La sicurezza, e la salute, in fabbrica, più in generale nei luoghi di lavoro, rappresentano uno dei campi di attività del Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, anche se la sede centrale del Museo, destinata a dar conto al pubblico di tali interessi, è ancora lontana dall’essere inaugurata. I lavori attuali riguardano infatti la bonifica di spazi ex industriali che per molti decenni hanno ospitato attività produttive metallurgiche, con notevole impatto sull’ambiente, oltre che sulla sicurezza e la salute degli addetti e degli abitanti.
Il nostro tema è quindi inscritto direttamente nel manufatto e nelle stratificazioni archeologico-industriali del luogo, oltre che negli archivi e, i parte sempre più esigua, nella memoria culturale della comunità.
Ma, al di là del caso specifico, la cosa ci interessa per due motivi principali: l’uno di carattere tecnico, attinente la realizzazione delle sale del Museo, l’esposizione al pubblico dei reperti; l’altro, di natura culturale, concernente le idee e gli obiettivi a cui si rifà il Museo stesso.
Il primo aspetto rimanda ad una difficoltà ineludibile per ogni museo dedicato alla cultura materiale, e, in termini più stringenti, all’industria e alla tecnologia dell’età contemporanea. L’idea che abbiamo dell’arte e dell’industria, e correlativamente dei concetti di bellezza e valore, ci induce ad attribuire un valore in sé a ciò che è prodotto della creazione artistica e di negarlo, ai reperti della cultura materiale. Tale negazione, attenuata nel caso di oggetti prodotti artigianalmente o resi esteticamente fruibili dal design, permane assoluta per quanto riguarda l’industria e, a maggior ragione, le macchine e gli strumenti utilizzati per l’insieme delle merci prodotte con tecnologie industriali. In quest’ultimo caso i reperti, di per sé, non solo non hanno un valore ma neppure significato. Infatti nel caso di collezioni di carattere etnologico o folklorico, ovvero di raccolte contadine antecedenti la meccanizzazione, si può far leva su elementi di empatia o di attrazione-repulsione esotica e arcaicizzante; inoltre la comprensione dei reperti e del loro funzionamento è, in genere, alla portata di qualsiasi visitatore.
Nulla di tutto ciò nel caso delle collezioni di strumenti e oggetti industriali. Man mano che ci avviciniamo all’oggi, macchine e processi produttivi diventano incomprensibili e illeggibili, al di fuori della cerchia degli specialisti, con un tasso di obsolescenza crescente. È questa la sfida a cui debbono far fronte i musei dell’industria, per altro legittimati se non resi necessari da questo stesso fenomeno.
In questo senso il DASA di Dortmund ha molto da insegnare.
Lavoro, salute e sicurezza sono tre aspetti della civiltà industriale che il Museo si prefigge di tematizzare e “raccontare”, documentare e indagare, privilegiando la prospettiva storica, senza cadere nella vecchia trappola dell’unilinearismo e dell’ideologia del progresso.
Una premessa d’obbligo, da quando la realtà sociale si è fatta sempre più complessa e le sue trasformazioni sono diventate tanto più veloci quanto più imprevedibili. La previsione della fine della Storia, tutt’altro che nuova, sembra essersi avverata in forme paradossali: la storia si rinnova così rapidamente che lo stress è la malattia sociale più diffusa nelle aree metropolitane del XXI non meno che del XX secolo. Ma questo cambiamento incessante, che ha il suo motore nell’innovazione tecnologica e nella sua diffusione sociale segmentata e diseguale, non è decifrabile e tanto meno programmabile. Nell’età della sicurezza sociale l’incertezza sul futuro si diffonde presso ogni strato della popolazione, alimentando sia l’individualismo dei free-riders che il comunitarismo etnico-religioso.
La rinuncia a dare un senso alla storia, frutto casuale di una miriade di comportamenti dissonanti, ovvero campo dell’incontrastabile dominio della Tecnica, segnerebbe un completo ribaltamento dei presupposti e dei valori della cultura europea, e in definitiva la sua autoestinzione.
È possibile uscire dalle false alternative tra superficialità e apocalissi, progresso ridotto a crescita e fuga dalla realtà?
Noi sappiamo che del Passato conosciamo solo una pluralità di storia incessantemente revisionata, del Futuro solo una pluralità di possibili futuri. Ciò di cui abbiamo bisogno è la capacità di riconnettere passato-presente-futuro, senza affidarsi all’ideologia, senza arrendersi all’insensatezza del cambiamento in quanto tale.
La questione del lavoro, della salute e della sicurezza, è un banco di prova di grande interesse e valore euristico per provare a ridare un senso al cambiamento storico e un orizzonte al futuro.
Se passiamo da considerazioni generali, e apparentemente astratte, alla situazione concreta in cui si trovano le singole persone e i gruppi sociali, vediamo facilmente che il lavoro, la salute e la sicurezza sono il centro delle loro preoccupazioni, un centro profondo e nascosto da strati più o meno consistenti di protesi individuali e collettive, una preoccupazione che si manifesta solo nei momenti di crisi, che sono poi quelli attorno a cui si strutturano le esistenze individuali e i percorsi collettivi.
Nel contesto italiano la centralità del lavoro ha ricevuto addirittura una solenne sanzione costituzionale. Si potrebbe sostenere che ciò rifletteva la situazione politico-sociale di un’epoca tramontata da tempo, e che oggi è più importante l’attività imprenditoriale rispetto a quella lavorativa, con la conseguenza che lavoro, salute e sicurezza, debbano sottostare agli imperativi aziendali, come avveniva nel capitalismo industriale delle origini.
In realtà non si tratta di un puro ricorso ma di una profonda trasformazione storica, le cui principali ripercussioni sociali e culturali concernono, in primo luogo, il lavoro. È impossibile fornire anche solo un elenco esemplificativo dei cambiamenti intervenuti. Con la formula “la vita messa al lavoro” si cerca di indicare una dilatazione spazio-temporale che spezza i limiti regolativi su cui si reggeva il modello democratico-industriale affermatosi in Europa occidentale dopo la II guerra mondiale.
Siamo così entrati in un’era di insicurezza e incertezza in cui il mondo del lavoro si sta segmentando ed è attraversato dalla separazione inabilitante tra garantiti e non-garantiti. Tra chi è sicuro del proprio lavoro e pretende che lo siano anche la salute e la sicurezza in fabbrica, o addirittura, che sia salvaguardato l’ambiente in generale, e chi ha come orizzonte unicamente il degrado del lavoro, dell’ambiente, della propria esistenza, ridotta a “nuda vita”.
Queste tesi radicali vengono respinte da coloro che scorgono nella grande trasformazione, a cui hanno dato il via le tecnologie elettronico-informatiche, per poi investire ogni aspetto dell’attività umana, potenzialità inedita, e solo parzialmente sfruttata, per migliorare il lavoro e la vita, garantendo salute e sicurezza, come in nessuna precedente epoca storica.
Per certi versi si ripropone il dibattito di sempre sulla natura del lavoro: condanna e fatica, sfruttamento e alienazione, oppure attività creatrice e strumento di autorealizzazione. Ovvero liberazione attraverso il lavoro o, al contrario, liberazione dal lavoro? L’inarrestabile degrado del lavoro, non meno che il suo inevitabile miglioramento qualitativo, esprimono della filosofia della storia. Quel che ci serve sono piuttosto delle analisi storiche e sociologiche circostanziate sulle concrete trasformazioni del lavoro, soprattutto nell’arco degli ultimi quattro decenni.
È questo il terreno su cui il Museo di Brescia ha cominciato ad operare e su cui dovrà dimostrare la sua utilità. In una tale prospettiva la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro costituiscono una chiave interpretativa di grande efficacia, specie se coniugata con ricerche sulle trasformazioni nel rapporto tra strutture produttive e territorio. Partendo dalla salvaguardia e organizzazione delle fonti documentarie, il Museo ha fatto una scelta strategica, di lungo periodo, faticosa e rischiosa, ma necessaria.
Non c’è bisogno di sottolineare che siamo nel cuore di una delle questioni cruciali del tempo presente, dove si addensano conflitti di interesse e di valori. È vero altresì che senza una crescita culturale su questi terreni, una sorta di formazione permanente per giovani e adulti, la mera produzione di normative gira a vuoto e rincorre inutilmente il cambiamento. Lo stesso concetto di democrazia è chiamato in causa se il lavoro, la salute e la sicurezza non sono affare di tutti e di ognuno.
Nondimeno basta scorrere le cronache quotidiane per registrare lo iato tra il rilievo della cosa e la sua generale sottovalutazione, una sorta di fatalismo di fronte a costi, sofferenze e lutti, ritenuti inevitabili. C’è quindi un ritardo culturale che gli specialismi non possono colmare e di cui debbono farsi carico la società e la politica, anche con la creazione di strutture deputate alla divulgazione e alla formazione, possibilmente tentando di coinvolgere un pubblico sovraesposto a messaggi di altra natura, ma anche costretto a fare i conti con la realtà.