Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

RSI e mondo del lavoro: ancora su comunisti e operai

image_pdfScaricaimage_printStampa

1. Gli operai hanno goduto, in un passato relativamente recente, di una notevole attenzione da parte della storiografia. Quella stagione, per altro molto breve, è tramontata del tutto, se non sul piano delle ricerche su quello del dibattito politico-culturale. Il conflitto revisionismo-antirevisionismo ha inevitabilmente spostato il fulcro dell’attenzione su di un piano ideologico, indebolendo e condizionando la storia sociale, già di per sé non molto brillante nel nostro Paese, al punto che tutte le principali innovazioni, interpretative e documentarie, negli studi sul mondo del lavoro hanno avuto, da noi, un’origine extra-accademica. D’altro canto, allorché la ricerca sulle classi lavoratrici è entrata negli insegnamenti universitari, per effetto dell’andamento del ciclo politico complessivo, ciò si è tradotto nella sistematica dissoluzione o decostruzione dei quadri interpretativi generali; per cui, ad esempio, di classe operaia si poteva parlare solo in senso negativo, nell’ottica della sua inesistenza sia come classe in sé, ovvero in termini sociologici, sia come classe per sé, capace di una autonoma azione politica.

In sostanza si è passati da una sovraesposizione del mondo del lavoro subordinato con al centro gli operai di fabbrica, investiti di una missione salvifica, alla loro cancellazione in quanto soggetti capaci di comportamenti e azioni storicamente rilevanti. Giustamente è stato osservato che la critica e l’abbattimento del mito operaio si sono tradotti nella scomparsa del mondo operaio, ricacciato in una zona d’ombra, in un sottosuolo della storia esplorabile con gli strumenti dell’antropologia e dell’etnografia, piuttosto che della storia politica ed economico-sociale.

Inutile dire che tutto ciò non è avvenuto per caso, bensì per effetto di formidabili sconvolgimenti che, tra le altre cose, hanno segnato la fine del movimento operaio organizzato del Novecento. Quel che qui ci interessa ha una portata più circoscritta ma non priva di qualche rilievo per capire alcuni passaggi cruciali della nostra storia.

In specifico la nostra tesi è che negli anni 1943-’45 tra mondo operaio e Rsi si giochi una partita decisiva che condizionerà tutte le vicende successive, con ripercussioni che giungono sino ad oggi, nonostante che da tempo si sia persa la memoria di quegli eventi, in certi momenti mitizzati ma sempre scarsamente indagati e con strumenti, a nostro avviso, inadeguati e svianti.

2. Tra fascismo e operai c’era una partita aperta. Come è noto, una spiegazione-giustificazione del fascismo individua nel comportamento operaio durante il “Biennio rosso”, segnato dal tentativo di “fare come in Russia”, la causa scatenante del fascismo, o meglio la base del suo successo grazie all’appoggio di tutti coloro che avevano paura della rivoluzione comunista voluta dagli operai.

In un’altra ottica i conti erano aperti perché il fascismo aveva vinto sconfiggendo il movimento operaio, incapace con le sue lotte e i suoi scioperi di fermarlo. Appropriatosi dell’ideologia della conquista violenta del potere, il fascismo aveva diretto le sue forze contro le istituzioni e organizzazioni del movimento operaio, distruggendole con l’aiuto del padronato e degli apparati statali.

Nonostante gli sforzi propagandistici e le politiche sociali poste in atto non si può dire che il fascismo fosse riuscito a sfondare nel mondo del lavoro, come invece era avvenuto in altri ambienti.

Ancor prima dello scoppio della guerra, Mussolini aveva potuto misurare il distacco incolmabile tra operai e fascismo, basti pensare alla gelida accoglienza ricevuta in occasione dell’inaugurazione di Mirafiori nel 1939. È vero che non ci fu un’opposizione operaia alla guerra, almeno sino a quando gli operai stessi non ne divennero direttamente il bersaglio con i bombardamenti alleati sulle fabbriche e sulle città. Bisogna anche tener conto che la tradizione pacifista, molto forte nel movimento operaio ottocentesco, era stata distrutta dalla Prima guerra mondiale, dalla vittoria del fascismo e, per altro verso, dalla vittoria del bolscevismo. Il pacifismo era poi stato squalificato dalla palese impotenza, non priva di ambiguità, manifestata di fronte al nazismo e alla sua forsennata spinta bellicista e imperialista.

Su questo sfondo, e per non valutare con criteri anacronistici i comportamenti collettivi dell’epoca, bisogna tener conto che il rifiuto della guerra nel mondo operaio e contadino non prese corpo per influsso delle culture politiche organizzate ma sulla base dell’esperienza diretta nei luoghi di lavoro e al fronte.

È vero altresì che la lotta contro la guerra e il fascismo che l’aveva voluta, sino a farne lo scopo della sua esistenza, maturò lentamente e non coinvolse l’intera classe operaia ma solo corpose minoranze, che in quelle dimensioni non trovavano riscontro in altri ceti sociali. Quel che importa non è la riproposizione di vecchi e nuovi stereotipi, oscillanti tra l’esaltazione e la delusione o la condanna, come se gli operai potessero essere di per sé o tutti rivoluzionari o tutti opportunisti, riproponendo l’eco di antiche dispute che hanno perso ogni significato.

Importante è indagare i comportamenti e le scelte degli operai di fronte alla guerra e alla Rsi, secondo coordinate spazio-temporali ben determinate, a Milano, Torino, Genova, oppure nelle città e fabbriche medio-piccole, e in precisi momenti della vicenda bellica, prima e dopo il 25 luglio e l’8 settembre del ’43, per non dire dopo il 25 aprile ’45. La disaggregazione analitica è indispensabile ma serve a capire solo se non si perde il senso complessivo degli avvenimenti e il rilievo del contesto in cui si sviluppavano.

Così la sottolineatura del corporativismo, economicismo, opportunismo degli operai che non hanno di mira il bene collettivo o le mete proposte dai diversi attori politici ma solo il loro “sacro egoismo”, riprendendo con segno rovesciato un infelice clichè operaista, è una costruzione a posteriori carica di ideologia, consapevole o inconsapevole, del tutto speculare alla celebrazione di una autonomia operaia ipostatizzata e fittizia.

I comportamenti operai debbono essere analizzati e valutati nel contesto specifico in cui si svilupparono. É così giocoforza richiamare alcuni dati elementari che censori ed esaltatori della classe operaia sono portati a dimenticare.

3. Con la guerra e la militarizzazione delle fabbriche ogni atto di indisciplina, ogni comportamento irregolare, si carica di significati politici e viene duramente represso. La repressione non riesce a sradicare il dissenso, che viene arginato sia colpendo capillarmente ed efficacemente qualsiasi tentativo di organizzazione antifascista (lo stesso Pci è messo completamente fuori gioco) sia proponendo agli operai uno scambio: lavorare per la nazione in guerra in cambio di miglioramenti economici. Un “contratto” che il fascismo non riesce a rispettare anche perché le fabbriche e le città diventano i bersagli indifesi dei bombardamenti angloamericani. Maturano le condizioni per il grande sciopero del marzo ’43, uno degli eventi cruciali nella storia italiana del Novecento, oggetto di importanti ricerche e ricostruzioni, ruotanti attorno all’interrogativo classico: spontaneità o organizzazione, con l’inevitabile rimando al ruolo che vi ebbero i comunisti e il partito comunista. E in effetti il rapporto tra classe operaia e Pci resta un tema da indagare nonostante (e a causa) del profluvio di pagine che vi sono state dedicate. Per quanto riguarda gli scioperi del marzo ’43, ma lo stesso vale per quelli successivi, almeno sino allo sciopero “insurrezionale” del marzo ’44 che ebbe caratteri di partito ben più marcati, è incontestabile il ruolo di primo piano che vi ebbero gli operai comunisti, ma è altrettanto certo che non furono né organizzati né guidati dal partito comunista.

Secondo alcuni questo fatto, unito alle parole d’ordine degli scioperanti, sarebbe indice della natura non politica, bensì puramente rivendicativa, dell’azione operaia. Effettivamente le richieste erano davvero elementari: “pane e pace”, nondimeno Mussolini considerò lo sciopero eversivo dell’ordine fascista, uno sciopero contro la guerra. Il suo giudizio fortemente interessato sembra più lucido di quello di storiografi con pretese scientifico-avalutative, in realtà pesantemente condizionati da una concezione più che ristretta della politica, a cui concorrono ingredienti vari sia di destra che di sinistra, riassumibile nell’idea della subalternità insuperabile, ontologica, del mondo del lavoro, destinato ad essere sempre e comunque eterodiretto da altri, siano essi imprenditori o politici di professione. Nasce di qui l’incomprensione della frattura che si manifesta attraverso il protagonismo operaio nel ’43-’44. Ma anche i ripiegamenti, le sconfitte, le chiusure, altrettanto innegabili, acquistano un senso solo se si restituisce ai soggetti sociali la possibilità (non la certezza) di agire autonomamente e con assunzione di responsabilità, in contesti determinati,  che forniscono sia opportunità che condizionamenti.

A partire dal settembre ’43 la situazione in cui viene a trovarsi il mondo del lavoro è definita, oltre che dalla guerra, dall’occupazione tedesca e dalla Repubblica di Salò voluta da Hitler (e Mussolini). Per diversi mesi il fattore Resistenza, nell’accezione ristretta di guerra partigiana, incide molto meno di tutti gli altri. D’altro canto il rapporto operai-partigiani, fabbriche-formazioni armate (di città, pianura, montagna), è un altro grande tema che andrebbe rivisitato sgombrando il campo da molte superfetazioni.

Nel contesto della Rsi il protagonismo operaio, espressosi con forza lungo tutto il ’43, presenta una parabola discendente, di cui viene data una spiegazione in chiave economicistica, sulla base del seguente schema: le condizioni belliche offrivano alla classe operaia (del Nord) una forza contrattuale inusuale, specie dopo la decisione tedesca di sfruttare al massimo gli impianti in Italia piuttosto che trasferirli in Germania. È una forza che viene meno con il passare dei mesi, e il peggiorare dello scenario della guerra. Quindi l’ascesa della lotta è da collegare al peso oggettivo di una classe operaia il cui apporto è decisivo allo sforzo bellico nazista; il declino si manifesta, a partire dall’estate del ’44, come effetto del progressivo indebolimento dell’apparato industriale italiano. Sarebbe assurdo non tener conto del ciclo economico-produttivo e dei suoi dati strutturali, ma il rapporto meccanico instaurato con i comportamenti operai è insoddisfacente. Tra l’altro, la chiave di lettura offerta non riesce a spiegare la genesi delle lotte (scioperi del marzo ’43), né i loro sviluppi durante i 45 giorni (scioperi dell’agosto ’43). Anche il discorso sul declino della produzione negli ultimi mesi della guerra necessita di distinguo; ancora recentemente uno specialista come Lutz Klinkhammer ha sottolineato che molte fabbriche sotto controllo tedesco avevano continuato a produrre a pieno ritmo sino alla fine.

In sostanza l’indagine sul mondo del lavoro industriale deve ricorrere a chiavi interpretative più sofisticate, oltre che allargare l’attenzione a settori rimasti in ombra. A titolo esemplificativo si segnala che rimangono ampiamente da indagare i comportamenti e le scelte degli impiegati e dei tecnici, dei dirigenti d’azienda e degli imprenditori. Settori questi ultimi su cui è stato accumulato un grande ritardo, anche se non mancano le fonti documentarie, come dimostrano le ricerche dello storico tedesco Goetz Aly basate sugli archivi della Banca d’Italia.

4. Per quanto riguarda la composizione politica del mondo del lavoro operaio l’accento è stato posto in termini preponderanti sugli operai comunisti, il che è giusto perché il fatto principale è costituito dal grande successo del Pci nelle fabbriche del Nord. L’incontro e la saldatura tra classe operaia e partito comunista rappresentano, a nostro avviso, il dato saliente e fondamentale della storia italiana tra il 1943 e il 1945, non adeguatamente analizzato e interpretato nella sua dinamica, motivazioni e conseguenze. Nondimeno sappiamo davvero troppo poco degli operai di altro orientamento politico, dai socialisti ai cattolici agli anarchici. Per non dire degli operai fascisti, specie di coloro che svolsero qualche ruolo nelle commissioni interne, tenendo conto che, anche nel caso degli operai, vi furono passaggi, più o meno rapidi, da una posizione all’altra, senza con ciò perdersi nel caleidoscopio dei casi individuali, ma cercando di cogliere il senso dei processi complessivi, e il peso che ha avuto l’approdo della maggioranza degli operai di fabbrica sulle posizioni del partito comunista.

Per molto tempo è invalsa la tesi, priva di ogni fondamento, che gli operai fossero portati ad aderire spontaneamente al comunismo, quasi che fossero comunisti non per precise cause storiche da indagare ma per natura e predisposizione, più o meno legata alla loro origine, all’ambiente e al tipo di lavoro. Argomenti, tra l’altro, ben presenti nelle fonti di polizia della Rsi a giustificazione dell’insuccesso di politiche accentuatamente filo-operaie, quali la socializzazione delle aziende.

I dirigenti e i quadri del Pci non condividevano affatto una tale rappresentazione di comodo e furono loro stessi stupiti quando gli operai presero ad aderire in massa al partito. Nei primi anni della guerra il giudizio del partito sulla classe operaia italiana era pesantemente negativo. Togliatti, nel 1941, la considerava sconfitta e integrata da parte del fascismo, per cui potrà recuperare la sua funzione storica solo sotto la direzione del partito1Cfr. Analisi e prospettive politiche in un documento del 1941 riveduto da Togliatti, in “Critica marxista”, gen.- feb. 1968..Gli scioperi del marzo ’43 smentiranno una tale previsione, ma anche dopo di essi la linea del Pci è incerta, così che durante i “45 giorni” il partito finisce con il contrapporsi agli scioperi dell’agosto. In quel momento Togliatti, da Mosca, appoggia le lotte e attacca il comunista Roveda che ha accettato la carica di vice-commissario della Confederazione dei lavoratori dell’industria.

Ma dopo l’8 settembre, ben prima della “svolta” di Salerno, la linea del partito cambia e questa volta è Togliatti a mettere al primo posto l’unità nazionale, attorno a Badoglio, in funzione della vittoria nella guerra, il cui peso è sostenuto principalmente dall’Urss. Stabilito che nel partito comunista non ci fu mai una vera alternativa alla leadership di Togliatti, tutta la problematica della “doppiezza” non è significativa per le lotte coperte o scoperte tra i vari dirigenti quanto per il rapporto complesso tra il partito e la sua base, sia sul versante delle esperienze e le scelte che gli operai stavano facendo sia per il mito che si erano costruiti dell’Urss.

L’obiettivo di Togliatti è di capitalizzare un patrimonio insostituibile, utilizzandolo nell’immediato senza depotenziarlo troppo rispetto a traguardi ulteriori da procrastinare nel tempo. Forte di un investitura superiore, pur essendo pressoché sconosciuto alle masse cui si rivolge, prende di petto la questione e in modo netto proclama: «oggi (sott. nostra) non si pone agli operai italiani il compito di fare ciò che è stato fatto in Russia […]. Lo scopo fondamentale è quello di fare la guerra». Ne discendeva che la lotta di classe doveva essere subordinata alla guerra di liberazione nazionale.

Sulla questione della guerra, che sovradetermina ogni altra, la posizione del partito cambia in rapporto allo scenario internazionale, in totale sintonia con le esigenze e le scelte dell’Urss. La posizione degli operai è invece del tutto lineare, gli scioperi del ’43-’45 sono costantemente a favore della pace e per l’uscita dell’Italia dalla guerra. Queste parole d’ordine caratterizzano gli scioperi dell’agosto ’43 non meno di quelli del marzo ’43 e così sarà anche durante la Repubblica di Salò. Nonostante questa linearità, coerenza e determinazione, le forze politiche antifasciste, partito comunista incluso, tardano molto nel capire il potenziale di lotta degli operai, venendo a trovarsi a rimorchio delle loro azioni, che ripetutamente si sviluppano in modo spontaneo. La cosa è abbastanza sconcertante, ed è la spia di una separatezza  che ha radici culturali molto profonde. Sconcertante anche perché le parole d’ordine sono tanto elementari quando radicate nei bisogni realissimi delle persone (“pane e pace”).

5. Il radicale cambiamento di scenario che si ha con la creazione della Rsi e l’occupazione tedesca non interrompe il ciclo delle lotte né modifica l’atteggiamento delle pur esigue organizzazioni politiche antifasciste. É da poco insediato il governo “repubblicano”, quando nel novembre-dicembre 1943 si sviluppa un nuovo ampio movimento di scioperi spontanei nelle fabbriche del Nord.

Nonostante il precedente degli scioperi del marzo e di quelli dell’estate, le forze politiche e lo stesso Pci sono presi di sorpresa dalle agitazioni operaie a Torino, Milano, Genova. Ciò è il segnale, certamente, di un errore di valutazione molto grave, ma, ancor prima, di un’incomprensione profonda del mondo del lavoro, delle convinzioni che sono maturate negli operai, del loro rifiuto del fascismo e della guerra. L’idea prevalente era che, sotto l’occupazione tedesca gli operai non si sarebbero mossi, paralizzati dalla paura (e dalla mancanza di coscienza politica).

Gli scioperi del novembre-dicembre 1943, ancora una volta anticipando e scavalcando i partiti antifascisti, sono la risposta degli operai alla Rsi, che, su questo fronte decisivo, viene messa da parte dai tedeschi, disposti a concessioni sindacali (salario e viveri) in cambio del funzionamento della macchina produttiva, della pace sociale. Ma l’azione operaia incide ugualmente sul versante antifascista, a partire dalla politica del Pci.

Con i fatti «viene messa in discussione la strategia del partito (comunista) che dopo l’8 settembre ha orientato la quasi totalità degli sforzi organizzativi per la costruzione delle bande partigiane, senza avvertire la disponibilità alla mobilitazione di un fronte di opposizione dentro il cuore della città, dove più forte era il presidio di tedeschi e fascisti»2C. Dellavalle, Classe operaia e Resistenza: vecchie e nuove questioni, in “Storia e memoria”, n. 2, 2004, p. 171)..

Non solo la storia degli anni ’43-’45 ma anche quella  successiva è da indagare alla luce dei comportamenti e dell’azione politica della classe operaia italiana nell’ultima fase della guerra. Molte questioni, che continuano ad essere lette in chiave politico-ideologica, trovano la loro spiegazione più convincente spostando l’attenzione sulle scelte e i comportamenti degli operai, le loro aspirazioni, bisogni, desideri e miti, tenendo conto della cesura fortissima rappresentata dal fascismo e delle divisioni profonde del movimento operaio organizzato, vale a dire contestualizzando e delimitando il campo di indagine.

In quella particolare congiuntura gli operai di fabbrica hanno agito con una finalità  precisa, facendo valere la loro forza per conseguire un duplice obiettivo: migliorare la loro situazione e porre fine alla guerra, in quanto causa di tutti i guai, loro e delle loro famiglie. A tal fine dimostrarono una combattività ed un coraggio inaspettati. Oltre agli obiettivi immediati, una parte consistente dei lavoratori cominciò a prefiggersi delle mete politiche e delle conquiste sociali che rimandano sia alle tradizioni ideologiche del movimento operaio che ad un immaginario alimentato tanto dalle sconfitte subite (fascismo, nazismo) quanto dalla vittoria che ai loro occhi si incarnava nell’Urss di Lenin e Stalin.

É necessario quindi valutare con attenzione sia la forza inaspettata della classe operaia che le sue debolezze: da entrambe trasse profitto il partito comunista, il che gli consentì di imporre per molto tempo la sua egemonia non sulla società ma sul mondo del lavoro. A differenza di quel che era avvenuto nel primo dopoguerra, e di quel che avverrà nel ’68-’69, l’azione operaia nel ’43-’45 non assumeva valenze rivoluzionarie, l’anticapitalismo non si concretizzò in forme organizzative alternative alla democrazia parlamentare. Sono tematiche ben presenti, seppure minoritarie, in ambito socialista e azionista o presso intellettuali comunisti come Eugenio Curiel, ma non hanno una vera base sociale: nel ’43-’45 non si  manifestò alcuna dinamica di matrice consigliare, di autogoverno dal basso, ogni tradizione di questo tipo sembra essere completamente cancellata,dimenticata D’altra parte la politica di Togliatti (e dell’Urss) mette fuori gioco le posizioni radicali presenti nel Clnai, mentre il dissenso interno al Pci, oltre ad essere di stampo staliniano, non riesce mai a coagularsi in una linea alternativa.

In questi scenari, al centro di tutto c’è il rapporto tra operai e partito comunista, che ha il suo momento di svolta con gli scioperi del marzo ’44.

6. Siamo in presenza, per la prima volta, di scioperi dichiaratamente politici in quanto preparati e organizzati dal Pci e dalle sue organizzazioni. Essi miravano a chiudere l’anello fra lotta di classe e Resistenza armata. Nell’ottica dell’ “operaista” Secchia, se gli scioperi dell’anno precedente avevano dato una potente spallata al fascismo, «lo sciopero del marzo ’44 aprì la strada all’insurrezione nazionale». Una metafora ad un tempo rivelatrice e sviante. Il Pci in effetti rivestì di caratteri insurrezionali lo sciopero, seppure all’interno di una prospettiva di liberazione nazionale, rispettosa del disegno geopolitico dell’Urss, gestito da Togliatti. L’insurrezione però dovette essere procrastinata di oltre un anno, quando ormai la spinta propulsiva dell’azione operaia si era esaurita. Chi ne aveva tratto il massimo beneficio era proprio il Pci: si chiude il ciclo delle lotte spontanee e gli operai affluiscono numerosi nelle fila del partito. É soprattutto in questa fase, dopo gli scioperi del marzo ’44 che il partito comincia ad assumere dimensioni di massa, sino ad arrivare, nell’aprile ’45, a 100.000 iscritti. Una cifra enorme, che va valutata tenendo conto che la macchina repressiva nazi-fascista continuò a funzionare sino all’ultimo, segnata da una netta preponderanza della componente operaia.

Si può convenire sul fatto che il Pci, al di là di vicende lontane nel tempo, e che interessano solo i gruppi dirigenti e singoli militanti, si costituisce come forza politica determinante nelle vicende italiane in questo periodo, avendo come centro gravitazionale il mondo delle fabbriche: « quello che sarebbe emerso nel dopoguerra e nella “guerra fredda” come il più forte partito comunista del mondo capitalistico ha avuto la sua origine nell’opera dei dirigenti comunisti del Nord, dei loro quadri, dei partigiani garibaldini come degli operai della Fiat e della Marelli»3L. Cortesi, Nascita di una democrazia, Manifestolibri, Roma, 2004, p. 375..

Sarebbe però sbagliato ritenere che il rapporto tra operai e partito fosse semplice e lineare, risolto una volta per tutte, con l’organizzazione che si dispiega progressivamente sino a designare una controsocietà, una seconda Chiesa o uno Stato a parte, in cui gli operai, e tutti gli iscritti, vengono inglobati totalitariamente. L’ipostatizzazione di un modello politologico, più o meno plausibile e applicabile al caso italiano, oscura le dinamiche reali che contribuirono a saldare il rapporto tra il Pci e la sua base sociale, tra contrasti e conflitti. Non a caso, si può aggiungere, sarà piuttosto la fine di un tale rapporto, e la sua completa dissoluzione, ad avvenire silenziosamente, in una sorta di reciproca indifferenza.

Per tornare agli anni e mesi in cui si instaurò, sullo sfondo della Rsi e sotto la pressione delle macchine belliche che si stavano scontrando violentemente, si consideri almeno questo nodo problematico: il Pci viene scelto dagli operai come rappresentanza politica di massa della classe – inaugurando un nuovo ciclo nella vicenda del movimento operaio italiano – nel momento stesso in cui il “partito nuovo” di Togliatti, mira a diventare il partito di tutto il popolo, interprete degli interessi nazionali. Emerge da subito, come osservava già Ernesto Ragioneri, «una contraddizione tra la politica del Pci, partito della classe operaia e del popolo italiano, e la sua composizione sociale». Tutta la forza del Pci è concentrata nelle fabbriche, è questo il rovello dei dirigenti comunisti, Secchia compreso.

É giusto evidenziare l’apporto dell’azione operaia alla democrazia e alla stessa Costituzione (addirittura fondata sul lavoro!) ma l’affermarsi della continuità dello Stato ci dice anche dei limiti di quell’azione, della scelta politico-partitica di attestarsi sul vecchio sistema liberal-parlamentare progressivamente, trasformisticamente, occupato dai partiti antifascisti.

Le speranze, al momento, erano altre: con molta forza e radicalità, ma con ben poco ascolto nella base operaia, la connessione tra le lotte di fabbrica e la democrazia era stata sottolineata dagli azionisti piemontesi all’altezza del dicembre ’43 (di sicuro sotto l’impressione degli scioperi di quell’anno). La democrazia, avvertivano, non sarebbe derivata dalle vittorie militari degli Alleati ma dall’azione delle “forze del lavoro”. Non sarebbe stato un grazioso regalo dei vincitori ma il frutto delle lotte: «la democrazia in processo di formazione vive essenzialmente nel mondo del lavoro e soprattutto nelle fabbriche»4Il Partito d’Azione, Verso la democrazia, “L’Italia libera”, dicembre 1943..

7.  La guerra totale ha l’effetto, inaspettato, di sconvolgere, se non capovolgere, la struttura gerarchica tradizionale della società: i lavoratori tanto dell’industria quanto dell’agricoltura, gli operai e i contadini, vengono ad avere un ruolo cruciale, il loro peso  si accresce enormemente rispetto alla considerazione che godevano nella cultura e nel senso comune dell’epoca. É una rivoluzione sociale che fa da supporto all’affermarsi della democrazia, la quale si fa pratica politica, presa della parola, diventa azione e autoaffermazione. Tutto ciò nel contesto dei 600 giorni di Salò, un simulacro di Stato che inutilmente tenta di conquistare qualche consenso scavalcando a sinistra le forze antifasciste con la cosiddetta socializzazione delle aziende. Al di là del ritorno alle origini, dell’abilità politico-propagandistica di Mussolini e quant’altro, non sarebbe mai emersa una tale proposta se gli operai non avessero acquisito la centralità e il protagonismo di cui s’è detto.

Non è davvero strano che ci siano stati dei cedimenti; il fatto straordinario è che gli operai, da poco riavvicinatisi alla politica, sapendo dei pericoli a cui andavano incontro, abbiano aderito in modo massiccio ad un’azione come quella del marzo ’44, facente capo in modo esplicito al partito comunista, preparata da tempo e quindi seguita attentamente da un formidabile apparato repressivo.

Giustamente è stato sottolineato che con lo sciopero i tempi della fabbrica si incrociavano e scontravano con quelli della Rsi. L’8 marzo scadeva il termine per i renitenti e i disertori di presentarsi ai distretti e con i primi di marzo avrebbero dovuto maturare i frutti del decreto sulla socializzazione delle imprese varato il 12 febbraio5C. Pecchenino, Marzo 1944: sciopero generale, organizzazione e repressione nelle fabbriche, in “Storia e memoria”, n. 2, 2004, pp. 284-85.. Purtroppo, scriveva icasticamente lo stesso Mussolini, «gli operai rispondono alla socializzazione – di cui non capiscono l’importanza – con gli scioperi». Mussolini, che ha anticipato tutte le principali spiegazioni giustificazioniste della storiografia sedicente afascista (difesa della patria, la Rsi cuscinetto contro l’ira giustificata dei tedeschi, ecc.), sa che la partita si gioca sul fronte delle fabbriche, si mette quindi subito alla ricerca della zona grigia operaia, la massa apatica e qualunquista che sicuramente doveva esserci, seppure manipolata dai comunisti, ma ormai inanella un fallimento dopo l’altro e non può che maledire l’inadeguatezza del popolo italiano (razzialmente inadatto ad una politica di potenza).

Ma se il popolo non aspira che alla fine della guerra, in nome di un generico ideale di pace, gli operai scioperanti sono dei traditori che hanno scelto di combattere a fianco dei nemici della patria, sono la quinta colonna degli Alleati; essi, nelle parole del Duce, hanno deciso di «fare la guerra alla guerra, non in nome di un ideale di pace ma per favorire la guerra dei nostri nemici inglesi ed americani contro le divisioni del fedele e valoroso alleato germanico».

Proclamando lo sciopero i “bolscevichi italiani” hanno cercato di innescare un’insurrezione generale, di tipo classista, facente perno sul proletariato di fabbrica. La propaganda di Salò insiste su questo punto, con l’evidente obiettivo di dividere il fronte avversario, in cui l’antifascismo coesisteva con l’anticomunismo.

Gli operai, eterodiretti e manipolabili, sono accusati di tradimento, collaborazione con il nemico, nonché di rivoluzionarismo insurrezionalista. É un cambiamento di scena repentino dato che sino a poco prima venivano tacciati di esasperato economicismo e di approfittare della favorevole congiuntura legata alle necessità della produzione bellica; di colpo sembra che abbiano dimenticato le loro rivendicazioni concrete per farsi strumentalizzare dai comunisti, in combutta coi padroni, o meglio con il grande capitale finanziario. Nell’ottica della Rsi, gli operai sono docili strumenti in mano al bolscevismo e alla plutocrazia, la materia prima di un’alleanza innaturale che è tenuta assieme unicamente dall’odio contro il fascismo.

Negando in linea di principio ogni autonomia e capacità di scelta ai lavoratori, Mussolini e i suoi seguaci sono costretti ad analizzare i comportamenti operai secondo due chiavi di lettura antitetiche: o ne fanno un coacervo impolitico, dominato da meschine passioni individualistiche, oppure ne danno una rappresentazione iperpolitica, di una massa fanatizzata dall’ideologia millenaristica del comunismo bolscevico.

Le difficoltà a mettere a fuoco i comportamenti della classe operaia di fabbrica nell’Italia del ’43-’45 non concerne solo gli esponenti dell’ultimo fascismo; anche la storiografia presenta carenze che incidono sulla ricostruzione della storia italiana del Novecento, attraversata e segnata da una questione operaia che non è  stata tematizzata in termini prospettici, senza eccessivi condizionamenti e filtri ideologici.

In questa vicenda gli scioperi del marzo ’44, tra i più frequentati dagli storici, pur in mancanza di molti tasselli locali e di una trattazione complessiva occupano un posto emblematico: essi segnano la saldatura tra operai e partito comunista, da quel momento e per qualche decennio il Pci diventa il partito di riferimento per la maggioranza degli operai di fabbrica. Pur con tutti i distinguo, le precisazioni e delimitazioni derivanti da studi analitici, il dato politico è innegabile e inciderà su tutta la storia italiana successiva.

Nell’ottica del Pci, e delle forze antifasciste di sinistra, lo sciopero generale del marzo 1944 doveva rappresentare un salto di qualità, con la piena e consapevole politicizzazione dell’azione operaia, sino ad allora sviluppatasi nei termini di un antifascismo spontaneo, se non prepolitico.

Come è noto il successo dello sciopero fu incompleto, con la vistosa défaillance della classe operaia genovese. Ma il vero punto critico fu determinato dalla natura insurrezionale che i comunisti intesero dargli in base ad una scelta che meriterebbe di essere ulteriormente indagata. La saldatura tra operai e partigiani, scioperanti e formazioni armate, nonostante episodi documentati, non si realizzò. Era un terreno di scontro troppo avanzato. L’insurrezione, oltre ad essere prematura rispetto allo scenario della guerra, era temuta dal fronte antifascista moderato non meno che dai fascisti; d’altro canto, nonostante il militantismo delle avanguardie di fabbrica, non aveva una vera base sociale, essa avrebbe messo in luce l’isolamento delle fabbriche dalla società. Di lì a poco il Pci avrebbe operato la sua nuova “svolta”.

Dopo lo sciopero del marzo ’44 si registra un innegabile declino del protagonismo operaio, sviluppatosi intensamente nell’arco di un anno. Nondimeno i fascisti, e tutte le altre forze in campo, continuano a pensare che sia possibile se non imminente un’insorgenza rivoluzionaria facente perno sulle fabbriche6Quanto al Pci si consideri, con le attenzioni del caso, quanto dice oggi Giovanni Pellegrino sul post-Liberazione: «L’insurrezione sarebbe scattata simultaneamente nelle città del triangolo industriale: Torino, Genova, Milano. E sarebbe stata preceduta da un piano d’azione che prevedeva innanzitutto una serie di agitazioni, le quali sarebbero sfociate in uno sciopero generale», in G. Fasanella-G. Pellegrino, La guerra civile, BUR, Milano, 2005, p. 10..

La saldatura tra lotte di fabbriche e resistenza armata lascia il posto ad una fase, che dura sino al 25 aprile, in cui i due piani rimangono distinti anche se comunicanti. Non ci sono più scioperi che interessino tutto il Nord, e quando gli operai genovesi entrano in sciopero ai primi di giugno del ’44, la repressione è durissima, oltre 1500 vengono deportati in Germania. È in questa fase, dopo lo spartiacque segnato dallo sciopero “insurrezionale” del marzo ’44, che gli operai scelgono in massa di aderire al Pci, migliaia e migliaia di operai entrano nel partito ormai saldamente nelle mani di Togliatti, la cui politica non ha accenti rivoluzionari e tanto meno operaisti. Il che acuisce l’interesse per un tema a cui qui si può solo accennare.

Accantonate le spiegazioni tautologiche, resta da spiegare perché il Pci è diventato, in quel momento storico, il partito della classe operaia italiana o almeno delle sue frazioni militanti: certamente non perchè esso si definisse tale nei suoi proclami. Nessuna spiegazione è possibile se non si riconosce agli operai la capacità di scegliere vagliando i pochi ma vistosi elementi che avevano a disposizione, quali che fossero le loro fonti di informazione. Alla base ci fu la rottura con il fascismo e la scelta per l’organizzazione che più a lungo e con più coraggio aveva combattuto contro i fascisti. Poco importava che fosse ridotta ai minimi termini, anzi la repressione che aveva subito ne accresceva il prestigio. In secondo luogo la scelta per il Pci fu dovuta al mito dell’Urss, di cui i comunisti erano parte e rappresentanti legittimi. Un mito alimentato e protetto dal fascismo del Ventennio e poi dalla Rsi. Infine non si può negare che avesse qualche peso l’ideologia comunista che assegnava alla classe operaia un primato che capovolgeva la gerarchia sociale esistente.

La saldatura tra partito e classe, originatasi in quella congiuntura storica, per diverso tempo fu così forte che gli organismi tradizionali dell’azione operaia, a partire dal sindacato, furono concepiti dagli stessi operai come delle cinghie di trasmissione per far marciare la politica del partito in fabbrica e nella società. La stessa questione della “doppiezza” del Pci, frequentatissima dalla revisione e dal revisionismo, per essere indagata con finalità non solo polemiche dovrebbe mettere a fuoco e storicizzare non solo il legame di ferro con l’Urss ma anche quello, tutt’altro che lineare, tra il Pci e la sua base operaia.

8. Le fonti della Rsi, in particolare i Notiziari della GNR, sono di sicura utilità per ricostruire i comportamenti operai, e del mondo del lavoro in genere, e ciò sia perché l’apparato poliziesco di controllo funzionava abbastanza bene nelle città sia per l’attenzione che i vertici politici della Repubblica di Salò, in primis Mussolini, rivolgevano alla classe operaia di fabbrica, considerata la più pericolosa tra le classi sociali.

Ne emerge una rappresentazione negativa e fortemente dicotomica che oscilla tra due estremi: a) gli operai sono da biasimare perché approfittano della situazione per imporre egoisticamente le loro richieste economiche; b) quando non sono mossi dal tornaconto immediato si abbandonano al fanatismo ideologico e diventano prede del bolscevismo.

Come già accennato, gli operai non vengono accusati solo di essere comunisti ma anche filo-capitalisti, si sono infatti accordati coi loro padroni per abbattere il fascismo. Per evidenti motivi di autoassicurazione, gli estensori dei Notiziari tendono a motivare prevalentemente in termini economici le agitazioni operaie, di cui registrano l’accentuato carattere egualitario senza darne una spiegazione. Salvo poi a capovolgere il giudizio e l’analisi identificando operai e comunisti, politicizzando e ideologizzando comportamenti altrimenti inspiegabili. In un caso gli operai vengono presentati come un tutto, compattati dall’ideologia comunista che li domina, nell’altro come una moltitudine frammentata di individui, privi di ogni coscienza politica, e mossi dal puro tornaconto materiale.

  Quel che i poliziotti della Rsi non riescono a vedere pur avendolo sotto gli occhi è il manifestarsi, ancor prima che i tedeschi rimettessero in sella il Duce, di uno specifico antifascismo operaio che progressivamente confluisce nel Pci. È un percorso che compiono minoranze combattive e che man mano consolida l’egemonia del Pci, specie nelle grandi fabbriche del Nord. Per ricostruirne la vicenda in sede storiografica è necessario abbandonare ogni ipostatizzazione, positiva o negativa: «Gli operai diventano antifascisti e comunisti non perché lo siano per definizione ed essenza, o per tradizione,ma attraverso una dialettica intensa e rapida in cui opposizione operaia in fabbrica e lotta di resistenza si intrecciano, si alimentano e si scontrano»7P.P. Poggio-G. Sciola, La questione operaia, in P.P. Poggio (a cura di), La Repubblica Sociale Italiana. 1943-45, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, 2, Brescia, 1986, p. 61. Il contributo, incentrato su “Operai e comunisti nei 600 giorni di Salò”, vedeva la luce nel momento in cui tutta questa tematica cominciava ad entrare in un cono d’ombra, non ricevendo la minima attenzione.. In anni recenti, sulla scorta di analoghe operazioni tentate a proposito del carattere “progressivo” delle politiche sociali del nazismo, sono stati fatti vari tentativi di valorizzazione della politica filo-operaia di Salò, andando alla ricerca di qualche forma di consenso dei lavoratori nei confronti della socializzazione e di adesione convinta alle commissioni interne, in rottura con le indicazioni del Pci e degli altri partiti antifascisti.

Si tratta di revisioni inconsistenti, sia perché estrapolano singoli dati da un contesto di segno opposto, sia perché la documentazione di parte fascista (o nazista) non lascia adito a dubbi. Per le commissioni interne basti questa citazione da un “Notiziario” proveniente dalla città con la più alta concentrazione di fabbriche: «Le Commissioni interne non si sono ancora potute eleggere… perché (…) la maggioranza dei lavoratori, essendo di sentimenti nettamente antifascisti, non vuole a nessun costo aderire ad organizzazioni in relazione comunque con l’organizzazione del Partito, né si trovano d’altronde gli elementi che vogliono assumersi la responsabilità di far parte delle commissioni stesse e rispondere delle azioni della indisciplinata massa operaia»8Notiziario della GNR, Milano, 16 giugno 1944, in Archivio della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia.. Quanto alla socializzazione, il fallimento era dovuto non solo all’atteggiamento degli operai, ma anche del padronato. Da parte loro i tedeschi, a cominciare da Hitler, erano estremamente diffidenti nei confronti di una politica che sembrava strizzare l’occhio verso i nemici di sempre, con la pretesa di scavalcare a sinistra gli stessi comunisti. Inutilmente l’abilissimo Rudolph von Rahn, principale cervello politico dell’occupante tedesco, cercava di spiegare ai suoi capi di Berlino i vantaggi propagandistici che se ne poteva ricavare mettendo l’accento sulle peculiari propensioni degli operai italiani: «La nuova legge rappresenterebbe un forte colpo alle influenze comuniste e bolsceviche alle quali, molto più dei loro colleghi tedeschi, sono esposti i lavoratori italiani» (Rahn a Ribbentropp, l’11 febbraio 1944).

La socializzazione doveva essere uno dei capolavori politici di Mussolini, una sintesi di socialismo e fascismo, in grado di gettare lo scompiglio nelle file dei nemici, ingenerando divisioni che avrebbero fruttato anche dopo la fine della guerra. Era stata concepita dal Duce come strumento per realizzare l’agognato “ponte” tra fascismo repubblicano e forze socialiste nazionali, non asservite a Mosca. La base per la creazione di una nuova Rsi, non più sociale ma socialista, imperniata, nientedimeno, che sui “consigli operai di fabbrica”. Purtroppo per Mussolini gli operai si dimostrarono del tutto refrattari ai ritorni di fiamma socialisteggianti del Duce, confermando, ai suoi occhi, la loro natura di forza antinazionale, come ai tempi della Grande guerra e poi sempre, in modo subdolo o scoperto.

9.   Considerati i suoi esiti imbarazzanti, la critica al revisionismo è necessaria ma del tutto insufficiente. Non si può negare che la rappresentazione monolitica della classe operaia necessiti di revisioni profonde e che possa essere messo in discussione lo stesso concetto di classe. Ma la scomposizione in termini economici, sociologici, antropologici, o anche politici, non deve diventare un ostacolo insormontabile alla capacità di cogliere, in determinati contesti storici, le spinte centripete, le forme di riaggregazione e ricomposizione.

 Nel caso che qui ci interessa, riteniamo che proprio la Rsi, la riedizione oltranzista del fascismo, ancor più dell’occupazione tedesca, abbia concorso a determinare la ricomposizione politica dei lavoratori attorno ad avanguardie combattive, mossesi, in varie occasioni, autonomamente dalle forze politiche organizzate. Negli anni ’43-’45 il dato storicamente rilevante non è l’ovvia differenziazione sociologica della classe ma la sua ricomposizione politica e il suo militantismo in una situazione di estrema difficoltà e pericolo. A puro titolo esemplificativo, ricordiamo che il 21 giugno 1944 un decreto legislativo della Rsi introduce la pena di morte per chi organizzi uno sciopero. É in questi mesi di ferro e di fuoco che si forgia una comunità di fabbrica fortemente coesa, che attraversa gli stessi schieramenti politici. Senza di essa non sarebbero state possibili forme di lotta molto diffuse e rischiose quali i sabotaggi della produzione per l’occupante.

Ma il militantismo e la scelta antifascista degli operai risulta anche da altri dati che dovrebbero essere piuttosto noti: l’apporto degli operai è maggioritario per quel che riguarda la composizione delle formazioni partigiane, e ancor più per le SAP e i GAP. Gli operai rappresentano poi la netta maggioranza tra i deportati politici.

Dopo le esaltazioni acritiche e i revisionismi politicamente motivati, è indispensabile recuperare una prospettiva storica. Nella nostra storiografia è successo invece che assieme al “mito operaio” è stato espunto dalla scena della storia il “mondo operaio”, con la conseguenza di renderla incomprensibile9Cfr. A. Ballone, Identità operaia e progetto politico nella Resistenza a Torino, in “Storia e memoria”, n. 2, 2004, p. 255.. La strada da percorrere è quella della ricerca empirica, fattuale, cercando di ricostruire i comportamenti degli operai in carne e ossa, in una determinata congiuntura, ma senza perdere il senso dell’insieme, il significato dell’azione e dell’esperienza operaia allorché si manifestano in termini sociali e politici rilevanti. In specifico è indispensabile combattere il tentativo di risospingere fuori dalla storia le classi sociali lavoratrici, condannandole al fallimento e negandone aprioristicamente il protagonismo e l’aspirazione all’emancipazione.

image_pdfScaricaimage_printStampa

Note[+]

Total
0
Shares
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articolo Precedente

L’artigianato: tra memoria del passato e risorsa per il futuro

Articolo Successivo

Lavoro, salute e sicurezza: un ruolo per il MusIL

Articoli Collegati
Total
0
Share