendo fonti di inquinamento. Molte di queste proteine sono di origine animale, ricche di amminoacidi essenziali, e potrebbero essere utilizzate per l’integrazione degli alimenti poveri, come quelli che stanno alla base della nutrizione di molti paesi poveri.
Le stesse considerazioni sulla fantasia della natura valgono per i lipidi, i costituenti degli oli e grassi di origine vegetale e animale, che pure sono prodotti industrialmente, soprattutto per l’alimentazione umana, in quantità di circa 100 milioni di tonnellate all’anno. Il successo dei tensioattivi sintetici e della glicerina sintetica ha ridotto il campo di applicazione industriale dei grassi naturali: anche qui le considerazioni “ecologiche” hanno riportato in vita, nella detergenza domestica, sia pure limitatamente, alcuni tipi di saponi di origine agricola grazie alla loro biodegradabilità.
Vi sono molte strade aperte per l’utilizzazione, con successo, di coloranti naturali, di gomme e resine, dei terpeni, di molte vitamine e degli steroli, soprattutto in tutti quei casi in cui le proprietà di interesse commerciale sono associate a strutture chimiche abbastanza complicate e non riproducibili per via sintetica.
A puro titolo di curiosità, e come esempio della potenziale ricchezza di moltissimi prodotti quasi sconosciuti del terzo mondo, si può ricordare la storia della produzione, nel 1951, da parte dell’industria messicana Syntex, del cortisone dalla diosgenina ricavata dalla radice dell’igname messicano; lo stesso gruppo di chimici americani e messicani, operando nel Messico, preparò, sempre nel 1951, dal testosterone il contraccettivo orale noretindrone, “la pillola” (è questo il titolo di un libro di Carl Djerassi, pubblicato da Garzanti, che racconta tutta questa avventura) che avrebbe fatto diminuire il tasso di crescita della popolazione mondiale e rivoluzionato i costumi sessuali di miliardi di coppie. Si tratta di un esempio di come la rivoluzione della biomassa potrebbe far crescere nel Sud del mondo nuove industrie e attività di ricerca e produzione basate su materie locali.
La sfida della natura che offre, nei prodotti vegetali e animali associati all’agricoltura, una così grande varietà e complicazione di sostanze si può accettare soltanto con altrettanta fantasia chimica e di ricerca. Siamo di fronte ad una chimica difficile, ma proprio per questo i chimici e le imprese dei paesi industrializzati come il nostro potrebbero impegnarsi, usando i raffinati strumenti oggi disponibili, per creare nuove merci, processi e occasioni di occupazione, con vantaggio sia per il Sud sia per il Nord del mondo, ricordando anche che molte soluzioni sono già state trovate e poi sono state abbandonate, con un impoverimento del patrimonio di conoscenze, un processo simile alla perdita del patrimonio di biodiversità.
Purtroppo queste considerazioni soni state assenti nella chiassosa esposizione EXPO di Milano del 2015 mentre potrebbero offrire la base per una “terza agricoltura ecologica”, oggetto di una conferenza svoltasi nello stesso 2015 presso la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia”, pensata per ricostruire un rapporto fra città e campagna, superando l’agricoltura contadina e quella industrializzata. Utili considerazioni possono essere tratta dal “Manifesto di Brescia”, elaborato fai partecipanti a tale conferenza e che qui viene riproposto.
Per tempi lunghissimi l’agricoltura contadina è stata in grado di soddisfare i bisogni umani di cibo e di materiali attraverso un legame organico con la natura, con l’energia solare, con i gas dell’atmosfera, con l’acqua, con la terra, con gli animali, e come tale sopravvive in molti paesi dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa.
Negli ultimi due secoli si è verificata una rottura dei vincoli naturali con l’avvento di una modernizzazione che ha promesso di soddisfare i bisogni fondamentali di popolazioni in rapida crescita attraverso l’industrializzazione dell’agricoltura, dell’allevamento e pesca, nonché della trasformazione e distribuzione degli alimenti.
Tale industrializzazione, facendo perno sulla meccanizzazione, sull’impiego di sostanze chimiche come concimi e pesticidi e su una selezione genetica orientata alle varietà a resa elevata, si è imposta nei paesi di più antico e consolidato sviluppo, come quelli europei e americani, con una forza capace di travolgere tutte le resistenze. L’agricoltura, nella visione corrente, è così diventata un reparto dell’industria, adottandone la logica di standardizzazione, uniformazione, economie di scala, espulsione e precarizzazione della manodopera.
L’agricoltura industriale si è imposta nei paesi capitalisti e nelle loro colonie, così come nei paesi socialisti o ex comunisti; il progresso dell’agricoltura industriale è stato presentato e visto come l’unica via percorribile per debellare la fame e la povertà, alimentare una popolazione mondiale in continua espansione demografica, consentire a tutti di poter godere del benessere che la produzione industriale nel suo complesso era in grado di mettere a disposizione.
L’agricoltura odierna non è più soltanto industriale ma tecnico-scientifica, non è più solo questione di meccanica, chimica e genetica tradizionale ma di biotecnologie, con intrecci inestricabili tra centri di ricerca e aziende chimiche e farmaceutiche, Stati, organismi sovranazionali, capitali di rischio, speculazioni sulle derrate, privatizzazione e commercializzazione di ogni risorsa naturale (e umana).
L’industrializzazione ha influenzato anche la distribuzione alimentare attraverso l’affermarsi dilagante delle catene di “supermercati” e la creazione di complesse filiere logistiche e di trasformazione lungo tutto il sistema agro-alimentare, oggi in gran parte globalizzato e finanziarizzato.
Questa macchina sostenuta da una formidabile azione pubblicitaria, talvolta mascherata da informazione scientifica, presenta delle crepe e vibrazioni pericolose, sembra procedere alla cieca orientata solo dalla logica del profitto, creando guasti eccessivi sul suolo su cui poggia, nella sua avanzata arreca danni alle forme viventi e alle stesse persone che trascina nella sua marcia apparentemente inarrestabile.
Il sistema agro-industriale nella sua versione più avanzata è insostenibile per l’ambiente, a causa dello sperpero di risorse non rinnovabili e della sempre maggiore dipendenza da esse, per i pesanti attacchi che porta alla diversità e vitalità degli ecosistemi terrestri e marini e ai relativi paesaggi storicamente costruiti; perché non rispetta la genetica e l’etologia degli animali e produce alimenti di bassa qualità, minando alle radici la varietà e ricchezza delle tradizioni alimentari locali e regionali; fomenta conflitti politici e vere e proprie guerre; toglie posti di lavoro e moltiplica i lavori precari e semi-schiavili; diffonde la cultura dell’usa e getta e del consumo senza qualità e consapevolezza; influenza negativamente la salute dei consumatori; concorre a riprodurre la disuguaglianza, creando una divisione inaccettabile tra chi ha troppo e spreca alimenti e risorse e chi manca del cibo o deve accontentarsi di alimenti scadenti e insufficienti. E’ una macchina formidabile e in continua espansione che promette di nutrire il pianeta mentre nella realtà riproduce una struttura di spreco e di ingiustizia.
L’agricoltura industrializzata è incompatibile con l’ecosfera e la vita degli ecosistemi come appare dalle crescenti manifestazioni di cambiamenti climatici, di erosione del suolo, di perdita di fertilità e di biodiversità, di inquinamento delle acque ad opera dei residui di concimi e pesticidi e dei residui della zootecnia.
L’agricoltura “biologica”, nata come reazione all’agricoltura industriale, sta conseguendo successi, in certi casi, superiori alle produzioni ad alta intensità di additivi chimici e geneticamente modificate. La sua crescita è accompagnata dalla maturazione del comparto produttivo, dalla crescente consapevolezza dei consumatori circa le valenze ambientali e salutistiche degli alimenti biologici, ma anche da forti campagne mediatiche sostenute da portatori di interessi particolarmente robusti, da un sempre maggiore attenzione al biologico da parte della grande distribuzione, dell’industria alimentare e, in ultimo, della finanza che stanno investendo nel settore anche attraverso lo sviluppo di catene di supermercati specializzati.
Si pone quindi il problema di una possibile convergenza tra agricoltura biologica e sistema agro-industriale. L’aumento delle importazioni in competizione con le produzioni locali e regionali, le continue deroghe come quella sulle sementi e sulle metodologie agricole e zootecniche, lo sviluppo delle aziende “miste” biologiche e convenzionali, i continui casi di frode, lo scontro istituzionale testimoniano una situazione, quella attuale, di grande conflittualità.
La speranza è quella della creazione, a partire da una tradizione agronomica scientifica quale quella dell’agricoltura biologica italiana, di un sistema agro-alimentare ecologico, alternativo rispetto a quello industriale e finanziario, dove agricoltori, trasformatori, distributori, consumatori non agiscono in competizione gli uni contro gli altri per interessi esclusivamente economico-monetari, ma in cooperazione per finalità fondamentalmente economico-ecologiche.
Il successo di diversi modelli agro-alimentari alternativi, in Italia come in altri paesi, testimonia che la speranza è ben riposta. Una trasformazione ecologica dei sistemi agro-alimentari è non solo esperibile ma anche fattibile e tangibile.
Una economia agricola rinnovata, ecologica, può assicurare un reddito dignitoso, un lavoro soddisfacente, la sperimentazione di nuove forme di convivenza sociale e un rapporto consapevole con l’ambiente di vita. Una trasformazione legata ai prodotti e ai produttori del territorio e dimensionata ad essi , una distribuzione veramente a servizio degli agricoltori e dei cittadini e volta a limitare gli sprechi materiali ed energetici.
L’agricoltura ecologica, rispondente ai bisogni e alle necessità dell’oggi, può e deve raccogliere e superare l’eredità sia dell’agricoltura contadina sia di quella industriale. E’ una transizione in cui è fondamentale il ruolo delle giovani generazioni e delle donne, come lo era stato all’origine delle agricolture contadine. La sua affermazione, passando da situazioni di nicchia a fenomeno socialmente rilevante, le consentirà di svolgere un ruolo prezioso di rigenerazione sul piano culturale, ecologico ed economico rimettendo al centro dell’operare umano il valore del saper fare e della manualità, il valore del lavoro e del suo senso, il valore delle cose e delle relazioni, il valore del tempo, dei tempi dell’attesa, del silenzio e dell’otium come opportunità di conoscenza, come capacità di godere della vita senza consumarla.