Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Società umana e suolo

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I rapporti tra società umana e suolo si sono ispirati di recente soprattutto a due categorie di considerazioni: misure (in progetto o in atto) da prendere, nel quadro generale di una gestione ecologica della biosfera, per assicurare ai terreni agrariamente utilizzabili spazio sufficiente e trattamenti tecnici ritenuti razionali per la conservazione della fertilità, ossia degli equilibri biotici favorevoli alle colture praticate dall’uomo; condizioni di vita nella società da apprestare ai coltivatori della terra, tali da consentire a questi ultimi un’applicazione responsabile delle misure predette, eliminando quelle costrizioni e subordinazioni che avevano posto nei millenni passati il ceto agricolo in uno stato di inferiorità rispetto agli altri lavoratori, e pregiudicato con ciò la stessa sua efficienza produttiva. Godeste considerazioni, di ordine tecnico e sociale-economico, sono dettate fondamentalmente da finalità utilitarie, sul piano dei bisogni materiali-individuali, essendo emerso dalla constatazione della situazione esistente il danno profondo e reciproco cui si trova esposto oggi il rapporto tra suolo e società, in mancanza di iniziative orientale nel senso sopra indicato.
Potrebbe sembrare che essendo stati tracciati, e in qualche regione del mondo anche avviati alla realizzazione, gli indirizzi in questione abbiano a risolvere felicemente in avvenire il problema della convivenza innocua delle popolazioni col substrato vegetativo, dal quale esse traggono alimento, sempreché gli utenti non oltrepassino numericamente il carico sopportabile rispetto alla produttività potenziale della terra (la qual cosa presuppone un’oculata pianificazione familiare) e si decida di riformare adeguatamente le strutture della società attuale, che, ancora nella parte assolutamente prevalente delle nazioni, contrastano con la possibilità di procedere sulla via delle innovazioni indispensabili. Disgraziatamente, la soluzione proposta, e forse valida in termini logici, si regge su un’ipotesi piuttosto ingenua: che il comportamento umano, almeno in questo caso di dichiarata necessità, abbia ad ubbidire ai postulati della logica per il solo fatto che l’uomo è dotato di raziocinio e che la posta in gioco – la sopravvivenza delle generazioni future (e in alcune circostanze anche di quelle presenti) – è una ragione e uno stimolo sufficiente per impegnarsi nella direzione giusta. Di fatto invece il comportamento degli uomini è il più delle volte abulico o, meglio, è guidato da mille interessi personali diversi e più immediati, i quali per ogni singolo individuo rivestono una priorità assoluta rispetto ad una finalità pubblica, di cui anch’egli dovrebbe essere, tra gli altri, beneficiario, ma che gli si presenta remota, accessoria, talora addirittura lesiva di qualche suo privilegio già goduto o soltanto perseguito. Le riforme sociali, implicite nella soluzione prospettata, esigeranno certamente alcuni sacrifici e impegni supplementari da tutti, specie da coloro che finora hanno vissuto a spese della terra e di chi la coltivava, sfruttando l’una e gli altri unicamente a proprio vantaggio: per attuare simili riforme occorre la collaborazione di grandi masse della popolazione del globo, un atteggiamento fattivamente partecipe alle sorti del suolo, oltre ad una disponibilità assoluta alle rinunce necessarie e ai doveri nei riguardi non solo della propria discendenza anche lontana, ma pure della gente del tutto estranea; il coltivatore medesimo, per primo, dovrà sottostare a questi vincoli. Orbene, è realistico attendersi un comportamento volontario del genere dalla società contemporanea nel suo insieme, vuoi che essa sia retta da qualunque forma di economia di stato manageriale, vuoi che poggi sul capitalismo privato, sostenuto da un incalzante consumismo? A prescindere ovviamente dai persistenti nazionalismi in lotta, che sono altrettante barriere ad un comportamento concorde per un fine comune. Abbiamo detto comportamento volontario, poiché se dovesse mancare l’adesione spontanea e costante delle popolazioni alle misure da attuare e osservare, nessuna congerie di leggi, nessun regime costrittivo potrebbe evitare che le direttive più sagge fossero disattese: lo si vede già ora in un settore molto più modesto ma affine a quello considerato, la difesa dell’ambiente ecologico naturale, ad eludere la quale vengono trovati all’occorrenza innumeri pretesti da parte di chi detiene il potere o dispone di denaro.
E nemmeno pagando gli interessati (ma quali cifre occorrerebbero, e da che fonte andrebbero reperite, per tutti i coinvolti nella riforma?) si potrebbe indurii – se non eccezionalmente, e su scala trascurabile – ad agire onestamente per un fine utilitario generale futuro, qualora un fine altrettanto utilitario, ma personale e immediato, sollecitasse di trascurare il primo, pur percependo magari per quest’ultimo il pattuito compenso.
Ecco perché la terapia indispensabile degli aggressivi rapporti presenti col suolo non può contare su un comportamento comprensivo della società, facendo appello semplicemente ad un’esigenza sia pure vitale e utile virtualmente a ciascuno, sul piano materiale: su tale piano, la gerarchia delle finalità contempla sempre al primo posto, per l’uomo, l’utile già programmato per sé dall’individuo singolo, e se nel comportamento umano reale subentrano talora altri moventi – come ad esempio la solidarietà, se non altro per la cerchia ristretta della famiglia – si tratta palesemente di motivazioni che presuppongono una gerarchia di valori su un piano del tutto diverso, designato convenzionalmente come morale, quantunque il termine appaia scarsamente appropriato. Difatti, derivato da mores (costumi, usanze, comportamenti consueti), esso lascia totalmente in ombra l’origine di tali comportamenti e dei moventi non “materiali” ne utilitari per un profitto personale, atti a sovrapporsi – spesso in modo surrettizio e quasi inconscio – alla valutazione gerarchica delle finalità – o valori – condizionata dai bisogni del singolo individuo, e con questi spiegabile, epperò non confondibile col piano morale, come ancora Socrate ebbe ad avvertire, rilevando la differenza sostanziale tra utile e bene. Se dunque si vuole arrivare ad una modificazione radicale ed efficiente dei rapporti qui studiati, non basta di certo mettere in evidenza la razionalità operativa delle finalità utilitarie e dei mezzi per realizzarle, e l’appello va rivolto esplicitamente a moventi morali della società, gli unici che sono in grado di affievolire, se non di far tacere del tutto, nel comportamento umano le voci – sempre presenti – di interesse personale sul piano materiale, mettendo in moto impegni che trascendono questo piano, pur procurando su di esso gli effetti positivi desiderati.
Senza alcuna pretesa di chiarire tutti i complessi ingranaggi che intervengono nella manifestazione del comportamento, e dei quali con varia fortuna cercano di fornire un’immagine coerente sia la psicoanalisi, sia l’etologia, sia l’indagine filosofica, dalla storia dei rapporti tra suolo e uomo si possono trarre alcune indicazioni valide sugli stimoli suscettibili di guidare la società verso un atteggiamento di simbiosi mutualistica col terreno, sanando quella frattura con quest’ultimo, e con l’ambiente naturale nel suo complesso, di cui si vogliono risolutamente scongiurare le catastrofiche conseguenze, e che sta alla radice, infondo, a giudizio anche di non pochi pensatori contemporanei, della crisi culturale avvertibile nella fase presente più avanzata dell’evoluzione dell’umanità. Che di una crisi culturale si tratti non pare esservi dubbio, vuoi che la si ravvisi nel contrasto tra la civiltà agricola e quella industriale, vuoi che si risalga più indietro, all’antagonismo tra le cosiddette culture contadina e urbana o le civiltà del villaggio e della città. È una frattura che non ha fatto che approfondirsi col tempo, sin da quando la stratificazione della società, a partire da quella coltivatrice, anzi dalla fase dell’homo faber, ha sollecitato nuove forme di adattamento, richieste dalla fragilità costituzionale della specie umana e che si discostano profondamente da quelle proprie di altre specie viventi. Infatti, essendo sprovvisto – per natura – di strutture difensive organiche (morfo-fisiologiche) direttamente utili per la protezione contro una  moltitudine di fattori ambientali avversi, ma essendo dotato di un cervello eccezionalmente sviluppato (e di una corrispondente ampiezza del cranio) forse in dipendenza della sua statura eretta, l’uomo trova in questo suo sistema cerebrale il mezzo per un adattamento indiretto, attraverso i più vari modi di supplire alle facoltà che gli mancano mediante la creazione di un ambiente artificiale confacente alla specie, ovvero – come si esprime André Leroi-Gourhan – esteriorizzando in strumenti, tecniche, costruzioni, ecc., fino ai velivoli e ai calcolatori elettronici, le strutture difensive occorrenti, anziché sottostare – come le altre specie – a quell’evoluzione filetica dell’organismo per cui con la selezione naturale vengono a sopravvivere solo le forme perfettamente adatte alle condizioni preesistenti dell’habitat. Ne consegue ovviamente un allontanamento fisico progressivo dell’uomo dalla natura circostante, tanto più dirompente in quanto la natura stessa ne viene largamente alterata nelle sue caratteristiche ecologiche, compreso il suolo. Che ciò abbia comportato (secondo il ricordato autore) anche una contrapposizione e un distacco formidabili tra il corpo “esterno” di una civiltà con poteri quasi illimitati e il corpo biologico dell’uomo, il quale sarebbe rimasto al livello (non solo morfologico, ma pure intellettuale) raggiunto 40.000 anni addietro, può essere una bella immagine icastica per significare il divario tra quella creazione umana e il suo creatore: immagine peraltro non poco distorta rispetto alla realtà; non resta men   vero che oggi il corpo biologico dell’uomo si dimostra carente di adattamento non più soltanto alle condizioni naturali, bensì a quelle da lui medesimo edificate, tra cui l’accelerazione insopportabile di tutti i ritmi di azione, la compressione dei tempo e delle distanze, la vulnerabilità alle tossine industriali, la permeabilità alle radiazioni radioattive, ecc. La frattura riscontrata, dunque, non è solamente quella per allontanamento dall’ambiente naturale, ma altresì per insofferenza dell’ambiente artificialmente suscitato dalla civiltà. Non sembra contestabile che la società ne sia vittima al pari dell’individuo singolo, anche se la forbice tra i benefici progressivi dell’evoluzione sociale e quelli dell’evoluzione tecnologica (ben più ascendente) possa apparire meno larga della forbice tra i benefici di quest’ultima evoluzione e quelli ottenuti dall’individuo come tale: giacché dopo tutto la società è costituita di individui, e i disagi di costoro si ripercuotono per intero sulla società e non sono per nulla neutralizzati dai presunti maggiori benefici di quest’ultima.
Sta di fatto, comunque, che sia la frattura, sia i disagi da essa derivati – mentre operano sul piano materiale dell’esistenza umana, alterandone profondamente le condizioni di adattamento fisiologico e stravolgendo quindi le finalità del comportamento individuale e collettivo – mettono necessariamente in crisi anche le finalità e i valori del piano morale, data l’intima interazione tra i due piani nell’ambito del comportamento stesso (e per piani intendiamo facoltà e modi qualitativamente distinti di manifestazioni esistenziali). Che cosa significa codesta crisi nel caso specifico dell’allontanamento dalla terra, per il quale l’uomo, un tempo inserito armonicamente in una convivenza con la natura circostante (e, come sappiamo, esempi viventi di tale fase arcaica si riscontrano ancora saltuariamente), ha finito per smarrire, nella fase più avanzata di civilizzazione, il supporto di stimoli sul piano morale che garantivano la stabilità di simile rapporto non solo inoffensivo, ma anzi corroborante nello sviluppo comune? E quali sono questi stimoli?
Per formulare una risposta, conviene rendersi conto che il comportamento umano, anche quando segue i verdetti della ragione, prende le mosse anzitutto da un movente che sta al di là della ragione (si usa dire nel subcosciente o nell’istinto), e al quale la ragione cerca di dare una realizzazione coerente, coordinata (razionale) nel mondo oggettivo, senza poterlo contraddire o sopprimere, perché l’individuo se lo trova dentro in guisa di esigenza apodittica, come la fame o il bisogno di aria. Questi ultimi moventi appartengono palesemente al piano materiale e sono riconducibili (come tanti altri) a quello generale dianzi prospettato, e cioè alla quanto mai misteriosa sollecitazione di vivere sul predetto piano come organismo individuale, alla quale pertanto i biologi hanno conferito la qualifica di istinto di conservazione, e che possiamo anche identificare con lo stimolo – e il relativo processo – di individuazione (o differenziazione, diversificazione, oggettivazione) nella relazione di alterità con l’ambiente o col non-io, qualunque esso sia o si presenti nel corso evolutivo del vivente. È esso responsabile della lotta per l’esistenza, della competizione, della selezione naturale e di tutta quella creatività individuale che è rivolta alla sopravvivenza fisica, al prestigio e al benessere personali (comunque risentiti) di chi esercita la creatività medesima, cui pertanto si addice – al pari delle sue finalità – il termine di utilitaria per antonomasia; la funzione dell’adattamento è pure intesa alla salvaguardia dell’individualità, e così le convenzioni e i compromessi sociali che consentono (e fino a quando lo consentono) il benessere e lo spazio vitale dell’individuo in un consorzio umano.
Di carattere antitetico (anche se non necessariamente contrastante) sono i moventi sul piano morale, al quale peraltro spetterebbe più propriamente la definizione di “spirituale”, in quanto contrapposta nel linguaggio corrente al concetto di “materiale” (s’intende che i due termini servono solo a indicare intuitivamente la distinzione fra i relativi piani, senza voler inferire qui in alcun modo sui possibili significati o realtà, cui corrisponde la parola “spirito”): la contrapposizione consiste nel fatto che il relativo stimolo (o istinto?) – altrettanto imperativo quanto il precedente, e ugualmente misterioso nella sua generazione – è impossibilitato a realizzarsi pienamente sul piano materiale, proprio perché impedito in ciò dalla barriera costituita dalla separazione organica tra i singoli individui, nonché tra questi e il mondo intorno, quale risultato concreto dell’individuazione: infatti, rispetto a quest’ultima, lo stimolo specifico del piano spirituale possiede una tensione sotto un certo aspetto inversa, anche se non incompatibile, appunto perché esplicantesi su un piano distinto, ma compresente nell’essere umano: è la tensione verso un’intima partecipazione all’altro da sé, di compenetrazione del fenomeno vitale generale, di presenza funzionale in esso come cellula di un organismo cosmico e non già come un’entità alienata in un ammasso caotico di esseri;  un’esigenza, insomma, di un rapporto armonico con l’universo, di una immedesimazione integrale nella sua struttura, alla quale – pur senza conoscerla – l’individuo sa di dover appartenere, per cui l’istinto relativo (e il processo che ne discende) a giusto titolo si possono chiamare di integrazione. A tale istinto e alla sua incidenza sul comportamento umano ben poco si fa caso di solito: i biologi non hanno nulla da dire in proposito, perché – non potendosi manifestare se non indirettamente sul piano materiale – l’istinto stesso sfugge alla loro visuale, che contempla solo i meccanismi non materializzati della vita; la psicologia, pur derivando il proprio nome da un concetto “spirituale” (anima), cerca di dirimere la logica dei comportamenti riferendola sempre alla costituzione organica, e cioè al piano materiale di individuazione, sul quale si ritrovano inestricabilmente  frammisti sia i moventi di quel piano, sia le manifestazioni indirette dell’istinto di integrazione, attribuite perciò di regola a stimoli e finalità dell’organismo biotico materialmente individualizzato. Eppure a  noi qui importano queste manifestazioni di aspirazione universale – come solidarietà, compassione, onestà, fedeltà, ecc. – ma quanto suscettibili di sottrarre gli individui al loro isolamento alienante e saldarli nuovamente all’ambiente, e in particolare al suolo, accomunando le singole esistenze in un afflato che le trascende sul piano spirituale. È ben vero che le manifestazioni in parola si presta»io a facile confusione con quelle pertinenti al piano materiale, perché per entrambe le categorie il linguaggio adopera spesso identiche designazioni; ma la distinzione emerge luminosamente non appena si analizzano le intenzioni di ciascuna, ossia i moventi e i piani da cui esse provengono: la solidarietà, la fedeltà possono essere professate a fin di utile personale e cadere in frantumi se cessa questa utilità; non si tratta dunque in tal caso dello stimolo di integrazione, che ne dovrebbe essere l’ispiratore e che governa i valori dell’etica.
Questo stimolo coesiste normalmente con quello di individuazione, ed è con esso competitivo, influendo sul comportamento in modi assai eterogenei e con varia intensità, tanto che sembra talora del tutto eclissato dall’istinto di conservazione individuale, senza apparente disturbo alle funzioni biologiche o mentali; tale dissociazione tuttavia dei due moventi congeniti, esasperando la funzione di isolamento dell’individuo e vanificando la tensione integrante (che rimane priva di senso o di finalità sul piano spirituale), non solo rende inevitabile la rottura del rapporto armonico col cosmo intorno, ma provoca nella stessa unità costituzionale dell’essere umano una scissione insopportabile di intenti, per cui quelli avvertibili sul piano spirituale, ridotto ad una atrofia o inattività obbligata (da scelte volontarie o imposte), si trovano frustrati e sterili di fronte a un nulla senza fondo che ne vieta la manifestazione: affacciato su questo nulla, l’istinto medesimo di individuazione (diversificazione) diventa superfluo e inconsistente. Non a caso Ernesto De Martino parla in proposito di “schizofrenia individuale”, curabile unicamente con la reintegrazione nel mondo, attraverso il ristabilimento del rapporto interrotto e la consapevolezza della propria appartenenza all’ordine messo in crisi. È ben questa la situazione della civiltà odierna nella sua fase più avanzata; la soverchiante preoccupazione per la difesa dell’individuo sul piano materiale, nella ricerca di un adattamento totalmente avulso dalla natura, ha finito per assorbire ogni energia creativa, convogliandola in tale direzione, con la speranza – dimostratasi illusoria – che la vittoria nella competizione col mondo esterno riservi all’uomo il massimo di benessere in realtà, una volta soffocata l’espansione dello stimolo di integrazione, e nonostante tutte le vittorie, non solo nuovi ostacoli sono sorti sul cammino intrapreso, ma un conflitto più radicale si è insediato all’interno dell’individuo, cui pesano la scissione sopra illustrata, l’inerzia di una potenzialità trascendentale costretta al silenzio ma ineliminabile e insofferente della repressione, nonché la coscienza maturata lentamente nel contempo che nessun appagamento v’è da attendersi dal benessere sul piano materiale e ristretto alla propria persona, ove non gli venga anteposto un rinnovato contratto integrante con l’universo, quale è proprio del piano spirituale. Un contatto paragonabile all’eros dell’Assoluto, che si diffonde in ogni esistente, assumendovi pertanto l’individuo una responsabilità (in quanto partecipazione) dell’intero esistere, e con ciò realizzando forse la finalità più recondita e suprema dell’essere umano.
Codeste constatazioni, quantunque del tutto empiriche ed estremamente schematiche, permettono di interpretare con maggiore fondamento i moventi specifici della società e del suo comportamento, nel corso della storia, per quel che si riflette in particolare sui rapporti col suolo. È pacifico che questi rapporti, in se stessi, hanno uno scopo prettamente utilitario, essendo promossi dall’istinto di conservazione dell’uomo sul piano materiale; e se nell’agricoltura primitiva essi mantengono le caratteristiche di una simbiosi mutualistica, ciò si deve a due condizioni, indipendenti inizialmente dalla volontà umana: i mezzi tecnici rudimentali di coltivazione, il cui debole intervento perturbatore negli equilibri naturali del terreno riesce ad essere neutralizzato e talora volto a vantaggio di tali equilibri con accorgimenti colturali elementari, che derivano la loro efficacia dalla natura medesima (riposi, adacquamenti, concimazioni organiche, ecc.); la scarsità delle popolazioni e delle bocche da sfamare, che circoscrive ad un’entità assai ristretta in assoluto l’area degli insediamenti agricoli (alquanto maggiore è quella interessata successivamente alla pastorizia, utilizzazione peraltro in origine del tutto consona agli equilibri naturali), anche se tali insediamenti investono terreni facilmente vulnerabili della fascia subarida. D’altra parte, con la divisione del lavoro e la differenziazione delle attività in seno alla comunità coltivatrice, e soprattutto con la stratificazione della società nelle città-stato che da quella comunità vengono a proliferare, pure la simbiosi spontanea anzidetta tende a deteriorarsi, vuoi per l’accresciuta pressione demografica locale, vuoi soprattutto per il sopravvento dell’intenzione speculativa (per scambio di  beni o servizi) nell’ottenere i prodotti della terra, ricavati precedentemente per esclusiva necessità fisiologica del coltivatore: d’ora in poi lo sfruttamento del suolo verrà vieppiù intensificato ai fini utilitari, aumentando i rischi e le occasioni di degradare il livello di fertilità, ma anche suscitando la ricerca di procedimenti colturali che abbiano ad esaltare la produttività dei seminativi. Il rapporto col terreno si stabilizza su questa situazione precaria fino ai giorni nostri, ora valorizzando enormemente le risorse potenziali del suolo, ora portando questo alla desertificazione, a seconda dello sviluppo tecnologico, economico e politico della società, e minaccia adesso – con l’incremento eccessivo della popolazione del globo – di rivelarsi inefficiente, anche nella migliore ipotesi che in sede scientifica siano stati perfettamente definiti i metodi e i sistemi più razionali di trattare il substrato vegetativo nei singoli ambienti ecologici. Giacché il rapporto medesimo si regge sempre su moventi che hanno di mira il benefìcio individuale e materiale, e la gerarchia delle finalità e dei valori umani è dunque, su questo piano, eminentemente soggettiva, solo in circostanze contingenti potendo diventare comune a gruppi più o meno consistenti di persone con interessi affini. Non è pertanto fra cedesti valori che è sperabile trovare la leva per un comportamento proficuo della società in detto rapporto, che va orientato invece ad una finalità universalmente valida, quale quella di mantenere in vita un suolo fertile per una fruizione essenziale e opportunamente parsimoniosa da parte di tutti gli appartenenti alla nostra specie, di oggi e di domani. Se esistono valori confacenti all’uopo, essi possono essere rintracciati soltanto tra le manifestazioni indirette dell’istinto di integrazione, variamente operanti o latenti nella civiltà avanzata contemporanea, patrimonio culturale di imprecisati millenni di evoluzione dell’umanità.
Questo patrimonio culturale ha subito nel corso del tempo un incontestabile arricchimento di aperture verso i valori etici che rappresentano più esplicitamente le finalità della tensione integrante dell’uomo (anche se pure l’estetica partecipa a tale tensione), assumendo modi diversi di espressione nelle varie fasi di sviluppo e nelle formazioni etniche differenti, ma – quel che importa – manifestando nella sostanza moventi sicuramente identici e intenti uguali, tali da far ritenere che sul piano spirituale sia possibile suscitare una convergenza di impegni fra gli innumeri individui, per una creatività imperniata sull’abnegazione personale a favore di una meta che è dono di sé ad altri (anche sul piano materiale) e mezzo per attingere indirettamente, ma non illusoriamente, la fusione col Tutto. La enucleazione e la formulazione dei valori etici in parola hanno alimentato il travaglio di filosofie, religioni e indagini per la conoscenza scientifica del mondo, di meditazioni intorno alla natura delle cose, il cui scopo era ancora quello di penetrare nell’essenza dell’esistente e vivere in una più consapevole e cosciente comunione e armonia con esso; ogni cultura ha ricevuto l’impronta di questo travaglio, spesso ne è stata caratterizzata, per cui sotto tale aspetto la storia è sommamente feconda di insegnamento e meriterebbe una trattazione circostanziata. Qui non possiamo che limitarci ad alcune annotazioni maggiormente attinenti al nostro argomento, soprattutto per quel che riguarda il comportamento interno alla società, in quanto condizionante i rapporti col suolo: e ciò nel presupposto dianzi messo in evidenza che un ripensamento così orientato sia decisamente necessario per porre rimedio alle fratture denunciate dalla civiltà più avanzata non solo con l’ambiente naturale, ma anche all’interno dello stesso individuo.
Il primo risveglio della coscienza etica sembra doversi connettere (ed è una connessione significativa) con lo stesso processo di individuazione: nei gruppi umani tuttora ai gradini iniziali di civiltà, i cui modi di sussistenza non conoscono che la caccia e la colletta, è già attivo l’amore dei genitori per i figli piccoli, non estraneo certo neppure ad altri animali (quasi imposto dall’istinto di conservazione), eppure già trascendente gli autori della prole: attribuire tale istinto ad un immaginario ente-specie è una delle tipiche aberrazioni del razionalismo superficiale. Il legame del sangue opera da catalizzatore per far albeggiare nella famiglia e poi nella tribù la percezione della solidarietà di gruppo, scintilla che anticipa l’integrazione concettuale dell’individuo nella totalità dei suoi simili: da qui un giorno si aprirà il passo verso una solidarietà universale. Di nuovo, è temerario voler far sorgere la solidarietà dalla comprensione dell’utilità dell’associazione: questa è frutto tardivo di ragionamento e di esperienza, quella un movente spontaneo e originario, cui si è più o meno sensibili, ma che può essere solo intuito come voce del subcosciente, non attivato con la persuasione logica. Solidarietà significa molte cose: significa anche compassione; la compassione per un sofferente totalmente estraneo, anzi per un nemico colpito, si riscontra pur essa presso i cosiddetti “selvaggi”, e soprattutto nella donna, forse perché la donna sin dai primordi vive il dolore più intimamente e visceralmente del maschio, anzitutto già nel parto e nella successiva frequente perdita dei figli, e poi nella cura dei malati di tutte le età, affidati da sempre a lei come suo compito naturale, e ancora nell’opprimente e talora duro lavoro quotidiano volentieri lasciato a lei dal capofamiglia, non di rado dispotico e manesco, oltre che più libero di trovare distrazioni in passatempi di sua scelta. La compassione che si concreta in azioni di soccorso e di conforto verso chi patisce è una scorciatoia insuperabile, anzi la via maestra, per amalgamarsi all’altro da sé, dimenticando il proprio io, fino al sacrificio: “Nessuno ha carità più grande che quella di chi da la sua vita per i suoi amici” (Giov., XV, 13); e che per amico s’intenda qualunque estraneo caduto nel bisogno, lo chiarisce la stessa fonte. Ne alla sola carità o compassione (pietà, misericordia, umanità) spiana la via il dolore: esso, quando non annienta, crea, perché stimola il superamento della crisi, la ricerca di lenimenti per uno stato disarmonico, in cui un equilibrio vitale si è incrinato o rotto, un’acuta esigenza è sorta di una nuova dimensione esistenziale. L’evoluzione dell’individuo sul piano spirituale, la stessa scoperta dei valori etici, sono grandemente potenziate dall’esperienza del dolore, così come a quest’ultima si devono tanti progressi umani pure sul piano materiale. Tra i valori etici, la solidarietà postula infine l’onestà e la fedeltà, la prima come coerenza al vero nella comunione, la seconda come impegno soggettivo permanente in questa coerenza; a ben vedere, tutti cedesti “principi”, sentiti come bene assoluto che accompagna l’istinto di integrazione, ma seguiti dall’individuo per libera scelta e decisione della volontà (appunto quali finalità fondamentali del comportamento), delimitano da una parte il giusto dall’ingiusto ed esigono dall’altra che sia assicurata la libertà nel perseguire il giusto, ma vincolano categoricamente questa libertà all’osservanza dei principi medesimi: solo in tal senso la libertà può assurgere a valore etico.
Simili nozioni, variamente definite dalle molteplici scuole di pensiero, operano come stimoli, prima di diventare concetti, nelle culture più antiche o arretrate, trovando una collocazione più o meno elevata nella gerarchia dei valori umani a seconda della prevalenza di determinati atteggiamenti nella massa degli individui, valori non sempre rispondenti a quanto assimilato personalmente dai più sensibili al richiamo di integrazione, od anche a quanto formalmente professato in conformità a tale richiamo dalle guide della società. Una prima codificazione dei valori etici avviene di norma nelle religioni, che mettono in evidenza il dominio ontologico di una vita universale su quella individuale e cercano di interpretarne il significato per il comportamento umano che sia in armonia con le direttive di quel potere misterioso e trascendente. Si crede correntemente che le religioni nascano dal terrore dell’Ignoto (tutte le forze della natura vi sono comprese, in quanto ne sono sconosciute le leggi sul piano materiale), ma è un modo sbrigativo di considerare un aspetto particolare della manifestazione religiosa, collegato soprattutto col fenomeno della morte, inaccettabile al vivente e all’istinto di conservazione individuale, e che pertanto va comunque esorcizzato. In realtà il contrassegno peculiare della religiosità, se pur implica l’Ignoto, si configura proprio nella contemplazione e adesione intenzionale al cosmo infinito, e perciò inconoscibile all’essere finito singolo, anche se questi gli appartiene interamente nella propria sostanza; pertanto, il rapporto che ne deriva non può che essere di reciproca benevolenza (eros divino), primissimo supporto (e forse causa) dell’esistenza e, ove vi si mescoli un senso di terrore, è “terrore sacro” di fronte all’Incommensurabile e Ineffabile. Quest’ultimo nelle mitologie assume generalmente le sembianze di un’energia cosmica eterna e provvidenziale – il Sole nei miti solari, prevalenti – attorniata da altre personificazioni di forze naturali o da enti depositari di tali forze (anche animali, alberi, ecc.), che appaiono rispettivamente di maggiore importanza in una data società. In questo quadro s’inserisce pure la primigenia civiltà del villaggio, sulla quale ci preme, per ragioni evidenti, accentrare adesso il discorso.
Si pensi solo che in seno a tale civiltà si forma la cultura contadina, destinata a impregnare di sé per millenni il consorzio umano, la cui attività principalissima – anche nei territori che un giorno accoglieranno la fase più avanzata dello sviluppo della specie – consisterà nella coltivazione della terra. Quando oggi si parla di cultura contadina, ci si riferisce di solito a modelli sopravvissuti in mezzo alla civiltà industriale, profondamente degenerati rispetto all’effigie genuina in seguito all’atavica oppressione economica, giuridica e fisica di generazioni di lavoratori dei campi e alla loro corruzione, in ultimo, per la contaminazione con i peggiori rigurgiti di una società da tempo urbanizzata e imperante in ogni settore dell’organizzazione civile; si giunge così non solo a qualificare la cultura contadina di antiquata, rozza e refrattaria a ogni utile innovazione, ma ad attribuirle – come congeniti – tutti i tratti negativi che le si sono sovrapposti dietro il costante accanimento contro di essa dei ceti cittadini, i quali per contro si ritengono depositari esclusivi di ogni futura evoluzione sociale progressista. Se quest’ultima opinione può essere scusabile, data la presente infatuazione col tecnicismo, assurto a criterio di giudizio culturale, vale la pena di ricordare che due secoli di conquiste tecnologiche quanto si voglia mirabolanti non sono gli unici valori da considerare nei giudizi del genere, e che proponendosi dei confronti con la cultura contadina non sarebbe fuori luogo riferirsi almeno a quella delle plaghe rurali tipiche, più lontane dai contatti con le città, della quale sussistono ancora non pochi esempi nei continenti extraeuropei, non rari neanche in Europa fino all’inizio del ventesimo secolo nelle zone più isolate (come la montagna); e ciò a prescindere dalle testimonianze esuberanti sull’argomento disseminate negli scritti di osservatori della più diversa estrazione e di ogni epoca, da cui deriva della cultura contadina un’immagine tanto denigratoria.
Ma torniamo alla civiltà del villaggio e al suo probabile contributo all’elaborazione dei valori etici, di cui siamo alla ricerca e che si sono detti scaturire da un atteggiamento religioso nel rapporto con la natura. Se la suddetta civiltà eredita tale atteggiamento da quella precedente, vagante e frammentaria (e testimonianze oltremodo ricche di contenuto ci vengono pure dagli odierni indiani Hopi, Mohawk e altri delle cosiddette “riserve” del Nord America), esso si approfondisce necessariamente nella nuova, sedentaria, coltivatrice e perciò atta a sentire un legame quasi “placentare” con la terra-nutrice, la quale non tarda a identificarsi in una divinità femminile – la Grande Madre, Cibele, Iside, Gea, Demetra, Cerere del mondo mediterraneo – personificazione della terra protettrice delle messi ed elargitrice di frutti. Al ciclo della vegetazione che le appartiene si annodano i miti agricoli di morte e resurrezione, estesi poi per analogia alla sorte umana e rievocati nei riti della sepoltura: e qui siamo già in piena manifestazione mistica dell’istinto di integrazione. Ne poteva essere diversamente: la quotidiana consuetudine con piante, animali e suolo, la quale ne segue con apprensione, nella campagna solitaria, le vicende vitali ubbidendo ad uno stimolo di utilità materiale, introduce l’uomo nel mistero esistenziale degli esseri, tanto simile al suo proprio da assorbire quest’ultimo in un destino comune ad entrambi; in esso, nonostante la legge del mondo organico di “vivere sul vivente”, non si è più antagonisti, bensì “consanguinei” con quello che ci nutre, e tale “parentela” – come quella della famiglia – ingenera una solidarietà affettiva, ben nota alla cultura contadina, la quale – sempre avversa a procurare una morte non indispensabile – inventa riti espiatori per quelle che non può evitare per il sostentamento del coltivatore. La stessa “parentela” fa sì che un appezzamento curato ininterrottamente per generazioni diventa la ragione di vita di chi lo lavora, capovolgendosi con apparente irrazionalità le parti dello sfruttato e dello sfruttatore e venendo a trovarsi al posto del primo l’uomo anziché il terreno: è questo attaccamento che da un lato spiega il passaggio da una iniziale simbiosi spontaneamente innocua ad una simbiosi mutualistica cosciente e miglioratrice, fino a quando le condizioni sociali lo consentono; e che, d’altro canto, giustifica l’aspirazione di ogni contadino al possesso continuativo dell’appezzamento coltivato – non già alla proprietà giuridica, alla facoltà di disporre per affittare, vendere o abbandonare (diritti formali che gli sono estranei) – giacché lui stesso appartiene al suolo, e un distacco da esso equivale all’annientamento. È lui il fecondatore obbligato della terra-madre, e il piantamento, o la semina, sono chiari atri di fecondazione, data anche la similitudine tra il piolo (o il bastone da scavo) e il fallo, il solco e rispettivamente il ricettacolo della semenza; tanto che da questa fecondazione si imprestano perfino – con curiosa inversione di termini – le designazioni per quella umana, come “lavorare l’orto, la vigna” (per congiungersi maritalmente), “seme”, “frutto”, ecc., trasferite allusivamente dal regno vegetale.
Così, la sacralità della famiglia, da tempo acquisita ed estesa agli antenati – Mani e Lari partecipi di una vita immortale -, è la medesima di cui si riveste il lavoro della terra, i cui procedimenti, arnesi e altri mezzi, come le stesse sementi delle piante più preziose, sono doni ricevuti dalla divinità o dai suoi inviati. La civiltà del villaggio, insomma, è immersa nel sacrale o numinoso, che sta all’apice dei suoi valori etici e presiede al comportamento con assoluta priorità, per cui nessuna operazione di lavoro e nessun passo nell’esistenza quotidiana vengono compiuti senza un rito propiziatorio, rivolto al potere trascendentale onnipresente; ma questa stessa vicinanza col trascendente – nella pietas che si ritrova tal quale nella cultura contadina dopo che le divinità terrestri o solari vengono sostituite dal cristianesimo (o da altre religioni più evolute) – fa associare, nell’atteggiamento religioso, alla profonda devozione ad una “realtà superiore” un senso di dimestichezza e, appunto, di parentela col divino, che rende appagata (epperò persistente) la tensione all’integrazione sul piano spirituale, e accettabile financo la morte fisica, come evento inerente e introduttivo ad una vita più integrata. Nel comportamento così strutturato sul culto e sui riti, inviolabili come lo sono le vincolanti “leggi” della natura, il codice morale degli uomini – che fa capo alla solidarietà disinteressata fra tutto l’esistente – è altrettanto solido – ed efficiente; e se coincide di norma con l’utile individuale, non per questo gli è assoggettato, ne vi si confonde nei moventi, ancorché abbia a contemplare doveri e impegni rivolti all’utilità generale della società, del vivente, ecc.: questa, opinabile e discutibile a seconda delle circostanze; quelli, validi sempre, incondizionatamente; la prima valutata da un ragionamento razionale, ma consapevole e osservante di eventuali preclusioni etiche coinvolte; i secondi ubbidienti al solo stimolo di integrazione. Il rapporto col suolo non sfugge a questa regola ed è perciò circondato dal massimo rispetto, che sarebbe del tutto erroneo attribuire alle sole esigenze alimentari del coltivatore e alle sue più o meno soddisfacenti conoscenze tecniche: vi è sottesa la (“segreta ansia di compiere una funzione quasi biologica (e perciò impersonale) per cui il terreno diventi fecondo nella misura più elevata delle sue potenzialità, giacché la sua vita come coltivo non raggiungerebbe altrimenti la pienezza prevista dalla natura; un’incuria in tal senso dissocia l’uomo dalla corrente vivificante della natura e dalle leggi di questa (nella quale al contrario egli vuoi essere integrato), rasenta un’apostasia dal divino che la governa. Ecco il valore etico che vieta ogni abuso della terra.
Il comportamento così delineato è appena una traccia interpretativa di quanto la civiltà del villaggio è in grado d’insegnare ai propri membri, sia pure con vario profitto, come capita del resto per ogni insegnamento; ne scaturiranno poi i precetti orali trasmessi dall’ordine sacerdotale e condensati in seguito nei testi sacri – dai Veda al Libro dei Morti e al Decalogo – e che i coltivatori si porteranno dietro, quando andranno a fondare e a popolare le prime città. Ma al di là dei precetti, il comportamento contadino si carica di tanti altri valori singolari che passano a incorporarsi nell’etica e si stampano nelle fiabe, nei proverbi e nei detti, ripetuti da aedi e cantastorie: dalla trascendenza insindacabile della natura divinizzata discende l’accettazione dei limiti della iniziativa umana da essa natura dominata, l’infinita pazienza e in ultimo un’ombra di fatalismo, cui però non cede il dovere del lavoro; e questo dovere, adempiuto con impegno e serietà, è a sua volta sostenuto dalla sua sacralità, che non consente alcuna rinuncia finale, ne inerzia disperata. L’attaccamento al lembo di terra lavorato si espande alla fedeltà al luogo abitato e alla sua gente, fedeltà che rifiuta la facile fuga verso lidi migliori, ma può diventare anche campanilismo; oppure si sublima in amor patrio, ma è suscettibile di risolversi in nazionalismo gretto e in xenofobia, quantunque il fanatismo di rado l’accompagni, mentre accogliente è quasi sempre l’ospitalità allo straniero. Questa è dettata anzitutto dalla solidarietà primeggiante tra gli esseri, ma anche dall’inestinguibile aspirazione alla pace, in quanto l’accoglienza amichevole deve prevenire o estinguere ogni intenzione ostile; la pace infatti è l’arra dell’integrazione (oltre che una condizione pregiudiziale per l’esercizio dell’agricoltura) e va propiziata con atti che ne siano il simbolo. Fra tali atti è compresa, tra l’altro, l’offerta di doni, i quali – oltre a possedere un proprio “spirito”, come tutte le cose – trasferiscono al ricevente una parte dello spirito del donatore e del suo focolare, in segno di comunione, per cui vanno ricambiati con valori equivalenti, pena conseguenze nefaste a chi accetta il dono: così ancor oggi tra i Maori (M. Mauss) e nelle popolazioni primitive dell’India. Da detta consuetudine avrebbero preso l’avvio tra gruppi sociali e popoli, secondo Marshall Sahiins, l’iniziale circolazione della ricchezza e l’economia di scambio, ormai sganciate completamente dal significato simbolico originario; quest’ultimo si è conservato invece fino al ventesimo secolo nelle comunità contadine dell’Est europeo, con l’usanza di offrire “pane e sale” all’arrivo del proprietario del latifondo, come pegno di rapporti cordiali (o invocazione di pace), in cui al potere coercitivo del dono si univa il simulacro dell’ospitalità che rende amico il commensale. Non meno pregnante di paradigmi di retta condotta è il nucleo familiare: se la famiglia è l’espressione tangibile della universale continuità della vita, essa va circondata da cure non sopprimibili e ben ordinate, e da obblighi gerarchici rigidi, la cui inosservanza è un’offesa alla divinità che della vita è dispensatrice; e così pure la morte, che fa parte della vita come ciclico trapasso in un’esistenza diversa, dev’essere pacata e ben ordinata anch’essa, in seno alla famiglia: è quest’ultima dopo tutto il primo e vero baluardo dei valori etici, ai quali essa educa i figli, inculcando in essi non solo una tradizione culturale non scritta, ma insieme i fondamenti dei rapporti sociali ispirati alla solidarietà, alla non-violenza e all’onestà, che infondono sicurezza e coraggio, perché radicate nell’essenza metafisica del cosmo.
Si è soliti tacciare volentieri il contadino di “conservatore” per la sua riluttanza ad accettare rapidamente sia innovazioni ritenute profittevoli per il suo lavoro, sia concezioni e vedute più aggiornate sul modo di vivere, elaborate da una cultura diversa dalla sua, meno elementare e maggiormente informata e critica, oltre che differenziata negli interessi e nelle attività; ma – per quel che riguarda le tecniche del mestiere – il coltivatore è troppo conscio dei lenti ritmi vitali della natura che regolano la produzione dei campi, per essere disposto a rischiarne la manomissione con novità strumentali, senza una previa lunga e ponderata osservazione di tutti i loro possibili effetti per parecchi cicli colturali: giacché un estemporaneo intervento errato può significare la perdita del raccolto, magari dopo alcuni anni di promettenti successi, laddove i procedimenti tradizionali, affinati da generazioni nei più minuti particolari, sono ormai fedeli nel procacciarsi una messe sia pure modesta ma più o meno costante nelle date condizioni ambientali. Quanto alle norme di vita, perché mai il coltivatore dovrebbe cambiarle? Esse sono frutto di un equilibrio armonico in seno alla eterna matrice naturale circostante, alla cui sacralità imperscrutabile sono ispirate tutte le opere quotidiane, e che sarebbe un’ingratitudine meritevole di castigo barattare per ideologie mutevoli e transeunti, ancor più incomprensibili dell’ormai familiare e in qualche modo rassicurante mistero del creato.
Fra tante sue incognite, è chiaro almeno il compito dell’uomo sulla terra, la risposta essenziale alla domanda “perché si vive?”: il lavoro del coltivatore, se risponde all’istinto di conservazione sul piano materiale, integra l’individuo nel Tutto per vie affettive nella trascendente partecipazione spirituale, e questa saggezza acquisita per esperienza nel faticoso impegno giornaliero è un bene interiore certissimo che va gelosamente conservato e non può venir rinnegato per le incerte affermazioni ipoteticamente dedotte dalle estremamente parziali conoscenze razionali. È lecito dunque considerare, nella cultura contadina, la “conservazione” come una deformazione professionale, ma ciò non toglie che essa procuri al coltivatore un margine di reale felicità e appagamento, e in tal modo contribuisca tra l’altro anche alla conservazione del suolo, oggetto primo del nostro discorso. Purtroppo “tale deformazione” ha facilitato in ogni epoca lo sfruttamento del ceto rurale da parte di una società più evoluta e meno sensibile alle “superstiziose” remore di un’etica nata dalla gleba: se il contadino era refrattario all’abbandono del suo livello di civiltà, in fondo tanto più comodo era governarlo da un livello più alto e defraudarlo di buona parte dei suoi proventi; non per nulla ripetutamente si è sentita nella storia, e perfino nell’Ottocento, la sentenziosa opinione che i contadini è meglio lasciarli nella loro ignoranza, perché così non avrebbero preteso di condividere i benefici accessibili alle classi superiori. Proprio al trattamento riservato da queste classi al ceto rurale è dovuta la successiva degradazione della cultura contadina, la quale incorporò comportamenti ora ad essa imputati come se fossero congeniti al lavoratore della terra: le spoliazioni e la miseria suscitarono l’avidità del guadagno, la taccagneria, il furto; l’oppressione obbligò alla diffidenza, alle furberie e ad un’umiltà fittizia davanti ai potenti, come modo di mimetizzarsi, e all’omertà fra compaesani, come modo di difesa (la mafia stessa sembra essere germogliata sotto tale spinta); l’arbitrio, la violenza e la frequente crudeltà dei padroni, specie in regimi di schiavitù o di servitù della gleba, si trasmisero non di rado alle vittime, nei loro rapporti con i familiari e con gli ammali, quando non provocò invece feroci ribellioni contro gli aguzzini, domate di solito con altrettanta ferocia; ed è un miracolo arcano che in tante angustie il coltivatore non abbia perso del tutto il senso di dignità umana, il quale quasi sempre traspare in chi trae dalla terra il suo nutrimento: forse per virtù di un oscuro ricordo di quei valori etici che la genuina cultura contadina vi ha depositato millenni addietro.
I medesimi valori, del resto, vennero professati inizialmente e a lungo dalle stesse classi superiori dominatrici formatesi con la stratificazione della società nella civiltà della città, e uscite per gemmazione e differenziazione – ancora e sempre – dal substrato contadino e dalla sua cultura; sappiamo già gli sviluppi del conflitto sociale tra le due civiltà, motivato unicamente da moventi che risalgono anzitutto alle necessità di rifornimenti alimentari dei centri urbani, ma poi alla sfrenata sete di potere e di ricchezza di questi centri, e cioè in ultima analisi all’istinto di conservazione e individuazione. In tali condizioni i valori etici recepiti dalla città (e derivanti per contro dall’istinto di integrazione) non potevano non perdere un po’ della loro presa sulle coscienze delle popolazioni, ormai distaccatesi dalla terra e poco sensibili alle profonde scaturigini cosmiche che a quei valori conferivano forza e concretezza. Per la società della città, sono valori letteralmente astratti, separati dalle loro radici palpabili e vivificanti; peraltro, mentre se ne dissolve poco a poco l’imperativo religioso, ne emerge in primo piano l’utilità pratica nei rapporti sociali fra individui, gruppi, categorie e gerarchie, per cui essi vengono posti a fondamento di leggi scritte dello stato, ai fini appunto utilitari di interessi individuali essenzialmente materiali, siano questi di singoli cittadini, di classi o dell’intera collettività: donde il radicale cambiamento del loro movente primario, la confusione già segnalata ed equivoca fra i termini dell’etica pura e della morale convenzionale, nonché la suscettibilità di quest’ultima di assegnare ai suoi valori formulazioni mutevoli a seconda delle circostanze connesse con l’evoluzione della società, o di relegarne addirittura alcuni fra “opinioni e credenze sorpassate, inservibili nelle nuove situazioni  e quindi decaduti giuridicamente e concettualmente. Non per questo viene meno, nella civiltà della città, l’urgere dell’istinto di integrazione, almeno in pensatori isolati, se non nella massa intenta a mestieri, commerci, uffici, guerre: da una parte, la cultura precedente continua ad alimentare il filone religioso, con adepti di culti “organizzati” o di sette più o meno occulte, che cercano di congiungersi con la divinità assoluta in un trasporto mistico, sollecitato frequentemente da tecniche e riti intesi a rompere le barriere naturali di isolamento individuale: una via, quest’ultima, ben diversa dalla partecipazione diretta e non provocata alla trascendenza della natura, quale era lo spontaneo sentire delle comunità rustiche primitive; via riservata agli iniziati e condizionata dalla fede nel superamento della realtà osservabile del mondo (anziché dall’abbandono ad essa e a ciò che le sta dietro), e discendente più propriamente dagli incantesimi magici degli sciamani e degli stregoni, tendenti al miracolo e a manifestazioni para-normali (ingredienti comuni, ma non essenziali della religiosità contadina, sempre timorosa di infrangere con atti coercitivi le leggi-volontà delle forze superiori ignote che reggono l’universo). D’altro canto, la riflessione distaccata su queste forze, sulla connessione dei fenomeni da esse determinati (cause ed effetti), sulla ripetitività ciclica di certi eventi stagionali e astronomici, e altro ancora, indirizzò in numero via via crescente abitanti della città liberi da altri impegni (e coadiuvati dallo sviluppo della scrittura, da nuove nozioni tecniche e da un precoce interesse per la matematica come strumento di misura) alla costruzione di ipotesi cosmogoniche di carattere proto-scientifico, sia pure non disgiunte da presupposti mitologico-religiosi, ma da questi col tempo sempre più indipendenti: da un simile atteggiamento indagatore e critico sbocciò – nel nucleo culturale ellenico che oriente tutto il pensiero della civiltà oggi più avanzata – quel complesso di dottrine, cui si diede a quei tempi (VI-IV secolo a.C.) il nome di filosofìa, comprendente i ragionamenti su tutti i campi possibili dello scibile, scientifici, metodologici, etici, ecc., giacché la ricerca era mossa, come dice quel nome, dall’amore per la sapienza integrale.
Occorre ribadire che lo stimolo di codesta conoscenza-coscienza è ancora, e manifestamente, di integrazione, dato che aspira – dalla considerazione di oggetti e fatti – a capire la struttura intima del mondo e dell’uomo, per partecipare alla vita universale con la maggiore possibile cognizione di causa, specie della causa finale dell’esistenza umana; anzi quest’ultima ben presto viene ravvisata proprio nella conoscenza medesima, che armonizza il comportamento dell’uomo con l’Essere cosmico e ne consente una consapevole aderenza e compenetrazione reciproca. Il procedere sulla strada della conoscenza consiste – a differenza dell’approccio religioso all’integrazione – nel chiarimento di tutto ciò che appare come mistero, anche se si è consci che un mistero ultimo potrà rimanere inattingibile per l’eternità; e il chiarimento si ottiene mediante l’analisi dei fattori che concorrono ad un dato evento o alla costituzione di un dato corpo, collegando gli effetti alle cause, e di queste accertando le cause prime, e infine coordinando i ritrovati in una sintesi che spieghi – ossia renda comprensibile (o accettabile) alla ragione – un processo, una situazione o una qualunque realtà, di cui si ignorava la natura. Si noti che lo schema accennato di investigazione (detta appunto razionale, perché delimita – attraverso i collegamenti della logica e dell’evidenza più o meno agevolmente e oggettivamente controllabile – quello che è persuasivo per la ragione da ciò che si dimostra insostenibile, oppure tuttora oscuro e da scoprire) sta alla base di tutto il fantastico progresso della scienza moderna, grazie al quale una cospicua mole di “misteri” del mondo reale sono stati effettivamente svelati, sottraendoli alle nebulose mitologie o ipotesi degli antichi: il procedimento dunque si è confermato funzionale ai fini della conoscenza, pur se esso scorge nel cammino una prospettiva forse ancora più lunga di altri “misteri”, su cui dover indagare. Ma si ricordi pure che i filosofi-scienziati dell’antichità, quantunque spesso attivamente partecipi alla vita pubblica (come Parmenide, Pitagora, Empedocle e altri) e anche impegnati in una trattazione teorica del governo dello stato (come più tardi Fiatone e Aristotele), concepivano la conoscenza anzitutto come contemplazione del vero, senza secondi fini ne necessari agganci con problemi applicativi utilitari: se di questi si poteva ricavare eventualmente dalla conoscenza una efficace soluzione, era una conseguenza secondaria e non importante per la conoscenza stessa; la quale pertanto rivestiva un valore etico spirituale per eccellenza (D.S.L. Cardwell), essendone la ricerca, come si è detto sopra, la finalità disinteressata e il senso profondo della vita degli uomini, e come tale venendo insegnata dai filosofi medesimi nelle famose “scuole” a discepoli volonterosi. Insegnamento globale al pari dei contenuti della conoscenza-fìlosofia, la cui trattazione verteva intorno alla natura (perì fyseos) nella totalità delle sue manifestazioni e problematiche (pure etiche), anche se già con Anassagora si delinea, nel sapere, una prima divisione delle scienze; ma, comunque, insegnamento destinato a relativamente pochi (e non certamente ai lavoratori della terra, sin da allora essendo deprezzato il lavoro manuale dalle classi cittadine), laddove alla massa ne giunge caso mai un’eco debole e deformata, che non incide sostanzialmente sulla morale convenzionale, se non nel senso di farla dipendere sempre più dal ragionamento umano e soggettivo e sempre meno da leggi divine. E poiché il ragionamento non fornisce certezze assolute (come emerge dalle stesse violente controversie tra i singoli filosofi e loro scuole) e ubbidisce spesso ai criteri dell’utile personale e materiale, l’istinto di integrazione della società urbana meno agnostica rivolge quest’ultima verso religioni meno screditate del Vicino Oriente, la cui etica tuttavia – anche qualora (come nel caso del cristianesimo) tenda a rivoluzionare i rapporti sociali – non arriva a scardinare la pressione “speculativa” della città sulla campagna e quindi sul terreno; mentre la cultura contadina, lentamente soffocata (nonostante i saltuari e modesti benefici ricavati dal ceto rurale, dal Medioevo in poi, dalla nuova religione), non ha neppure la possibilità materiale di dedicare al suolo quelle cure, cui la sua etica “pagana” e persistente la invoglierebbe.
Con tutto ciò, il pensiero razionale filosofìco-scientifico, prodotto eminente della letterata civiltà della città, non si ferma più e conquista spazi vieppiù ampi, tanto da estendere la sua influenza sulla teologia medesima, che a lungo cerca di conciliarne i ritrovati con le proprie istanze, dichiarando peraltro “eretici” quelli che non vi si inquadrano, secondo il vaglio di discrimine adottato (dogmi-certezze non soggetti a discussione); del resto, gli stessi pensatori evitano per quanto possibile la rottura con la Chiesa, perché in buona parte religiosi anch’essi, anzi appartenenti non di rado a ordini ecclesiastici. Il connubio delta ricerca razionale con un atteggiamento fideistico non deve meravigliare, se si riflette al movente comune di entrambe le vie di partecipare alla vita dell’universo: l’istinto di integrazione. Le due vie non sono incompatibili, finché si è consci del mistero incommensurabile che rimane sempre al di là della minima quota acquisita alla conoscenza; il razionale è solo una parte del reale (M. Horkheimer), anche se mira a includere nel suo dominio l’universale, per cui la compresenza di un tentativo di penetrare il mistero pure con intuizione mistica (non contraria ad un’ipotesi logica rispettosa del conosciuto) sembra giustificata: il metodo di arrivare all’Ignoto non è a priori assicurato a nessuno, e in molti casi esso medesimo fa parte dell’ignoto. È certo però che se per tutto il Medioevo la cultura dotta ebbe a fiorire quasi esclusivamente presso centri clericali, seguendone la corrente teologica, l’espansione nell’epoca rinascimentale della società urbana non tardò a far rinvigorire la scienza su basi razionali, richieste soprattutto per le sue applicazioni tecnologiche nelle più svariate attività della città: proprio per questo la civiltà della città è tendenzialmente laica (anche in ciò distante dalla cultura contadina) e compie per conto suo il distacco tra lo studio tecnico-scientifico e la dottrina religiosa, distacco che solo più tardi oseranno affrontare ufficialmente gli esponenti professionali del raziocinio esploratore.
Con il contagioso dilagare dell’umanesimo nell’Europa occidentale, la religione e la sua etica primitiva, ridotta – non solo presso le popolazioni, ma presso la maggioranza degli ecclesiastici – a formule morte e prive di ogni consistenza certa, appassiscono e si svalutano tanto da subire una crisi esplosiva, per cui, da un lato, la Riforma si libera dai dogmi e ammette la soggettività della fede, piegando nel contempo l’interpretazione di quest’ultima (e dei principi etici che se ne desumono) alle esigenze utilitarie sul piano materiale della società protestante; d’altro lato, la frazione legata alla tradizione s’irrigidisce sulle posizioni dogmatiche, imponendone l’osservanza – sia pure solo esteriore – anche mediante il suo potere temporale, ciò che svuota di ogni efficacia genuina l’impulso all’integrazione, mentre al posto dell’etica “sacra” si adotta una morale convenzionale, anch’essa ligia all’utile individuale delle classi dominanti. Alla frattura confessionale, poi, fanno seguito l’intolleranza reciproca, guerre di religione, inquisizioni, roghi e scomuniche, odi e rivalità settarie, i quali – oltre a togliere al culto l’aura di intangibilità – inducono allo scetticismo e all’abbandono di quei principi di comportamento che dal culto traevano il proprio valore universale. È comprensibile che di fronte a simile decadenza sostanziale del movente religioso ecumenico (cui sfugge decisamente l’Est europeo, assai più arretrato per ragioni storiche e tuttora permeato di influssi della cultura contadina) la secolarizzazione dell’Occidente – già accelerata dallo sviluppo tecnico ed economico che assorbiva le maggiori energie delle categorie sociali cittadine – venisse fortemente potenziata dall’indirizzo razionalistico del pensiero rivolto alla filosofia e alle scienze, il quale a sua volta, trovando meno ostruita la via per le sue indagini, assunse vieppiù l’impronta della civiltà laica, specie nel campo scientifico. Quest’ultimo fatto, d’altronde, non poteva mancare di conseguenze per le concezioni fìlosofiche, tuttora orientate a rispecchiare tutta la realtà oggettiva accertata razionalmente dalle diverse scienze, ormai soggette ad una incipiente specializzazione: il filosofo – spesso esperto egli medesimo di una disciplina scientifica – cercava di coordinare le informazioni ottenute col metodo sperimentale e di estrarne una visione sintetica del mondo, nel quale – anche quando si dava per scontata, all’occasione, la presenza di un Creatore trascendente – la posizione centrale veniva ad essere occupata dall’Uomo, e la natura a trovarsi oggetto di studio per essere dominata da quella posizione, così come stava accadendo nella società dell’epoca e nello stesso atteggiamento scientifico. La tendenza all’integrazione sfumava impercettibilmente in quella di utilizzazione, trascinandosi dietro interpretazioni soggettive e perciò facilmente discordi dei giudizi etici, nonostante le comuni fondamenta delle varie costruzioni filosofiche che riposavano sulla conoscenza scientifica della realtà.
Furono queste le condizioni determinanti per l’evoluzione successiva della cultura europea e per la sua caratterizzazione come guida incontestabile in tutti i settori della scienza e della tecnologia, oltre che modello di organizzazione dei servizi pubblici, di gestione delle imprese e di molte altre attività atte a procurare benefici materiali ai mèmbri della società; tanto che codesta cultura ha finito per attecchire, con poche varianti, in ogni paese, impregnando di sé più o meno profondamente, e talora non senza contrasti, culture di tradizioni assai diverse e arcaiche. Ma questa integrazione culturale, se ha contribuito a creare un linguaggio comune tra le genti, aveva per movente non già l’integrazione con l’esistente, bensì l’utile individuale e materiale (ricchezza, prestigio, potere) di singoli stati, gruppi operativi o imprenditori isolati, e il linguaggio era diventato comune essenzialmente in funzione delle predette finalità; le quali, essendo derivate dall’istinto di conservazione, legittimo in ogni nucleo etnico e sociale, non vennero in alcun modo alterate dal linguaggio comune, ma semmai esasperate nelle culture arretrate, avide d’impossessarsi di quanto già raggiunto da quella più avanzata. Quest’ultima non era portatrice di valori etici universali, anche se quelli politici e sociali aspiravano a tale titolo e a volte seducevano per la loro formulazione: in concreto erano fallaci non solo e non tanto per la consueta imperfezione di ogni ragionamento umano, e neanche perché troppo sovente si risolvevano in una sopraffazione intollerabile, materiale o morale, dei più deboli da parte dei privilegiati, ma soprattutto perché nella cultura europea dominante – laica e razionale – si erano persi per strada la comprensione intima del vero istinto di integrazione e l’impegno tenace di fedeltà ai suoi valori etici elementari: solidarietà, onestà, giustizia, ecc. I rapporti interni alla società umana (sia fra popoli e nazioni, sia tra classi sociali o tra privati cittadini di uno stato) erano dunque destinati a inasprirsi in una lotta per l’esistenza, nonostante momentanee intese e alleanze di convenienza che non potevano dare alcun affidamento, primeggiandovi l’interesse di ciascun contraente; e infatti il mondo è entrato in un periodo di rivoluzioni su scala continentale e di guerre immani per estensione e capacità di sterminio. I rapporti con la natura, e in particolare col suolo coltivato, sono ora quelli di padrone a schiavo, l’inverso di quanto si verificava nella civiltà del villaggio; ma anche nell’individuo si è prodotta una scissione schizofrenica, per cui la preminenza assoluta dello stimolo all’autoaffermazione sul piano materiale ha fatto tacere ogniesigenza di inserimento armonico nella totalità sovrastante, ingenerando però un senso invincibile di alienazione e di frustrazione, specie quando i limiti raggiunti di benessere personale perseguito venivano a provocare una deprimente sazietà e noia: a nulla valgono allora i conati di sottrarvisi suscitando artificialmente desideri inesistenti e inutili, finalità fittizie e ripetitive, che non modificano i confini dello spazio vitale sovrabbondante e si risolvono in un riempitivo precario e chimerico del tempo e dello spazio, in un consumismo fine a se stesso, mentre al di là di essi rimane il vuoto della disintegrazione.
Come si è arrivati a tanto, malgrado la formidabile proliferazione delle conoscenze e gli sforzi illuminanti della filosofìa? È noto il ruolo traente che dopo la metà dell’ultimo millennio viene ad esercitare la ricerca scientifica in tutta la società europea, da una parte sbozzando una rappresentazione sempre più approssimata della struttura fisica e biologica della natura, dall’altra spalancando nel campo applicativo l’entrata alla civiltà industriale e alla cultura di massa, connotati distintivi dell’attuale fase avanzata di evoluzione umana. Giova pertanto precisare le direttrici specifiche di quel ruolo e vederne gli effetti sul pensiero e sul comportamento degli uomini. Anzitutto, l’oggetto di studio: il mondo nelle sue manifestazioni materiali osservabili, compreso l’uomo come parte del vivente, sia pure con connotati particolari (o almeno più direttamente esposti all’indagine); il fatto che la scienza si rivolge al piano materiale non è di poco momento: i suoi accertamenti valgono su questo piano (il piano dove opera per eccellenza l’istinto di individuazione), estrapolazioni al di là di questo campo perdono sicurezza scientifica, si sottraggono alla misura. In secondo luogo, il metodo della ricerca: la sperimentazione, per ottenere una certezza oggettiva, esige strumenti adatti da caso a caso, il cui impiego – ripetuto quanto si vuole e da chiunque nelle condizioni precisate – deve fornire risultati identici (oggi, con la statistica sperimentale, si valuta anche il grado di approssimazione alla certezza assoluta delle osservazioni), i fenomeni non ripetibili con i mezzi a disposizione restano incerti nelle loro cause, anche se osservati. Già queste enunciazioni mettono in evidenza che la scienza razionale non contempla il piano spirituale (quello riservato all’attività dell’istinto di integrazione), anche se molti moventi di quel piano procurano manifestazioni su quello materiale, peraltro non ripetibili a volontà e pertanto esulanti da una spiegazione scientifica: ad esse è applicabile appena una registrazione storica. Una simile impostazione ha il merito di soddisfare la ragione circa l’attendibilità e la fondatezza dei risultati riscontrati, nonché circa la possibilità di utilizzarli per qualunque scopo pertinente sul piano materiale, non foss’altro che per formulare ipotesi funzionali per una ricerca ulteriore. Inoltre essa consente di sopprimere nei ragionamenti qualsiasi interpretazione dei fenomeni che sia in contrasto con quelli accertati: le illazioni arbitrarie e illusorie ne sono bandite, la fantasia aiuta eventualmente la ricerca solo finché si muove senza contraddire la conoscenza acquisita (ma la stessa conoscenza scoprirà in seguito – con Einstein e Heisenberg – che su ogni risultato pesa il condiziona- mento della relatività e dell’indeterminazione, e che – secondo Kurt Godei – per nessun assioma matematico o scientifico esiste una certezza, valida una volta per sempre). Comunque, l’etica pura, al pari dell’arte, esula dalle considerazioni scientifiche, mentre invece diventa importante per la scienza risolvere, pure in sede fìlosofica, il problema gnoseologico dell’acquisizione della conoscenza, anche se nella pratica applicativa possa contare poco o niente l’interpretazione esatta della realtà che viene conosciuta. Ecco dunque tutto un complesso di indirizzi speculativi, i quali, nel campo scientifico, partendo dallo studio della meccanica dei corpi celesti, esplorano le leggi del moto e altre proprietà fisiche della materia, introducendo concezioni meccanicistiche pure in altre discipline, come ad esempio quelle riguardanti l’anatomia e la fisiologia, e colorandone variamente la filosofia medesima: l’uomo, se è al centro della natura, vi si ritrova tuttavia anch’esso come un meccanismo sapientemente congegnato, che basta smontare con accortezza per conoscerne il funzionamento; la ragione è la chiave per penetrarne gli ingranaggi e così degli altri enti e processi naturali, come ribadiscono gli illuministi e gli enciclopedisti nel secolo dei lumi, non sospettando ancora che questa “chiave” apparirà ai biologi e biochimici del ventesimo secolo, essa medesima, come un meccanismo sul cui modello si costruiranno ottime e utilissime macchine ragionanti, i “cervelli elettronici”.
Non si vuoi dire con ciò che i filosofi si disinteressassero da allora in poi dei problemi del piano spirituale, e in ispecie di quelli etici: anzi, proprio perché il piano materiale era ormai riconosciuto essere di competenza della scienza, molte scuole filosofiche – rinunciando gradualmente all’aspirazione originaria di conglobare la totalità dello scibile – si appunteranno essenzialmente su argomenti che riguardano lo “spirito”, operando una netta separazione tra scienza e filosofìa: la qual cosa non gioverà, purtroppo, alla comprensione (e all’integrazione) del mondo, essendo entrambi i piani, come sappiamo, e gli istinti fondamentali e apodittici che rispettivamente vi presiedono, compresenti nell’uomo, inseparabili e interagenti, per cui non se ne possono intendere gli intricati rapporti, ne ricercare una composizione armonica, astraendo l’uno dall’altro. Ma sta di fatto che cedeste tendenze, qualificabili come selettivamente spiritualiste, legate o meno a correnti religiose, pur guadagnandosi un posto onorevole nella storia del pensiero, rimasero retaggio soprattutto degli addetti ai lavori, ossia alla cerchia di livello universitario, senza incidere in misura apprezzabile sull’opinione pubblica, diventata ormai un’autorità effettiva per l’evoluzione della società.
Molti erano i motivi di un simile sviluppo: il rapido progresso della scienza anche in campi tecnologici applicativi che servivano alla produzione di beni e alimentavano la ricchezza, divulgato appunto perciò con la crescente circolazione dei giornali, otteneva ammirata popolarità anche attraverso la diffusione dell’istruzione, mentre i suoi effetti pratici interessavano ceti sempre più larghi, destinati a rappresentare la nascente civiltà industriale. L’abito mentale scientifico si stava impadronendo degli imprenditori, sollecitava studi di economia e, in connessione con questa, proponeva l’esame degli aspetti sociali del lavoro nelle industrie; di rimbalzo le stesse scienze s’inserivano direttamente in questo fervore di attività utilitarie, si differenziavano e approfondivano in mille rivoli per risolvere problemi concreti impegnando una schiera in continuo aumento di tecnici e specialisti. La cultura generale del secolo diciannovesimo in tal modo si polarizzava nettamente sul piano materiale, assecondata dai pensatori che ne erano attratti per il ruolo che vi ricoprivano le scienze applicate, e anche per ragioni sociopolitiche, avendo scatenato il processo di industrializzazione un intensificarsi di movimenti democratici, prima nella borghesia imprenditoriale, indi nelle masse lavoratrici, tutte ugualmente protese all’incremento del guadagno personale. È da ricordare quanto le tre rivoluzioni che avevano preceduto il secolo in parola – quella inglese (1688), quella americana (1775) e quella francese (1789) – abbiano contribuito a preparare il terreno per quel profondo rivolgimento interno della società, cui si deve non solo l’instaurazione di nuove strutture dello stato, ma pure l’affermazione di alcuni valori sociali, inerenti a tali strutture, i quali vengono a sovrapporsi inavvertitamente ai principi etici originari e in ultimo ad eclissarli quasi totalmente o, meglio, a cambiarne l’intimo significato, mantenendo immutata la terminologia; per cui il genuino istinto di integrazione universale che li postulava finisce per essere deviato verso mete assai più ristrette, se non obliterato o anche falsato nella sua essenza.
Tutte le rivoluzioni avvengono con l’intento di liberazione – violenta – da un gravame diventato insopportabile: la prima di quelle citate, dall’arbitrio della monarchia, la seconda dalla soggezione alla metropoli e dal regime coloniale, la terza dal prepotere della nobiltà e del clero nei confronti del terzo stato. Il concetto di libertà – ossia di una facoltà (sempre più o meno limitata a seconda del campo e del momento in cui si esercita) di scelta di comportamento o di azione – si carica in tal modo di contenuti vieppiù estesi e contingenti agli interessi di chi la reclama, fino a diventare per taluno un principio etico per se stesso, nel cui esercizio consisterebbe la dignità dell’individuo, di una categoria di persone, di un popolo, qualunque sia l’uso che di tale facoltà si faccia, o il fine che si persegue. In realtà, la libertà è palesemente solo una condizione indispensabile affinchè i principi etici universali possano trovare attuazione concreta nella vita, nei limiti sia pure stretti della facoltà di scelta tra i diversi valori (etici o meno): in tali limiti, la libertà implica pure la piena responsabilità della scelta compiuta e della sua realizzazione (o intenzione e impegno di realizzarla), per cui da una parte la responsabilità stessa impone un nuovo limite alla libertà (sopprimendola in tale rispetto), e dall’altra la dignità umana viene a risiedere – come centro decisionale autonomo – nel non oltrepassare quel limite volontario, ossia nell’essere soggetti ad una restrizione ulteriore (anziché indipendenza), oltre a quelle occasionate da fattori esterni o comunque non governabili, e semmai nell’essere liberi di scegliere e agire in conformità a quella autorestrizione, limitando sempre più la propria libertà. Qui però importa rilevare come l’assunzione della libertà quale valore supremo, indipendente dalle sue finalità, abbia agito negativamente sia nei riflessi della manifestazione incontaminata di quello stimolo medesimo che ne presupponeva la funzione, sia nei rapporti della società col suolo in particolare, in cui lo stesso stimolo avrebbe dovuto garantire un atteggiamento rispettoso dell’uomo verso il suo fedele simbionte, oggi troppo disinvoltamente minacciato di distruzione.
Questa minaccia comincia a dare i suoi primi frutti su larga scala appunto nell’Ottocento (con la libertà di possedere il terreno in proprietà privata e di sfruttarlo con agricoltura di rapina o con altri trattamenti che ne deteriorano la fertilità), ricorrendo ai mezzi potentissimi e spesso violenti approntati dalla grande industria, ma le sue premesse vanno rintracciate assai indietro nel tempo, quando la funzione della libertà iniziò a evolvere rapidamente come concetto e nelle sue applicazioni, e cioè a partire dal Rinascimento. Di detta facoltà si appropriò con coerenza la ricerca scientifica, quale via di integrazione autonoma, salvo a cedere poi – nella grande maggioranza dei ricercatori – la priorità al suo uso utilitario, rivolto al benessere di istanze che limitavano l’universo a seconda dei casi al mondo umano, ad una nazione, ad una classe, ad un gruppo o addirittura al singolo individuo, giustificando quest’ultima finalità con l’asserto che il benessere dell’individuo procura – anche involontariamente – quello della società. In altre parole, l’insopprimibile esigenza etica di integrazione veniva bensì tenuta presente, ma si acquietava con ragionamenti guidati dall’interesse personale, libero di seguire il proprio istinto di individuazione e decisamente primeggiante nelle sue manifestazioni, rispetto a quanto era l’intendimento autentico di quella esigenza. Questa pertanto finiva per trovarsi in posizione del tutto subordinata, quale criterio di orientamento nell’agire, e per di più se ne invocava l’accomodante intervento strumentalizzato per rendere compatibili tra loro, nella società, le azioni individuali costituzionalmente contrastanti (nella lotta per l’esistenza): intervento del tutto artificiale e in gran parte sterile (ove non fosse coercitivo), una volta che era stata sancita la preminenza della libertà dell’individuo (o gruppo, classe, ecc.) di procurarsi il benessere che credeva meglio; la libertà di stabilirlo rendeva gratuito o arbitrario il contenuto della morale, e labile la sua osservanza. A interpretare il benessere soprattutto come risultato di un utile materiale concorsero non poco gli economisti del Settecento (Adam Smith, Bentham, Turgot e altri), seguiti dai primi sociologi e studiosi di politica economica anche dei secoli successivi (Saint-Simon, Comte, J.S. Mili, Marx, H. Spencer ecc.), i cui schemi di organizzazione sociale e di gestione dello stato, pur appellandosi alla comune matrice della conoscenza della natura, nonché del primato della legge naturale, e ciò nonostante differendo tra loro, magari radicalmente, nelle direttive proposte e nelle ideologie (anche morali) coinvolte, convergevano tuttavia nell’intesa finale, abbastanza rivelatrice per quanto riguarda il nostro argomento: l’uomo doveva non solamente dominare la natura, ma liberarsene fin dove possibile, giacché la libertà dalla natura – allorquando questa era di impedimento al benessere – rientrava pienamente nei diritti umani. Non si poteva certo conferire alla libertà un significato più lontano da quello attribuito alla sua funzione nella ricerca dell’integrazione.
In simile clima i sistemi filosofici che suscitano maggior successo nelle categorie più varie della popolazione, in parte anche perché divulgati con insistente propaganda, sono quelli che si richiamano a concezioni scientifiche “naturalistiche” e utilitarie – il liberalismo, il positivismo, il materialismo storico o dialettico, il pragmatismo, il relativismo, ecc. – e che per la loro impostazione medesima sono fieramente avversi alle tendenze spiritualiste prima menzionate; al posto dell’etica pura, vi è sottesa – implicita o esplicita – una morale di classe che si ispira sostanzialmente all’ottenimento di una più equa distribuzione dei beni economici, ora impegnandosi (visto che l’equità è un criterio opinabile) a concedere a tutti gli individui solo una uguale base di partenza per la corsa alla ricchezza, ora – prescindendo da quella fase – limitandosi più restrittivamente ad assicurare via libera alla concorrenza più spietata, ora invece promettendo ai lavoratori una loro gestione dello stato, con retribuzioni a seconda del valore delle prestazioni, o addirittura a seconda del bisogno di ciascuno: gestione, in cui la concorrenza può essere moderata o assente, ma va garantito a tutti un lavoro retribuito.
In ogni caso ne viene esaltata in ogni settore la produzione di beni o servizi, anche superflui, la quale per essere pagata esige un aumento continuo di consumi, eventualmente non necessari; per indurre ad essi la domanda non illimitata, si ricorre ad una persuasiva reclamizzazione, si suggerisce un comportamento conformista del pubblico nel procurarsi una novità, si fabbricano oggetti di scarsa durata, con materiali deperibili, da sostituire in breve tempo. La ricchezza si ottiene per essere spesa immediatamente in un ciclo chiuso, obbligato e ossessivo, non solo incatenando l’attività umana ad una monotona finalità materiale ed egocentrica di Sisifo che non intravvede alcuna prospettiva di un reale divenire (giacché il divenire reale non è perseguito dall’istinto di conservazione, bensi è insito in quello di integrazione, scomparso ormai dall’orizzonte, con l’inerzia sul piano spirituale), ma facendo divampare tra gli uomini una competizione sfrenata per accelerare al massimo il ritmo del ciclo predetto con l’intento dell’invidiabile primato di velocità nell’arricchimento e nei consumi, oppure prostrando gli individui in totale apatia.
Della presente situazione sarebbe dunque da incolpare la scienza? Accuse di vario genere le sono state rivolte sia in passato, sia dai contemporanei (e sono ancora vive le polemiche suscitate dal dramma della bomba atomica); eppure la crescita della scienza fu fecondata dall’istinto di integrazione, doveva condurre alla contemplazione del vero universale, anziché seguire la parabola del mito di Prometeo. Che nesso mai c’è tra la scoperta progressiva delle leggi della natura e la degradazione della natura stessa, anche quella degli scopritori? La risposta facile, solitamente avanzata, è che gli scopritori non sono responsabili dell’uso che fanno gli altri dei loro ritrovati (la qual cosa oggi è vera solo in casi eccezionalissimi, l’assoluta maggioranza dei ricercatori lavorando con piena coscienza e quindi responsabilità in indagini chiaramente finalizzate a scopi di arricchimento settoriale e individuale); oppure – con maggiore coerenza – che la ricerca scientifica concerne, per principio, esclusivamente il mondo fisico o della cosiddetta materia, in quanto unico suscettibile di essere definito col metodo sperimentale e in termini di misura, per cui i problemi etici, come tutto il presunto piano spirituale, non rientrano nei suoi oggetti di studio (conseguenza della già accennata scissione selettiva o settoriale tra scienza e filosofia), per cui non si possono imputare alla scienza le malefatte che eventualmente ne derivano. Alla scienza forse no, ma ai suoi rappresentanti? Ammettiamo pure che il vero, via via accertato dagli scienziati, sia un bene per se stesso (il bene della conoscenza) da mettere a disposizione di tutta l’umanità, lavandosi le mani dell’impiego – talora imprevedibile, ma spesso evidente – cui servirà questo vero sul piano materiale (quantunque ai primordi delle cognizioni raccolte razionalmente sull’esistente, e in particolare nel campo della medicina, non sembra che nei detentori della scienza vi fosse una tale indifferenza per i principi etici connessi con l’applicazione di quelle cognizioni, di cui alcune andavano perfino mantenute segrete, secondo categoriche norme deontologiche, per non procurare danno se in possesso di “profani”: ma allora non v’era ancora, e non ci fu per molto tempo, una netta separazione tra filosofia e conoscenza). La prima osservazione che si può prospettare è sulla effettiva certezza di codesto “vero”: non è il caso di ricordare quante certezze del genere sono state contestate tra gli stessi scienziati, e quante sostituite ad altre nel corso della storia, col progresso della scienza, la quale per parte sua è ben conscia sia dell’aleatorietà delle presenti certezze, sia delle incalcolabili incertezze che permangono nella conoscenza del mondo fisico. Il vero oggi acquisito rimane un vero parziale, e ogni spiegazione del mondo fisico – sebbene per molti lati estremamente fruttuosa nel campo pratico e utilitario – non è in realtà che un’ipotesi basata sul vero parziale acquisito, e in attesa di un’altra ipotesi che deriverà dalle acquisizioni future.
Lo stesso Einstein ebbe a osservare: “Ho visto migliala di teorie crollare di fronte ad un fatto, non ho mai visto un solo fatto crollare davanti a mille teorie”. Ciò nonostante i rappresentanti della scienza troppe volte considerano le loro ipotesi come certezze assolute, inducendo i profani ad accettarle come tali; ma soprattutto – e qui sta uno dei nessi cercati con il deterioramento dei rapporti con la natura – l’insegnamento corrente nelle scuole per la massa che non arriva all’università, e non di rado anche in quest’ultima, gabella le ipotesi provvisorie in questione per verità apodittiche, che si imprimono – col compiacente e interessato e potentissimo concorso dei mass media – come una visione indelebile di tutta la realtà esistente, metro di ogni attività, comportamento e riflessione (J. Wheeler). Una certezza incondizionata accessibile all’uomo esiste invece solo sul piano spirituale, ed è quella di un impegno preso dalla propria volontà soggettiva, anche un impegno di agire, comportarsi e riflettere in un dato modo, e in particolare di assumere come impegnativi determinati valori etici. Di qui la seconda osservazione: sta bene che la scienza non si occupa del piano spirituale, perché il metodo sperimentale non sembra esservi applicabile, secondo il rammarico – non sappiamo quanto sincero o ironico – espresso da un grande fisico: “È un vero peccato che la scienza non sia in grado di analizzare lo spirito”. Ma una cosa è non potersene occupare, un’altra è negarne l’esistenza, cercando – con artifici invero poco scientifici – di ricondurne ogni manifestazione ai processi e forze operanti sul piano materiale. Se il campo del procedimento scientifico è quello del piano materiale, nessuna estrapolazione ne è lecita oltre quei limiti, ne giudizi sulla presenza o meno di un piano spirituale nell’essenza dell’uomo; e un atteggiamento onesto da parte dei rappresentanti della scienza sarebbe unicamente quello di riconoscere che una moltitudine di moventi nella natura umana non trova una spiegazione razionale con criteri appropriati per il mondo fisico, anche se si traduce in azioni sul piano materiale, delle quali del resto non sempre si riesce ad afferrare il meccanismo. Non basta assegnare all’ignoto (in quel campo) termini come “istinto”, “inconscio”, “energia”, per aggregarlo automaticamente ai fenomeni pertinenti alla cosiddetta materia, ormai anch’essa riqualificata in un aspetto di diverse energie, di cui viene supposta peraltro una matrice unica. E non è detto affatto che col metodo sperimentale si possa mai riempire di contenuto noto quei termini incogniti: ma immaginare altri metodi è di certo inconcepibile per la nostra scienza. Comunque, i suoi rappresentanti (non tutti in verità) – pur consapevoli di quei misteri irrecuperabili – lasciano credere, e talora lo impongono, che il mondo fisico è la sola realtà dell’universo, retta secondo alcuni da un rigoroso determinismo, secondo altri da eventi fondamentalmente casuali, anche se poi seguiti da reazioni obbligate, sempre però inerenti al piano materiale; ora, un simile comportamento è un autentico inganno, che tradisce la stessa razionalità della scienza, in quanto si pronuncia sulla realtà integrale, tacendo o addirittura dando per noto quel che è ignoto, ed escludendo perciò la possibilità medesima di ogni altro piano della realtà. L’influenza sulla informazione e sulla mentalità delle masse è identica a quella indicata nell’osservazione precedente sulle certezze: l’inquadratura materialistica della vita, la preminenza del valore della ricchezza, del potere che essa conferisce e delle gerarchie che ne derivano o che vengono insediate con la forza dai politici per raggiungerla, gli imperativi della produzione e dei consumi di beni materiali, il mito della felicità sulla terra e l’angoscia di non possederla (H. Pradel). Non se ne può aspettare altro che violenza o costrizione occulta, inibizione di creatività originale al di fuori degli schemi dell’arricchimento (industrializzazione), alienazione e perdita di partecipazione “affettiva” all’ambiente circostante: il rapporto col suolo ne fa pure le spese. Pertanto appare del tutto sterile invocare motivi scientifici per un uso non distruttivo del terreno: se tale uso contrasta con il benessere economico di chi ha rapporti qualsiasi col suolo, l’appello alla sua conservazione è un’arma spuntata in partenza.
Se si è sollevato il dubbio sull’efficacia dei ragionamenti scientifici e razionali nei confronti del comportamento umano verso il supporto più immediato di tutta la società, non è ovviamente per sfiducia nell’indirizzo della scienza come tale. Essendo in gioco nel comportamento due moventi essenziali della natura dell’uomo, atti a originare condotte antitetiche, i ragionamenti intesi a sollecitare la condotta rivolta sostanzialmente all’utile materiale possono sortire effetti positivi soltanto qualora quell’utile coincida con quanto gli individui interessati ritengono soggettivamente essere il proprio utile personale: troppo poco nell’attuale situazione della civiltà industriale. Da qui la necessità di far primeggiare sui valori utilitari quelli dell’etica pura (non convenzionale) pertinenti al piano spirituale dell’essere umano e derivanti dal movente di integrazione universale: tali valori erano spontaneamente sentiti e rispettati nella primitiva civiltà del villaggio e nella cultura contadina, ormai pressoché estinte e non recuperabili; la storia non va indietro, e la civiltà della città, con tutti i suoi difetti, è anche – in tutto il mondo – la civiltà dello sviluppo spirituale impareggiabile della società, sia pure molto differenziato nei vari ceti e soprattutto negli individui. Purtroppo nella massa urbana, nonostante quello sviluppo, i valori etici tendono a piegarsi a interessi individuali, hanno talora riscontro nelle leggi dello stato, ma disertano poco a poco le singole coscienze: nella più accesa lotta per l’esistenza prevale su quello dell’integrazione l’istinto di conservazione (o individuazione), essendo intanto venuto meno quel contatto quotidiano e vitale con l’ambiente naturale che, nella massa contadina, era in grado di contribuire ad una composizione armonica dei due istinti.
Una prima conclusione, che è solo una premessa: una efficiente protezione della natura, e quindi anche del suolo, non dovrebbe trascurare la promozione – su impostazioni nuove e adeguate – di contatti frequenti dei reclusi della città con l’ambiente non artefatto della campagna (intesa in senso lato), non già al solo scopo ricreativo e turistico, sin da ora perseguito dalle folle domenicali con sistematico ingozzamento e spesso distruzione di contrade naturali superstiti, ma al fine di far conoscere intimamente, nei suoi cicli evolutivi reconditi, quel mondo che nel raccoglimento del silenzio è capace di comunicare all’uomo qualcosa che lo trascende e gli risveglia la tensione assopita verso una integrazione cosmica: il ritrovamento dei valori etici genuini ne sarebbe facilitato.
Ma certamente non è sufficiente, ne forse essenziale: una mentalità soggiogata da ideali di arricchimento e di benessere materiale, di cui le risorse naturali hanno unicamente da far le spese, non è la più disponibile ad ascoltare il silenzio della natura. Neanche l’odierno agricoltore perfettamente industrializzato vi è disposto, senza parlare delle turbe di coltivatori nei paesi depressi, condannate dalla miseria a pensare solo alla sopravvivenza. Esaminando l’affermarsi, nella storia, di questa mentalità, emerge un paradosso: una via di integrazione dell’esistente – quella della scienza – sicuramente suscettibile di aprire la mente umana alla visione non egocentrica, ne utilitaria, della totale realtà (anche se immersa nell’ignoto, e conosciuta parzialmente solo a livello di un briciolo di polvere, quale è l’uomo). Una via inaugurata dalla civiltà della città, quasi un corso regale al cospetto della carrareccia fuori uso della cultura contadina, ha subito in ultimo una strana metamorfosi e ha condotto in una direzione diametralmente opposta a quella promessa: invece di avvicinarsi a quella conoscenza dell’Essere che permettesse un inserimento consapevole e armonico dell’uomo nella creatività integrale del Divenire, la scienza è servita tanto a procurare mezzi efficacissimi per la prosperità materiale della società, quanto ad approntarne altri destinati alla distruzione del consorzio umano, il tutto ben spesso a prezzo di procedimenti che corrompevano i processi vitali nell’ambiente abitato, quando non ne eliminavano intenzionalmente il vivente. Se il primo gruppo di tali raggiungimenti può ancora inquadrarsi, almeno in parte, nella direttrice della via originaria, i rimanenti se ne scostano totalmente, e quanto all’esito complessivo per il comportamento della stragrande maggioranza degli uomini, le conoscenze e i mezzi di cui sopra hanno travasato in costoro il proprio odierno agnosticismo verso il piano spirituale, il solo appropriato all’integrazione, per cui l’istinto che vi aspirava si è quasi atrofizzato o si dibatte in miraggi ingannevoli ed evanescenti, del tutto avulso dalla vita concreta, accentrata sulla conquista di beni materiali e soggettivi. Evidentemente la conoscenza isolatasi volontariamente da valori etici e concepita come “bene” fine a se stesso viene ad acquistare un carattere e un movente ambigui, strumenti docili di qualunque iniziativa che se ne voglia servire; e poiché le iniziative che trovano i più facili e cospicui finanziamenti e il maggior concorso dei poteri decisionali sono quelle che beneficiano gli interessi utilitari personali di gruppi o di individui nella corsa alla ricchezza, ecco che la conoscenza – da fine a se stessa – si concede il più delle volte ad una finalità ulteriore, del tutto incompatibile con lo stimolo che le era proprio all’alba dei tempi.
Allora – seconda conclusione – poiché la civiltà più avanzata non può rinunciare alla conoscenza scientifica e non a torto vi intuisce delle possibilità meno avvilenti di quella degradazione di cui essa da oggi spettacolo, il passo decisivo da farsi è di ridare a questa conoscenza il significato etico del suo movente primigenio, richiamando nella propria funzione il valore della ricerca del vero, non per un sapere enciclopedico buono a tutti gli usi, ma per il conseguimento – sul piano spirituale – di una partecipazione esistenziale al cosmo. Non possiamo dimenticare la splendida prerogativa della scienza di non credere ai dogmi, neanche – se non condizionalmente – alle certezze provvisorie da essa medesima appurate, e di essere sempre pronta a sbarazzarsene, se motivi solidi lo suggeriscono: e aspettiamo pertanto di vederla cancellare dal suo codice il dogma della sua estraneità ai problemi etici semplicemente perché afferiscono ad un piano diverso da quello materiale, di sua competenza. L’uomo non vive solo su quest’ultimo, e tuttavia vuole conoscere se stesso, anche in ogni altra dimensione: la sua realtà non è soltanto quella delle viscere, delle ossa, del cervello, e il suo raziocinio non gli dice nulla sulla sua funzione nell’universo, che egli indovina istintivamente essere la causa finale della sua esistenza; il raziocinio lavora con altrettanta precisione per curare i lebbrosi e per organizzare un profittevole omicidio. Per esercitare quella funzione, la conoscenza – sia pure imperfetta – è senza dubbio un preambolo necessario, ma concerne non solamente la realtà materiale, bensì anche quella spirituale, quella appunto che rivela alla coscienza la chiamata ad una funzione universale, il movente di integrazione; in quest’ultimo è già implicito il modo di comportamento ad esso congrue – la solidarietà attiva con l’esistente – così come nel movente di individuazione è già implicito il comportamento di autoconservazione, il soddisfacimento delle esigenze dell’organismo materiale. E così, per l’uno come per l’altro, occorre l’impegno della volontà di raggiungere i relativi “beni”, impegno che li pone come valori certi e postulativi: per il primo dei moventi suddetti, tali valori sono precisamente quelli etici. E poiché la conoscenza coinvolge tutta la realtà significata dai due moventi in questione, essa non può far a meno di essere guidata dai valori etici, così come le sono di orientamento, da sempre, i valori della sopravvivenza individuale: solo che, facendo parte, questa, dell’esistente universale considerato dai valori etici, la preminenza o priorità spetta ovviamente a questi ultimi nella gerarchi dei valori, cui l’uomo ha da attenersi nel suo comportamento, al pari della sua ricerca di sapere.
Di tanto anche l’uomo moderno è intimamente consapevole, nonostante il marasma imperante nella mentalità corrente delle masse e la carenza di istanze, in cui imparare qualcosa di concreto sui valori etici e sulla loro traduzione nella vita. Una volta, a cominciare dalla civiltà del villaggio, lo si veniva a conoscere in seno alla famiglia, custode di un’esperienza spirituale acquisita a contatto con la natura; oggi la stessa struttura della famiglia vacilla, e a mala pena vi si da peso alla morale convenzionale. Mentre è generalizzata l’istruzione scientifica agnostica e ristretta al mondo fisico, in quali mai scuole di frequentazione comune (non confessionali) si insegnano i principi dell’etica pura, si educano i giovani a capire la gerarchi dei valori che ne discende, le finalità che ne vengono prospettate, i sacrifici che queste implicano? Il disorientamento della gioventù odierna è il frutto di criteri di comportamento che ignorano quell’educazione; crediamo che se non la si reintroduce in qualche modo nella formazione dell’uomo – sin dall’età più tenera – sottoponendo a revisione critica i criteri di comportamento dominanti nella società attuale, le invocazioni ai moventi etici – le uniche in grado, a nostro avviso, di modificare in senso pure scientificamente più razionale i rapporti col suolo e quelli (che li condizionano) tra le categorie all’interno dell’umanità – a stento potranno produrre un effetto radicale e durevole sulle popolazioni, esposte come sono ora a essere inascoltate o sommerse da considerazioni utilitarie soggettive o di parte.
È chiaro comunque che l’educazione predispone, non fa scattare la volontà che trasfigura un valore etico in impegno vitale: di ciò ha da decidere l’individuo, proprio perché individuo, atto a conferire ad una finalità – col proprio impegno – certezza e credibilità inappellabili sul piano spirituale, e a realizzare su quel materiale la finalità stessa, nei limiti proporzionali allo sforzo dell’agente e alle resistenze che esso incontra. Se ben si guarda, questa creatività che ha valore etico confluisce con quella esercitata dietro lo stimolo dell’autoconservazione e la controlla, in quanto il comportamento individuale – sintesi coordinata di tutte le sollecitazioni – si adegua alla gerarchia dei valori dianzi precisata; e poiché la creatività, in ogni caso, è il modo di affermarsi dell’uomo come individuo, in quel comportamento vengono a combaciare armonicamente entrambi i moventi costitutivi dell’essere umano, di individuazione e di integrazione, intesi a svolgere un compito personale nel quadro universale, nel tempo e nello spazio concessi all’esistenza materiale. Un risultato – o meglio un processo creativo – in cui si appaga pienamente lo stesso divenire della vita. Ma per far scattare e impegnare la volontà che avvia a questa conclusione, non v’è che un mezzo: il  perfezionamento  inferiore  e  soggettivo  dell’uomo  nella  riflessione sul suo collegamento col cosmo: nessuna panacea di ordine sociale, politico od economico potrà esimere l’individuo da quel serio lavoro di ricerca e di illuminazione spirituale, ne recare alla società, e al mondo intorno, alcun bene sicuro e solido. Lo sviluppo spirituale è specifico dell’uomo come nuovo membro differenziato del vivente, e in tale sviluppo, necessariamente inerente a ogni singolo individuo, sta il ruolo primissimo di quest’ultimo sulla terra; non già per dominarla, come con leggerezza si ripete da tempo, bensì per rivestire del proprio spirito tutto l’esistente ed esserne colmato a sua volta in una comune compenetrazione e creatività, secondo la felice intuizione di un poeta-contadino: “E tu sei come l’acqua del fiume: / Cerco per tè una brocca, / Ed ecco che già sei una foresta, / E già sei un campo, / E già sei un viottolo…” (Vasil Goloborod’ko, Lituce vikonce [Finestre volanti]).

*Tratto da Comunità

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