Nel 1973, due anni prima del Giubileo del 1975, apparve quasi clandestinamente un fascicoletto intitolato: “La Terra è di Dio”. L’autore, Giovanni Franzoni, monaco benedettino, invitava ad avvicinarsi all’evento ecclesiale imminente riscoprendo le radici vere dell’anno giubilare, quello a cui il libro biblico del Levitico invitava il popolo ebraico. Ogni 50 anni ti fermerai, lascerai riposare la Terra; se ti sei appropriato di campi altrui li restituirai perché la Terra non è tua – dice il Signore – ma mia; libererai gli schiavi. E’ con questo spirito, commentava Franzoni, che si avvicinano al Giubileo la città di Roma, l’Italia, con le periferie dilatate dalla speculazione edilizia, con la natura — la “Terra di Dio” – inquinata e violentata dalla “crescita economica”?
Il discorso fu ignorato, mentre ebbero risalto le scelte “di sinistra” di Franzoni che ha continuato la sua testimonianza con le comunità cristiane di base, con i suoi scritti sempre improntati alla tolleranza, alla comprensione degli altri, alla solidarietà, insomma alla “carità cristiana”.
Il messaggio del Levitico fu ripreso da Franzoni nel 1996, alla vigilia del nuovo Giubileo del 2000, e alla luce del grande dibattito “ecologico” degli ultimi decenni, con il libro “Lascerai riposare la Terra”. Il Levitico non aveva parlato soltanto a un popolo che stava costatando la perdita di fertilità del suolo in seguito alle colture e ai pascoli intensivi, ma parla a tutti gli esseri umani, di ogni tempo, anche a noi che, oggi, impoveriamo la terra con le pratiche agricole, con l’estrazione di minerali e fonti energetiche, impoveriamo — “stanchiamo” — la terra immettendo nell’atmosfera e nei fiumi tante sostanze nocive che rendono questi corpi naturali non più utilizzabili. Gli stessi drammatici fenomeni dell’anno 2000 non sono forse la conseguenza di un eccessivo sfruttamento privato e speculativo della “Terra” ? L’invito a ricordare che “la terra” ci è data soltanto in prestito e non è nostra, avverte che la “crescita” del possesso dei beni materiali deve essere regolata da qualche norma etica.
Negli ultimi anni il pensiero di Franzoni si è esteso: l’appropriazione della Terra non è limitata ai paesi industriali e allo sfruttamento delle risorse agricole e minerarie dei paesi poveri, ma si estende ad altri beni “comuni” come gli oceani, le risorse energetiche e minerarie sottomarine e, in tempi più recenti, all’occupazione “abusiva” dell’altro grande bene collettivo che è lo stesso cielo.
Nel recente libro: “Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri” (Edizioni dell’Università Popolare, Via del Corso 101, Roma, www.upter.com/edup.htm) Franzoni invita ad un nuovo comportamento etico verso tali beni comuni: lo spazio che sovrasta la Terra è ormai letteralmente pieno di strumenti tecnici. All’inizio i satelliti artificiali erano stati salutati come mezzi per aumentare le conoscenze geografiche, per collegare i popoli, per conoscere in anticipo il clima, ma ben presto si è visto che l’affollamento di satelliti e veicoli spaziali ha motivi ben più seri e meno nobili: il possesso gratuito dello spazio comune, ottenuto senza chiedere permesso a nessuno dei popoli sottostanti, crea profitti privati enormi. I risultati dell’occupazione “del cielo” si vendono e a caro prezzo.
Si può trattare di servizi telefonici, di televisioni, di telecomunicazioni, di collegamenti di reti informative, ma ancora più spesso l’occupazione dello spazio, spesso con veicoli in orbita stazionaria, “fermi” (si fa per dire) sulla verticale di un paese che non sa che cosa ci sia sulla sua testa, consente di ottenere e vendere segreti militari, di spiare ciò che avviene sul suolo sottostante, di captare notizie “utili” alle potenze militari e ad una illecita concorrenza commerciale, eccetera. Consente di “vendere” programmi televisivi trasmessi dallo spazio e accessibili soltanto a chi può collegarsi direttamente, pagando, con un particolare satellite.
Quale degrado etico rispetto all’originale speranza di solidarietà planetaria generato dalla scoperta delle trasmissioni con onde elettromagnetiche, un secolo fa, rispetto ai coniugi Curie che, come ricorda Franzoni, non vollero brevettare e trarre profitto dalla scoperta del radio, destinato a salvare innumerevoli vite umane, perché questo dono della natura doveva restare accessibile gratuitamente a tutti. (Lo si è ricordato anche nella scheda su Marie Curie nella rubrica “persone” del n.1 di “altronovecento”).
Chi trae vantaggio economico occupando o edificando il suolo altrui, sia privato sia dello stato, deve pagare al proprietario un prezzo. Perché non dovrebbe essere lo stesso quando un privato trae vantaggio economico dall’occupazione degli oceani o dello spazio, beni comuni, senza padrone al di fuori di Dio? Il fatto è che nei confronti di un proprietario è facile redigere un contratto finanziario; ma a chi deve pagare colui che estrae petrolio o minerali dal fondo di acque internazionali, che trae profitto occupando con satelliti lo spazio?
La risposta di Franzoni è ferma: ai poveri della Terra, a quelli che sono poveri proprio perché sono stati privati di qualsiasi diritto di proprietà su dei beni che Dio ha dato in parti uguali anche a loro. Per quanto sgradevole (per i ricchi), la proposta di Franzoni ha fondamenti e precedenti giuridici che Franzoni passa in rassegna proponendo l’istituzione di un “Fondo per la Perequazione del Debito e per lo Sviluppo” al quale dovrebbero affluire le tasse prelevate a tutti coloro che traggono un utile dall’uso dei beni collettivi; il fondo potrebbe così avere un flusso costante, anzi in aumento, di denaro che dovrebbe essere distribuito ai paesi poveri in primo luogo per la cancellazione dei debiti che hanno verso le banche e i paesi ricchi, e poi per un vero processo di sviluppo sociale e umano: lotta all’analfabetismo, lotta alla mortalità infantile, approvvigionamento di acqua potabile, costruzione di servizi igienici e sanitari, accesso alle informazioni.
Più che di soldi, si tratta di una nuova dimensione etica del concetto di proprietà, del rapporto col prossimo di oggi e del futuro.