Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

L’artigianato: tra memoria del passato e risorsa per il futuro

image_pdfScaricaimage_printStampa

Nell’antichità gli artigiani godettero di scarsa considerazione. Secondo Aristotele un artefice – “banausos” – che lavora con le mani non deve avere diritto di cittadinanza nella polis; egli lo riconduce ad una condizione  semi-servile. Le cose cambiarono solo molto lentamente e indubbio fu l’influsso del cristianesimo.

Nel tardo Medioevo e nel Rinascimento l’artigianato raggiunse il suo massimo splendore. Tra l’XI e il XIV sec. rappresenta l’ossatura economica portante della società europea: è il principale motore dello sviluppo culturale della città; fornisce la base delle autonomie comunali; rende possibile un vasto scambio di merci pregiate; contribuisce in modo decisivo alla realizzazione di grandi capolavori di architettura, scultura, pittura.

Dopo aver gravitato a lungo attorno ai centri di potere feudali ed ecclesiastici, gli artigiani, attraverso le libertà comunali, acquistano una propria autonomia e contribuiscono alla nascita della borghesia.

Nel Rinascimento le botteghe degli artigiani italiani godono di grande fama, esse costituiscono le fucine in cui si formano schiere di artisti. Ma è proprio in questo momento, con il ritorno all’Antichità, e la formulazione di una netta distinzione tra arte e artigianato, che quest’ultimo è destinato a perdere molto del suo prestigio sociale e culturale. D’altra parte le monarchie assolute gli precludono ogni spazio politico. Gli artigiani si rinserrano nelle loro corporazioni.

Accanto a questa storia, eminentemente cittadina, ce n’è stata un’altra, molto meno nota, che ha riguardato l’artigianato rurale, talvolta femminile e domestico, spesso di carattere stagionale, tra industria a domicilio e arte popolare.

Con la rivoluzione industriale, l’artigianato sembra destinato a scomparire. Sul versante dell’alta cultura, l’esaltazione romantica dell’artista, difensore della spiritualità dell’arte contro il materialismo utilitaristico, pone una barriera invalicabile tra arte e artigianato, idealità e manualità. Sul versante economico-produttivo, l’industria, abile imitatrice dei modelli artigianali, sembra in grado di produrre a basso costo tutto ciò che usciva dalle botteghe degli artigiani.

 Le principali ideologie politiche ed economiche dell’Ottocento, anche se di segno opposto, adottarono questo quadro esplicativo, quindi l’artigianato cominciò ad essere considerato residuale e arcaico sia dai fautori del capitalismo industriale sia dai teorici del collettivismo socialista o comunista.

Nella realtà storica le cose andarono diversamente: l’industrializzazione non cancellò affatto i mestieri artigiani. Le stesse fabbriche, con gli operai di mestiere e alcune fasce di tecnici, riprodussero e allargarono il fronte delle abilità artigiane. Nel contempo l’artigianato costituiva una risorsa per l’industria, cosicché, anche attraverso la mediazione di scuole laiche e religiose, venne ad instaurarsi un interscambio continuo tra mondi erroneamente ritenuti separati. Del resto nella stessa Francia rivoluzionaria, con il venir meno delle corporazioni, era emersa la necessità di formare e qualificare le maestranze ed era stato creato il Conservatorio di Arti e Mestieri.

Di particolare interesse, trattandosi della patria della rivoluzione industriale, fu la critica di John Ruskin e William Morris alla produzione industriale dell’epoca, fatta conoscere dall’Esposizione Universale di Londra del 1851. Essi presero di mira la banalità e ripetitività dei manufatti del macchinismo, propugnando una rinascita dell’artigianato medievale. Morris diede vita ad un centro di produzione (pittura, incisione, metalli, mobili, ecc.) che ebbe forte influsso per la diffusione dell’Art Nouveau, da noi conosciuta come arte Liberty, in cui è centrale la dimensione dell’artigianato, concepito come ponte e legame tra arte e industria.

L’incontro tra arte e industria, reso possibile dalla tradizione artigianale di qualità, emerse in modo significativo anche in Italia, nella seconda metà dell’Ottocento, in coincidenza con l’avvio dell’industrializzazione. Si trattava di dare nuova linfa all’artigianato di alto valore artistico che vantava tradizioni secolari e che godeva ancora di un forte prestigio: dalle manifatture di vetro e cristallo di Murano, alle porcellane Ginori, all’ebanistica di Bologna, Pisa, Siena, alla costruzione di mobili di Milano, all’oreficeria di Roma e Napoli, all’alabastro di Volterra, alla lavorazione del corallo del Napoletano, ai mosaici di Venezia, Roma e Firenze, per limitarsi a un sommario elenco dei prodotti apprezzati su scala europea.

La produzione dell’artigianato artistico, sia pure a livelli qualitativi differenziati, è continuata ininterrottamente sino ai giorni nostri, ma si è trattato di un percorso per gran parte spontaneo, sconfiggendo l’indifferenza o l’ostilità delle principali correnti culturali novecentesche.

  Emblematica in tal senso la vicenda, poco conosciuta, dei musei artistici industriali italiani, sorti tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento ed entrati in rapida decadenza nella temperie novecentesca, dominata delle ideologie di massa.

Lo spunto iniziale veniva dall’Inghilterra dove, a seguito della citata Esposizione Universale del 1851, fu fondato il South Kensington Museum (poi Victoria  and Albert Museum). L’obiettivo di questo museo, come dei meno fortunati musei italiani che lo assunsero a modello, per non dire di altre esperienze europee, era di promuovere l’arte applicata all’industria, dando impulso all’art manifacturer capace di realizzare una produzione artistica destinata alla fabbricazione industriale. Come si vede siamo agli esordi del design, che molti decenni dopo avrebbe trovato in Italia il suo terreno di elezione, realizzando nel modo più efficace l’incontro tra artigianato, arte e industria.

I musei artistici industriali intendevano migliorare il gusto del pubblico e spingere i produttori a realizzare manufatti che fossero ad un tempo gradevoli e funzionali. Uscendo dalla nicchia delle produzioni di lusso, attraverso l’arte applicata, ci si prefiggeva di far rivivere l’artigianato nel nuovo contesto definito dall’avvio dell’industrializzazione. L’iniziativa più importante per il nostro Paese fu il Museo Artistico Industriale inaugurato a Roma nel 1874, e, dopo una vicenda tormentata, definitivamente smembrato nel 1952.

Altri musei che perseguivano finalità analoghe ponendo l’accento, a seconda dei casi, più sull’industria o sull’artigianato, furono il Museo Vetrario di Murano (1861), il Museo Industriale di Torino (1862), il Museo Artistico Municipale di Milano (1873), il Museo Artistico Industriale di Napoli (1880). Anch’essi destinati ad essere cancellati nel Novecento.

Caratteristica saliente di questi musei, in piena contraddizione con l’immagine ancora corrente di luoghi polverosi e statici, era l’impegno prevalente, rispetto alla conservazione dei reperti, nelle attività di formazione. La loro missione era di formare operatori qualificati nelle arti applicate, in sostanza nuove generazioni di artigiani.

Dal Museo Artistico Industriale di Roma, nel periodo di massimo successo, a cavallo tra il XIX e XX secolo, uscirono artisti come Giuseppe Cellini, Duilio Cambellotti, Alberto Gerardi, Adolfo De Carolis, ma anche semplici litografi, intagliatori, disegnatori di mobili, decoratori d’arte muraria. Il tentativo dei promotori del Museo di rilanciare a livello europeo le manifatture italiane, facendo leva su una produzione di alto livello estetico, capace di coniugare artigianato e industria, era troppo ardito per i tempi e non trovò adeguato ascolto né presso la classe politica né presso la neonata borghesia industriale.

            La produzione manifatturiera artigianale continuò a svilupparsi molecolarmente, sia in continuità con le antiche lavorazioni sia entrando nell’orbita dell’industria, senza avere una visibilità e un prestigio, eccetto poche eccezioni, adeguati alla sua importanza economica e culturale.

È prevalsa a lungo l’idea che l’artigiano fosse una figura destinata a scomparire, marginale e arcaica, quasi medievale, o tutt’al più rinascimentale, ma comunque una sopravvivenza di altre epoche. Tale rappresentazione ha oscurato le reali dimensioni economiche e sociali del mondo artigiano, e della sua complessità interna, sino a ritrovarsi del tutto spiazzata di fronte al panorama messo in luce dalla fine dell’egemonia culturale della grande fabbrica fordista.

Nel contesto italiano l’accento è stato posto sempre più sulle piccole e medie imprese (PMI), siano esse organizzate o meno in forma distrettuale. Economisti e sociologi hanno in tal modo cercato di mettere a fuoco la struttura portante del nostro sistema economico, però il concetto di PMI rischia, ancora una volta,  di trascurare la realtà minuta ma fiorente dell’artigianato, un tessuto vitale per l’economia e la società.

Dalle attività più tradizionali a quelle più innovative, l’artigianato è risorto sulle ceneri della massificazione e standardizzazione, andando incontro a mutamenti del gusto e dei valori, alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie informatiche. Si consideri tra le prime quella edile, che, secondo le previsioni, avrebbe dovuto essere sconvolta dalla industrializzazione  dei componenti prefabbricati. In effetti non sono mancati sviluppi in tal senso, con la creazione, per altro, di professionalità e strutture imprenditoriali di tipo artigiano: trasportatori, gruisti, montatori, carpentieri, ecc.

Ma si pensi all’imponente fenomeno di recupero e rilancio dei centri storici delle cento e cento città italiane, terreno d’elezione delle ditte artigiane, e occasione di recupero di antichi saperi e sperimentazione di nuove tecnologie.

Considerazioni analoghe si possono fare per numerosi altri settori, per tale motivo il concetto di PMI, generalizzatosi e banalizzatosi, deve essere assunto con prudenza. Esso infatti tende ad oscurare il mondo dell’artigianato che è invece intrecciato, più che confinante, con quello delle piccole imprese.

Per altro, in molti casi, anche il concetto di “distretto industriale”, che ha goduto di giusta fortuna per mettere a fuoco il radicamento territoriale di parti significative della nostra industria, dovrebbe aprirsi al ruolo imprescindibile dell’artigianato ai fini della creazione e riproduzione del “capitale sociale e umano”, vale a dire della risorsa cruciale su cui oggi come ieri deve poter contare il nostro sviluppo economico.

A sua volta, il mondo artigiano, anche limitandosi al solo settore manifatturiero, è interessato da profondi processi di differenziazione. I nuovi artigiani sono spesso in possesso di un titolo di studio di scuola superiore o anche di laurea, sono aperti all’uso delle ITC (Information and Communication Technologies), ovvero lavorano proprio in tale settore. Sul piano economico la differenza più significativa è  tra artigiani che lavorano da soli, o con un massimo di tre addetti, e artigiani-imprenditori che impiegano sino a dieci e più addetti, sconfinando nel mondo delle piccole imprese.

Per quanto riguarda l’uso delle tecnologie informatiche, a partire da Internet, la differenziazione ha tratti fortemente generazionali e sempre più il digital divide segnala il confine tra gli artigiani, di qualsiasi settore, che riescono ad avere successo e quelli che rimangono attestati sulla routine e in ambiti decisamente ristretti.

La distinzione tra artigianato tradizionale e nuovi artigiani è indispensabile ma va utilizzata in modo oculato. Ci possono essere artigiani “tradizionali” che occupano posizioni di eccellenza, non solo quando si ha a che fare con prodotti artistici; di contro artigiani che operano nel settore ICT non in grado di tenere il passo con l’innovazione. In realtà l’artigianato è attualmente una nebulosa sociale poco conosciuta e poco indagata. Sul piano storico, ad esempio, non è stata sufficientemente studiata la matrice contadina di molto artigianato diffusosi in coincidenza con le ondate dell’industrializzazione. Sul piano sociologico lo stesso si può dire per la diffusione di imprese artigiane nel mondo dell’immigrazione extracomunitaria, in sintonia con quanto avvenuto per le emigrazioni interne di pochi decenni prima.

Le trasformazioni avvenute negli anni Novanta hanno profondamente modificato il mondo dell’artigianato, rendendo obsoleta la visione tradizionale che continua a sopravvivere nel senso comune senza più avere una corrispondenza plausibile con la realtà. La visione comune lega l’artigiano soprattutto a delle abilità manuali, ad un saper fare che si apprende nella pratica, nel lavoro di “bottega”. Nell’immagine collettiva, il ragazzo destinato a fare l’artigiano – senza considerare che tra i “nuovi artigiani” moltissime sono donne – è quello che non ha voglia di studiare e che, quindi, va ad imparare un mestiere, o direttamente a bottega, o frequentando una scuola di formazione professionale o di avviamento al lavoro. Queste scuole, destinate a trasmettere capacità manuali, vengono considerate, proprio per tale motivo, le cenerentole  dell’istruzione superiore, imparagonabili agli istituti frequentati da chi un giorno eserciterà una professione liberale o entrerà a far parte della classe dirigente.

L’istruzione superiore nel nostro Paese è stata da sempre attraversata da una dicotomia: da una parte i licei e le scuole che ad essi tentavano di assomigliare, dall’altra le scuole di arti e mestieri che hanno fatto posto alla galassia di istituti tecnici e professionali che non riuscivano a fare il salto verso i licei. Tutto ciò, oltre ad avere implicazioni negative nel rapporto tra la scuola e la società, era legato, nello specifico, ad una concezione che assegnava all’artigianato un ruolo marginale e residuale nello sviluppo dell’economia nazionale. Una visione alla quale ha contribuito non poco il racconto che la vulgata  ha fatto della storia del nostro sviluppo industriale, tutta incentrata sulla grande impresa. Al punto che molti, di fronte alla scomparsa di grandi nomi dell’industria italiana come Ansaldo, Montecatini, Olivetti, nonché alle difficoltà di Fiat e Pirelli, pensano che ormai l’Italia sia in piena deindustrializzazione. È ovvio che se non si riescono a vedere né i distretti né le medie imprese di successo, risulta impossibile cogliere l’importanza dell’artigianato.

Gli esiti dello sviluppo socioeconomico hanno messo in luce l’insufficienza di questa valutazione, incapace di cogliere le specificità dell’assetto produttivo italiano, profondamente calato nel territorio e capace di intercettare le opportunità offerte dalla rivoluzione informatica. Il punto debole è dato piuttosto dalla perdurante separazione tra scuola e lavoro, a tutti i livelli, università inclusa, quindi anche tra scienza e tecnologia, ricerca e industria.

L’artigiano, in modo spontaneo, incarna invece l’incontro tra sapere e lavoro, intelligenza e abilità professionale. In particolare le fasce più avanzate di giovani artigiani, al passo con la rivoluzione tecnologica, dimostrano grande spirito di iniziativa ed elevata propensione all’innovazione. Nei nuovi scenari globali che impongono all’Italia un rapido spostamento verso produzioni di qualità, con enormi possibilità di mercato, l’artigianato può giocare un ruolo di primo piano. Esso non è affatto residuale ma si inserisce perfettamente in un modello di organizzazione economica, vitale ma ignorata dall’informazione, in cui più  del capitale finanziario e del potere politico, su cui ha fatto leva la vecchia borghesia industriale, contano il  capitale culturale, vale a dire le abilità e capacità professionali, le competenze, la creatività e lo spirito di iniziativa, l’autostima derivante da attività portatrici di senso, nonché il capitale sociale, vale a dire la capacità di creare reti di relazioni (una caratteristica ben presente nell’artigianato storico e che può essere ripresa su nuovi livelli e ambiti più vasti nell’epoca delle comunità immateriali).

I giovani artigiani si collocano sempre più in queste coordinate. Ciò appare evidente nei nuovi mestieri, come le attività legate alla net-economy e alle nuove tecnologie, che presuppongono bassi investimenti in capitale fisso e sono compatibili con uno scarso capitale economico iniziale, ma richiedono un forte capitale personale e relazionale. Siamo così in presenza di veri e propri “artigiani della conoscenza”.

Ma anche l’artigianato dei settori tradizionali, non più legato ad un ristretto mercato locale, si è trasformato, riuscendo a coniugare il saper fare con il saper comunicare, in linea con gli imperativi di una modernità in continua trasformazione che premia i fattori immateriali, tanto nella produzione quanto nel consumo.

Nonostante la ancora scarsa percezione che se ne ha all’esterno, il mondo dell’artigianato si è evoluto profondamente; l’artigianato moderno è un’attività che gode di prestigio e che non ha nulla da invidiare alle altre professioni, anzi può essere preferibile perché consente di realizzare aspirazioni e valori che si sono diffusi nelle fasce d’età più giovani: l’autonomia, l’autorealizzazione, l’affermazione di sé, la possibilità di coniugare reddito e senso. Anche la fisionomia dell’impresa artigiana sta cambiando, mentre tradizionalmente era su base famigliare, con trasmissione del mestiere dal padre al figlio, nelle imprese di nuova creazione prevale l’associazione tra amici, tra persone che hanno avuto esperienze in comune di lavoro dipendente o parasubordinato.

La rivincita sociale dell’artigianato è un fenomeno relativamente recente, e su cui non c’è adeguata letteratura, a  differenza delle PMI e dei “distretti”, molto frequentati a livello economico-sociologico e anche dal giornalismo economico. D’altro canto una lettura puramente economicistica non consentirebbe di cogliere le peculiarità salienti del nuovo artigianato. Le moderne attività artigianali, in continuità con i mestieri del passato, pur essendo aggiornate tecnologicamente o operando nel campo delle nuove tecnologie, non hanno come obiettivo esclusivo di fare business, come avviene nelle grandi imprese; l’impresa artigiana è lo strumento per creare qualcosa di significativo partendo da una semplice idea, per dare una dimensione più umana al lavoro, al limite per avere la soddisfazione di creare qualcosa che possa servire a qualcun altro.

 Nell’autopercezione dei nuovi artigiani è molto forte il concetto del fare qualcosa di importante perché frutto del proprio lavoro manuale-intellettuale. Ci può essere chi lavora di più con le mani e chi usa prevalentemente il cervello ma non c’è separazione tra le due cose. L’idea base è che l’artigiano esprime una autonoma capacità creativa; in un certo senso la cosa a cui tiene di più è l’autonomia. In questa fase di rinascita l’artigiano è lontano sia dalle forme organizzative tipiche del lavoro dipendente che da quelle corporative dei suoi antenati. Antropologicamente è un campione di individualismo, aperto a molteplici relazioni: funzionali, economiche, sociali, purché non ne intacchino l’autonomia, lo spirito di iniziativa, l’attitudine al rischio.

Di contro il mondo dell’artigianato è debole politicamente e incontra gravi problemi nel rapporto con le banche e il capitale finanziario. La mancanza di visibilità rappresenta l’ostacolo principale che ha di fronte, non facile da superare perché è il portato di consolidati pregiudizi culturali e ideologici fattisi senso comune. L’idea prevalente è che l’artigiano si muova in una sfera strettamente locale, che i suoi clienti e committenti appartengano al territorio di cui l’artigianato, in molti casi, è l’espressione. I dati macroeconomici ci dicono che non è così. All’inizio del nuovo secolo l’apporto complessivo di un comparto pressoché ignorato dal dibattito pubblico è stato di circa il 17% sul totale delle nostre esportazioni, all’interno di un trend in espansione.

Gli artigiani esportatori lavorano sia in settori di punta che in settori tradizionali quali l’abbigliamento, la lavorazione del legno, di prodotti agricoli e alimentari, dei metalli preziosi, della ceramica, del vetro, del marmo, ecc., in cui continua ad essere molto forte la fama del made in Italy. Ancor più che nel caso della PMI, gli artigiani esportatori si sono riposizionati sulle fasce alte del mercato puntando al top. Questa scelta da un lato remunera maggiormente le quantità poco elevate di prodotti che un’impresa artigiana può realizzare, dall’altro elude il rischio di una concorrenza basata sul prezzo da parte di competitori extra-europei. Non sono pochi gli artigiani italiani di fatto privi di concorrenti. Una posizione che per essere mantenuta e consolidata richiederebbe però politiche attive di sostegno, a partire dalla formazione, dato che gli altri imparano in fretta e ogni cultura di qualche consistenza ha nel proprio retaggio storico una ricca e varia tradizione artigianale, che può essere rilanciata e valorizzata nel contesto della circolazione globale di uomini e merci.

Focalizzare l’attenzione sugli artigiani esportatori è efficace per modificare rappresentazioni che non rispondono più alla realtà, ma, a sua volta, può far perdere di vista altre dimensioni non meno importanti e ancor più oscurate. Nella convinzione corrente, come già detto, il mondo degli artigiani è considerato residuale e destinato a scomparire con l’innovazione continua delle tecnologie. Il modello è: grande impresa globalizzata –grande distribuzione – grandi campagne pubblicitarie – consumatori finali. Il modello è quello dell’usa e getta, dell’abbreviazione massima del ciclo di vita delle merci, in cui non c’è posto, da ogni punto di vista, per gli artigiani. Noi sappiamo che nella realtà le cose non stanno così, ma non possiamo negare che questo sia il trend prevalente, se si eccettua la fascia ampia ma, su scala globale, ininfluente, di coloro che sono fuori o ai margini estremi dell’economia e, di contro, le élites ristrette che occupano i vertici e che possono permettersi merci personalizzate di altissimo pregio e costo.

Il modello del grande business, centrato su consumi di massa crescenti e generalizzati, è però palesemente insostenibile. Può darsi che non si sia in grado o che sia politicamente impossibile intraprendere con decisione una via neotecnica, recuperando la consapevolezza dei limiti e sviluppando delle tecnologie appropriate a tale scenario. Se però una tale via, per scelta o necessità, fosse intrapresa con decisione, allora gli artigiani, da sempre manutentori e riparatori, avrebbero un ruolo cruciale da svolgere, al di là di quanto già non avvenga nelle pieghe della nostra economia e dietro le quinte della nostra società.

N.B.: Nella stesura del testo sono stati utilizzati, in particolare, i contributi apparsi in “Qui Nord-Ovest. Quaderni di indagine sul nord-ovest per l’artigianato e le P.M.I.”, nn. 3, 7, 8, 2001-2003.

image_pdfScaricaimage_printStampa
Total
0
Shares
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articolo Precedente

Modernità e contadini

Articolo Successivo

RSI e mondo del lavoro: ancora su comunisti e operai

Articoli Collegati
Total
0
Share