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Tutto il potere alla geografia

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Si potrebbe scrivere una storia dell’Italia elencando le perdite di vite, di ricchezza, di beni, conseguenti le frane e le alluvioni e la siccità, tutte ricorrenti, in tutte le parti d’Italia, con le stesse modalità e cause, tutte rapidamente dimenticate. Come anno zero può essere preso il 1951, l’anno della grande alluvione del Polesine provocata dal dissesto idrogeologico del lungo periodo fascista e di guerra durante il quale si è aggravato il taglio dei boschi, l’abbandono della montagna e della collina ed è venuta meno la manutenzione dei torrenti e dei fiumi.

In quell’anno del grande dolore nazionale, ci si rese conto che la ricostruzione dell’Italia avrebbe dovuto dare priorità alle opere di difesa del suolo; molte indagini e inchieste misero in evidenza la fragilità di molti corsi d’acqua, oltre al Po, in cui i detriti dell’erosione si erano depositati nell’alveo e avevano fatto diminuire la capacità ricettiva dei corpi idrici. Inoltre era già stata avviata una graduale occupazione e privatizzazione delle fertili zone golenali, originariamente appartenenti al demanio fluviale proprio perché ne fosse conservata, libera da ostacoli di edifici e strade, la fondamentale capacità di accoglimento delle acque fluviali in espansione nei periodi di intense piogge.

Il “miracolo economico” degli anni cinquanta e sessanta del Novecento è stato reso possibile dalla moltiplicazione di quartieri di abitazione, di fabbriche e di attività di agricoltura intensiva che richiedevano una crescente occupazione del territorio, nelle pianure e nelle valli. Nello stesso tempo l’intensa migrazione interna dalle zone più povere e dissestate del Mezzogiorno verso un Nord che prometteva lavoro in fabbrica e paesi e città più vivibili e con migliori servizi, ha lasciato vaste zone del Mezzogiorno e delle isole e delle montagne e colline esposte all’abbandono umano e esposte ad un crescente degrado del territorio e a una serie crescente di frane e alluvioni.

Per una nuova politica del territorio, per avviare serie iniziative di difesa del suolo non servì la frana di un pezzo del monte Toc nel bacino del Vajont, e i relativi duemila morti del 1963. E neanche la grande alluvione di Firenze e Venezia del 1966, un altro momento del grande dolore nazionale; anche allora fu riconosciuta, nel dissesto territoriale la causa prima della tragedia; fu istituita la Commissione De Marchi che riferì al Parlamento che occorrevano investimenti di diecimila miliardi di lire di allora in dieci anni per opere di difesa del suolo. Opere che non sono state fatte.

Nei decenni successivi la costruzione di edifici e strade ha continuato ad alterare, anzi in maniera accelerata, profondamente la superficie del suolo creando ostacoli al flusso delle acque; si è innescata una reazione a catena che ha fatto aumentare l’erosione del suolo, i detriti dell’erosione hanno invaso gli alvei dei fiumi e torrenti e, di conseguenza, è diminuita la capacità dei fiumi e torrenti e fossi di ricevere l’acqua, soprattutto a seguito di piogge più intense.

Nello stesso tempo si sta assistendo a modificazioni climatiche planetarie che alterano i cicli delle stagioni e delle piogge. Di conseguenza sempre più spesso, il territorio e la collettività italiani sono (e saranno) esposti a siccità e frane e alluvioni che distruggono edifici, strade, raccolti; sempre più spesso le comunità danneggiate richiedono la dichiarazione di stato di calamità, che significa che lo stato deve provvedere a risarcire i danni provocati da “calamità” considerate “naturali” ma che tali non sono: sono calamità dovute ad errori e imprevidenza umani: per evitarli la politica della “protezione civile” dovrebbe essere sostituita con una cultura della “prevenzione”.

Le frane e le alluvioni derivano in Italia da vari fattori, come è ben noto ai lettori di questa rivista. Dalle piogge, prima di tutto, che si alternano rapide ed intense in certi mesi e scarse in altri; ma come si può organizzare la prevenzione delle calamità se non si sa neanche esattamente quanto piove in una regione in un anno?

La velocità con cui le piogge scorrono nelle valli, sul fianco delle montagne e colline, e poi nei fiumi a fondovalle, la loro forza di erosione del suolo, dipendono dalla vegetazione: se il suolo è coperto di alberi e macchia spontanea, la “forza” contenuta nelle gocce d’acqua delle piogge si attenua cadendo sulle foglie e l’acqua scorre sul suolo abbastanza dolcemente. Se il suolo è nudo, la forza delle gocce d’acqua lo sgretola in particelle fini che rapidamente sono trascinate a valle e, quando il flusso di acqua è intenso, il ruscellamento si trasforma in un fiume di fango, quello che abbiamo visto tante volte nelle immagini delle alluvioni.

Se poi il flusso delle acque incontra ostacoli, edifici, muraglioni, il fiume di acqua e fango si rigonfia, cambia strada, si infiltra dovunque  e spazza via tutto. E di ostacoli le acque sul suolo italiano, in tutte le regioni, ne incontrano tanti: decisioni miopi ed errate e l’abusivismo edilizio, tollerato dalle autorità locali e addirittura incentivato con due devastanti “condoni”, hanno fatto moltiplicare sul fianco delle valli, addirittura nel greto dei fiumi, case, fabbriche, edifici, strade.

La “legge Galasso”, n. 431 del 1985 aveva indicato che non si sarebbe dovuto edificare nelle vicinanze del corso dei fiumi e sulle coste; nel 1989 è stata emanata una legge, la “centottantatre”, che stabiliva come rallentare ed evitare i disastri delle frane e delle alluvioni: La difesa del suolo e delle acque deve, indicava giustamente questa legge, essere organizzata per bacini idrografici, quelle ben precise unità geografiche ed ecologiche che comprendono le valli, gli affluenti, i fiumi principali, dalle sorgenti al mare. Poiché i confini dei bacini idrografici non coincidono con quelli delle regioni e delle province, per ciascun bacino idrografico deve essere istituita una autorità di bacino che deve redigere un “piano” per indicare dove devono essere fatti i rimboschimenti, dove devono essere vietate le costruzioni, deve devono essere fermate le cave o le discariche dei rifiuti, dove devono essere costruiti i depuratori. Al piano di ciascun bacino dovrebbero attenersi – lo voleva la legge, non sono ubbie di ecologisti – le autorità amministrative, i consorzi di bonifica, le comunità montane, gli enti acquedottistici.

Dopo la disastrosa alluvione di Sarno la legge 268 del 1998 ha richiesto che venissero indicate le zone a rischio di frane e alluvioni, da tenere sgombre da costruzioni; anche questo obbligo è stato disatteso e si è continuato a costruire, anche opere pubbliche, in zone dichiarate a rischio di frane e alluvioni.

È vero che le leggi sulle acque e sul suolo emanate nel corso degli ultimi quarant’anni hanno finito per rappresentare un aggregato di contraddizioni e che sarebbe stato auspicabile un testo unico, sulla base di un’operazione politica, e amministrativa, ma prima di tutto culturale, nella quale la geografia avrebbe dovuto avere un ruolo fondamentale. Nel febbraio 2006 il governo di centro-destra ha approvato un “testo unico” che, proprio per la mancanza di una adeguata base culturale e scientifica ha finito per stravolgere e vanificare i principi positivi di tutta la legislazione precedente.

I bacini idrogrfici sono stati aggregati in grandi unità, denominati “distretti idrografici”, un concetto privo di senso geografico ed ecologico. Si pensi che una sola “autorità” ha “potere” sopra il “distretto dell’Appennino centrale” che aggrega i bacini idrografici dal Magra al Reno al Musone; un’altra ha potere sul “distretto dell’Appennino centrale” che aggrega tutti i bacini idrografici dal Tevere al Sangro; l’autorità del “distretto idrografico dell’Appennino meridionale”  ha potere sui bacini idrografici dal Garigliano al Bradano, al Fortore, all’Ofanto, eccetera.

Il successivo governo di centro-sinistra dell’estate 2006 ha cominciati a mettere mano per aggiustare gli errori, politici e culturali, del testo unico, non solo nel campo dei bacini idrografici, ma anche per correggere le modifiche relative alla normativa sulla bonifica dei”siti inquinati”, cioè di quei pezzi di territorio su cui hanno operato, nei decenni passati, industrie che hanno lasciato nel sottosuolo residui tossici, o su cui sono stati scaricati e lasciati tali rifiuti. Grandi quantità di pubblico denaro sono destinati a tali “bonifiche”, ma come possono essere efficaci le “bonifiche”, se non si hanno chiare informazioni sulla storia di tali insediamenti e dei relativi processi produttivi, sulla “geografia dell’industria”? A ben guardare, tutto il potere è (dovrebbe essere) alla geografia.

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