Non rammento quando ho conosciuto Roberto. Io, del 1948, ero arrivato a Brescia dal Mantovano nei primi anni Sessanta, per completare gli studi; lui, del 1947, dal Friuli, nel Sessantotto, dopo aver ottenuto il diploma di perito meccanico nell’Istituto Tecnico Industriale Arturo Malignani di Udine, per approdare ad un impiego all’Om, l’attuale Iveco.
Ci siamo conosciuti in quegli anni di grande fermento sociale e politico, nelle tante riunioni, manifestazioni, iniziative all’insegna dello slogan, “studenti e operai uniti nella lotta”. Io in qualche modo protagonista del movimento studentesco, lui dell’“autunno caldo” che aveva visto proprio nell’Om di Brescia uno dei principali epicentri di quell’esaltante stagione di lotte e di cambiamenti (il comune amico Giorgio Cremaschi mi segnala il film di Gregoretti sull’autunno caldo del 1969, dove ad un certo punto si vede e si sente il bellissimo intervento del giovane Roberto nell’assemblea di approvazione del contratto).
Di Roberto, fin da subito, ti colpivano il carattere mite, aperto all’ascolto, la voce pacata, che si alzava di tono solo per l’indignazione di una qualche ingiustizia, e poi la passione per il riscatto degli ultimi, la profondità della riflessione, l’originalità delle analisi, la collocazione a sinistra per un “comunismo critico”, all’epoca rappresentato dal gruppo Il manifesto, mai venuta meno.
Passione politica accompagnata da un immenso amore per la lettura e lo studio e dall’interesse per capire il presente sulla base di un’analisi critica del passato.
Fu così che quando si trattò di strutturare e consolidare l’Archivio storico della Camera del Lavoro di Brescia, della cui segreteria ero entrato a far parte agli inizi degli anni Ottanta, fu naturale chiedere a Roberto di rendersi disponibile. Una scelta quanto mai felice, perché Roberto non fu semplicemente un esigente archivista e ordinatore di carte, ma divenne, da sorprendente autodidatta, uno storico di vaglia, capace di un metodo di indagine rigoroso che spesso non si riscontra negli storici paludati. Spiegherà, successivamente, nella dedica di una delle sue ricerche più impegnative, I soldati dellabuona ventura, l’origine di questa sua predilezione: “A Caterina, mia madre, che nel raccontarmi tante volte la sua vita, mi ha regalato la passione per quella degli altri, ovvero della storia”. Vasta fu da allora la sua produzione saggistica, che ha abbracciato la storia del movimento operaio bresciano, i temi della pace, della non violenza e della riconversione dell’industria delle armi, l’antifascismo, da quello storico a quello seguito alla strage fascista di piazza Loggia.
Quell’evento lo segnò profondamente, fu tra le decine di feriti, e in occasione di una delle sentenze di assoluzione, fortunatamente poi ribaltate dalle ultime condanne, appese il cartello sulla stele con la scritta amaramente polemica: “In questa piazza non è successo niente”; quindi si dedicò, infaticabile, alla promozione di Piazza di maggio, in ogni ricorrenza della strage. I campi privilegiati dalle sue indagini erano gli stessi che l’hanno visto impegnato nel corso di tutta la sua esistenza, in prima fila, per dedizione e convinzione, ma nelle retrovie, per incarichi o ruoli dirigenti che non ha mai cercato: una disinteressata gratuità di impegno per il bene comune davvero di altri tempi che potrebbe insegnare molto oggi a chi volesse tentare un vero rinnovamento della nostra acciaccata politica. In tutte le “buone battaglie” non è mai mancato, a partire dalla tensione internazionalista, per l’autodeterminazione e la pacifica cooperazione tra i popoli, come militante tra fine anni Settanta e Ottanta della Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli. Una personalità di grande valore, di studioso e di militante al contempo, che a Brescia ha dato molto.
Come ricercatore la sua attenzione è sempre stata per l’altra storia, quella trascurata dall’Accademia, quella dei semplici, operaie e operai, mondariso, anonimi antifascisti. Tante sono le pagine che ha dedicato a militanti di base del sindacato, immenso il lavoro che ci ha consegnato in due grandi opere di importante impegno. Nel 2009 pubblicava per la Gam, I soldati della buona ventura. Militanti antifascisti bresciani nella guerra civile spagnola (1936-1939), un tomo di oltre 700 pagine, di cui più della metà costituito da una vastissima documentazione, nella quale spiccano le accurate 60 biografie dei protagonisti di quella “buona ventura”. Analoga attenzione alle persone, meticolosa e partecipe, mise nell’ultima impresa terminata quando il male cominciava già a manifestarsi, I deportati politici e razziali bresciani, per l’Aned, iniziata sulla base di 200 schede conosciute, arricchita fino a 427 biografie piene di notizie, di sofferenze e di umanità. Due lavori davvero monumentali che ci restituiscono vicende e protagonisti di grande valore etico e civile della migliore Brescia, ignorati o colpevolmente dimenticati dalla memorialistica ufficiale.
Le doti del Roberto ricercatore ho avuto la fortuna di riconoscerle condividendo diversi lavori scritti a quattro mani: la migliore stagione del sindacato bresciano, tra anni Sessanta e Settanta, quella del “modello operaio” di intervento per la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori e quella unitaria dei Consigli di fabbrica, ricerche pubblicate nell’ambito della Fondazione Luigi Micheletti; le biografie di due grandi protagonisti della Resistenza in Val Trompia, Poppi Sabatti e LinoBelleri. E con Roberto ci siamo trovati nei gruppi redazionali di diverse piccole grandi imprese culturali: l’avventura procellosa, tra il 1982 e il 1984, del periodico mensile bresciano di informazione e dibattito “Punto e virgola”, irriverente e “puntuto” verso il sistema di potere bresciano; dal 1986 nella redazione della rivista mensile “Amanecer”, di informazione e dibattito sull’America Latina; infine il comune approdo nel 1993 al gruppo redazionale della rivista dei Missionari saveriani “Missone Oggi”. Ricordo ancora la perplessità mia e di Roberto di fronte alla richiesta di padre Meo Elia chiamato a Brescia a rilanciare la principale rivista dei Saveriani in Italia: “Padre Meo, ma noi non siamo cattolici praticanti!”. “Ma voi per quello che mi hanno detto e che conosco, credete nei valori che appartengono a tutti gli uomini di buona volontà, Iustitiaet Pax, valori che ogni buon cattolico non può che condividere. Di questo vi occuperete, alle questioni teologiche ci pensiamo noi”. E in quel gruppo redazionale ci siamo sempre trovati a nostro agio, molto più che nelle nostre “parrocchie laiche” di appartenenza. In effetti, ambedue, per ragioni diverse, siamo usciti acciaccati dall’esperienza sindacale: più traumatica e sofferta la scelta di Roberto, nel 1999, quando decise di autosospendersi dall’amata Cgil, con una lettera al segretario generale Sergio Cofferati in dissenso con la posizione assunta dalla stessa di fronte alla guerra di aggressione alla Serbia, camuffata da “umanitaria”, decisa dal Governo italiano. Il suo pacifismo intransigente non poteva accettare compromessi, anche sul piano personale, e lasciò la sua diletta creatura, l’Archivio storico della Camera del lavoro, per tornare in fabbrica.
Del resto il pacifismo, l’opposizione intransigente ad ogni guerra furono sempre al centro della sua esistenza. Per “Missione Oggi” curò diversi dossier sulla nonviolenza, sulla resistenza non armata, sulla denuncia della sempre fiorente industria delle armi, produttrice di “merci oscene”, come le chiamava Giorgio Nebbia. In questo ambito collaborò ad Opal, Osservatorio permanente sulle armi leggere, con ricerche pionieristiche sul pacifismo dopo la seconda guerra mondiale, sugli obiettori di coscienza, sull’esperienza dei volontari nel conflitto delle Bosnia
Un po’ per le gradite incombenze di nonno, un po’ per i disturbi provocati dalla malattia, negli ultimi tempi si era concesso un ritmo più rilassato: cosicché, con un comune amico, Lucio Maninetti, giornalista di vaglia e dalla schiena dritta, avevamo preso il “vizio” di ritrovarci al sabato mattina per due chiacchiere e l’aperitivo al Bianchi, un bicchiere dei Colli romani e un bertagnì.
Il rito fu interrotto traumaticamente, nel marzo 2020, dal Covid, che colpì duro Roberto, già di per sé fragile. Solo un anno e mezzo dopo, eravamo riusciti ad interrompere quel lungo penoso periodo di rapporto a distanza, di periodiche ansiose informazioni sul suo stato di salute, sugli alti e bassi, su una sofferenza che Roberto viveva con incredibile serenità e compostezza. Roberto, finalmente, si sentiva in forze e voleva incontrarci. Ci ritrovammo tutti e tre, il 7 settembre scorso, io, Lucio e Roberto, sotto la casa della sua ex consorte, che da tempo lo ospitava e lo accudiva, in un tardo pomeriggio per riprendere il rito dell’aperitivo. Una conversazione gustosa come le altre, parlando delle nostre reciproche letture e, con sorridente distacco, delle miserie dell’oggi. Andandocene assicurammo i giovani e premurosi osti, novelli gestori del bar, che saremmo tornati periodicamente, clienti fissi.
Invece poco dopo Roberto peggiorò, fu necessario il ricovero in ospedale, l’ultimo, purtroppo.
Il 12 novembre riuscii a fargli visita: un’ora intensa di ricordi delle belle cose fatte insieme, ma anche di convinzione di un futuro possibile. Roberto era determinato a continuare con costanza e impegno la riabilitazione per potersi rimettere in piedi e camminare autonomamente: “A me basta tornare a casa e fare ogni giorno due passi nel parchetto, al sole, poter leggere e incontrare i miei amici”. Mi salutò, sorridente. Un arrivederci che non c’è più stato.
Roberto, anche nei momenti di maggiore sofferenza, non l’ho mai sentito lamentarsi, sopraffatto dalla disperazione: era la serenità del giusto, di chi sapeva di avere impiegato la vita al meglio. Lo diceva: “Fin qui sono giunto e sono soddisfatto, tutto quello che verrà in più è un ulteriore regalo”. Una forza d’animo che può risultare solo da un lungo lavoro di riflessione e meditazione interiore, di profonda adesione e accettazione del senso esaltante e al contempo tragico della condizione umana. Anche in questi ultimi anni di sofferenza dignitosa Roberto ci ha saputo lasciare un grande insegnamento. Grazie, amico mio.