Premessa
L’8 giugno 1902 il sindaco di Brescia, Carlo Fisogni, inaugurava le nuove opere destinate a rendere maggiormente funzionale la Fonte di Mompiano (e l’acquedotto municipale) rispetto alle strutture precedentemente utilizzate. Nel suo discorso inaugurale non mancarono le citazioni dei classici e del poema del bresciano Cesare Arici, “Origine delle Fonti”, nella elaborata sintesi fra riconoscenza a Madre natura, celebrazione delle nuove capacità tecniche ed espressione d’orgoglio municipalistico, per quelle che venivano definite non senza la giusta enfasi, “le nuove opere per l’acqua potabile degne quasi della grandezza romana /…/ frutto della grandiosità degli umani concepimenti”.
Un discorso tutto centrato sulla lunga storia dell’acquedotto bresciano, originariamente alimentato da fonti sgorganti dalla valle di Lumezzane e dalle fonti di Mompiano. Il sindaco Fisogni, del resto, poteva con quegli altisonanti vocaboli scrivere la parola fine ad un lungo, ma non conclusivo, capitolo che per decenni – nella seconda metà dell’Ottocento – aveva interessato l’opinione pubblica cittadina. Un dibattito condotto fra le varie parti politiche del Consiglio comunale, ma che aveva visto la presenza pure di medici, urbanisti, igienisti, ingegneri e geologi, impegnati, non senza aspre polemiche, nella ricerca di una condivisa, quanto utile, soluzione all’annoso problema del rifornimento idrico cittadino, “ben conoscendo”, aveva esclamato il sindaco in quella festosa occasione, “quali enormi danni possa recare e quanto pronto e facile veicolo di numerose malattie sia un’acqua non perfettamente pura”, cui porre rimedio volendo seguire, “per quanto stava in noi, gli ultimi portati della scienza”.
Brescia, questa la speranza, poteva quindi intrattenere, agli albori del XX secolo, un nuovo rapporto con l’acqua, recuperando l’abbondanza che ne aveva contraddistinto la quotidianità per secoli, e superando le insidie portate dalle varie possibilità di inquinamento: lo scorrere copioso del prezioso e limpido liquido poteva cioè tornare ad essere, pur sotto altre forme, un fatto ordinario ed abituale, un beneficio erogato con costanza, continuità, (relative) abbondanza e sicurezza.
Disporne non era più un privilegio o una fatica, o deprecabile ragione di vecchie e nuove malattie, ma diritto di ogni cittadino. A quella data, Brescia era una delle ventisei città capoluogo di provincia in cui il servizio di distribuzione dell’acqua era direttamente controllato dai municipi, in Lombardia l’unica insieme a Milano. Quel che le autorità municipali tacevano era, però, la raggiunta consapevolezza che il consumo di acqua non avrebbe più rappresentato l’utilizzo di un bene naturale: la sua distribuzione era ormai dominata dalla tecnologia e dalla scienza e, quel che contava, entravano in vigore – con maggiore definizione – limitazioni, controllo dei quantitativi, tariffazioni. L’acqua era divenuta un bene richiesto e, dunque, commerciabile, seppur di stretto quanto ineludibile vincolo pubblico.
Ma Brescia, per quanto concerneva il tema dell’acquedotto, assomigliava già alla calviniana Isidora, città dei sogni e dei desideri che, appena raggiunti erano già trasformati in insufficienti ricordi. Il nuovo acquedotto, infatti, arrivava proprio quando la città era pronta per spiccare il grande balzo demografico, passando dai 70.600 abitanti del censimento 1901, agli 83.300 del 1911 (superando la soglia dei 100.000 abitanti nel 1920). Una crescita che imponeva il rapido ricorso a sempre nuove infrastrutture e più ampi servizi: durante i primi decenni del Novecento, la questione dell’acquedotto conoscerà articolate riflessioni, importanti progetti ed analisi, ma in realtà scarsi investimenti ed ancor più rari lavori, riposando sugli allori di un’opera appena nata ma già insufficiente.
La presenza municipale resta naturalmente predominante e nel corso del XX secolo trova nuove raffigurazioni. L’acquedotto municipale verrà infatti gestito in economia sino all’anno 1933, quando il Comune deciderà di affidarlo all’Azienda dei Servizi Municipalizzati, nata nel 1908 dopo consultazione referendaria, che già si occupava dei trasporti urbani, della fabbrica del ghiaccio, della produzione e distribuzione dell’energia elettrica (dal 1909), della produzione e distribuzione del gas di città (dal 1923).
Una municipalizzazione della rete idrica avvenuta con evidente ritardo, nonostante questo fosse il servizio più vicino alle primarie esigenze della cittadinanza, in bilico fra necessità individuale e servizio collettivo assai più dei trasporti o dell’illuminazione. Una storia che si inserisce entro l’ampio processo di modernizzazione della città, in cui le novità sotto il profilo del ruolo di stimolo fornito dalla municipalità ai servizi urbani a rete risultarono di grande importanza. Ed in effetti, proprio il servizio di acquedotto diviene una cartina al tornasole per verificare il grado di avanzamento sociale della città, una sorta di laboratorio per quanti – politici e tecnici, urbanisti ed igienisti – coltivavano (e coltivano) progetti di modernizzazione accelerata: la realizzazione tecnologica dei servizi e delle infrastrutture, l’adozione di un complesso sistema di norme e regolamenti, la stesura di progetti ed ipotesi di pianificazione, il coinvolgimento di capitali e di qualificate competenze professionali, costituiscono il risultato di maggior rilievo della crescita della città contemporanea.
Oggi basta aprire un rubinetto per vedervi sgorgare l’acqua, un gesto della nostra quotidianità, ripetuto infinite volte e per le ragioni più varie, a cui nessuno presta più attenzione. In realtà, dietro questo gesto apparentemente così banale si rivela un lungo processo di allargamento dell’accesso ai servizi ed ai consumi, che ha richiesto decenni di discussioni e di tentativi, prima di divenire effettivo ed usuale: da privilegio di pochi nel corso dell’Ottocento a servizio tecnologico a rete, alla disponibilità di un bene accessibile ai più.
Ma la storia dell’utilizzo dell’acqua non è un processo rappresentabile solamente con la ricostruzione delle tecnologie applicate alla sua distribuzione, o con il riepilogo delle vicende connesse alle scelte politico-amministrative, o di carattere urbanistico assunte nel corso del Novecento. Ad esse si intreccia – sul piano individuale e sociale – l’evolversi ed aggiungersi di abitudini o di attenzioni al proprio corpo, il modo stesso di vivere la propria casa e gli ambienti domestici.
Entro questo percorso, un posto di rilievo detiene la vicenda dell’introduzione delle apparecchiature che permisero di conteggiare i consumi di acqua, legandoli a politiche tariffarie in costante evoluzione, traghettando il prezioso liquido da bene naturale a prodotto commercializzato.
Dal secchio all’acquedotto
Nel 1885, una nota del Municipio di Brescia inviata ai ministeri competenti per la redazione del piano di risanamento della città, iscriveva al primo posto proprio la costruzione di un nuovo acquedotto. Brescia difettava di acqua potabile – nonostante la ricchezza della fonte e le sue 2.289 fontane pubbliche e private – per via dei 906 litri al minuto di liquido dispersi nel terreno e per l’esistenza di ben 328 pozzi inquinati (erano 123 già nell’anno 1832). La ragione di tale diffusione dell’inquinamento idrico era presto data: “nei quartieri affollati della città”, si scriveva nel 1884, e per ben due terzi delle case di Brescia, i pozzi distano in via media dai fiumi-fogne o dai bottini di quattro metri circa, e spesso occorre che la fogna di una casa sia contigua alla parete del pozzo della casa vicina. L’impermeabilità degli strati bassi è tale da non lasciar sfuggire alcuna delle sostanze organiche che penetrano nel sottosuolo.
Desta impressione soprattutto la segnalazione di quelle scaturigini già compromesse, che offrono acqua infetta e pericolosa, che sottraggono quantità crescenti alle esigenze cittadine e, insieme, elevano il problema a questione che investe l’intera città. L’accoglimento degli elaborati tecnici da parte del Governo nazionale mise in moto la municipalità, che affidò alla Società Italiana per le Condotte d’Acqua la redazione di un progetto d’acquedotto, un anno prima che lo Stato italiano promulgasse la nuova legge sanitaria che, all’articolo 44 sanciva l’obbligo per i comuni di fornire ai propri abitanti “acqua riconosciuta pura e di buona qualità”.
Il progetto, già pronto alla fine del 1887, prevedeva la realizzazione di un nuovo condotto principale da Mompiano alla città, lungo un percorso completamente diverso rispetto all’esistente, più lungo e posto più in quota: le nuove condotte in ghisa snodatesi poi all’interno della città per 25 chilometri, potevano veicolare l’acqua in pressione e raggiungere, secondo il progetto, sia le 1.535 fontane pubbliche che un numero illimitato di rubinetti delle case, anche ai piani elevati, con distribuzione quantificabile ed a pagamento.
Il vecchio tracciato del condotto principale poteva prestarsi ad impianto di riserva, mentre nessun accenno viene riservato alla possibilità di realizzare serbatoi compensativi: la contrazione delle perdite poteva garantire ai cittadini, secondo la Società e la Giunta che approvò l’opera (il costo stimato era di 360.000 lire), l’utilizzo di quasi 750 litri d’acqua al giorno pro capite.
In realtà, il dibattito che in Consiglio comunale ed in città seguì alla presentazione del nuovo progetto, finì nel corso degli anni per paralizzare ogni concreto avvio, impedendo ogni azione. Ancora una volta difficoltà di bilancio, pressioni da parte dei privati – chiamati a sostenere le spese per i rifacimenti dei condotti di loro competenza – fecero arenare nuovamente ogni progetto. A loro si erano aggiunti pure i 650 possessori di edifici forniti d’acqua, che reclamavano esenzioni e privilegi: la possibilità di considerare l’utilità dell’investimento per un nuovo e più sicuro acquedotto, a vantaggio della propria tranquillità e salute, era evidentemente surclassata dalla tradizione e da eccezioni e franchigie a cui non si voleva assolutamente rinunciare, soprattutto da parte dei 621 intestatari di antiche utenze, cui l’acqua, ancora agli inizi del Novecento – giungeva gratuitamente negli 856 immobili di proprietà
Il vecchio acquedotto continuava intanto “a fare acqua” ed a correre severi rischi di infiltrazione ed inquinamento: un’apposita commissione municipale aveva misurato una perdita – solamente nel tratto extra urbano – del 30% circa, cui si dovevano aggiungere le incalcolabili filtrazioni che avvenivano nei condotti in cotto, a disperdere l’acqua nei porosi sotterranei della città.
Le labili tracce di una accresciuta sensibilità circa l’importanza di un’acqua davvero potabile e salubre si perdono, dunque, negli scritti di medici ed igienisti. Quella che era ormai acquisita era piuttosto l’idea che l’acqua interveniva in modo determinante nella stessa costituzione della città e nella costruzione dei suoi nuovi spazi: essa richiedeva delle attrezzature e tutto un insieme di infrastrutture la cui complessità ed il cui costo si andava rapidamente accrescendo, facendo di conseguenza aumentare attenzioni amministrative e quantità degli investimenti.
Inoltre, le preoccupazioni per far giungere l’acqua e fornire il volume necessario a tutta la cittadinanza, le scelte da compiere per costruire e mantenere le dotazioni utili alla canalizzazione e distribuzione, non erano più separabili da altri fattori di stampo prettamente sociale: come nel caso della contrapposizione fra municipalità e vecchi concessionari, le diverse opzioni mettevano direttamente in questione gli orizzonti del nuovo e mobile confine fra pubblico e privato, fra esigenze della comunità e persistenza delle poco permeabili stratificazioni sociali.
Si affacciavano, è vero, i temi della crescita di nuove sensibilità mediche ed igieniche, ed il mutare delle abitudini legate alla cura del proprio corpo come della propria casa. Ma si intravedevano soprattutto i limiti della teoria di una presunta inesauribilità dell’acqua e l’affermarsi del suo più attento utilizzo, con l’insorgere di contrasti fra bisogni di tipo ludico o di rappresentanza (le fontane dei giardini o quelle monumentali delle piazze), e quelli di stampo utilitaristico e personale – per lavatoi e per l’uso personale – sino a giungere alle innovative necessità di carattere più strettamente industriale.
Vecchi diritti e nuovi utilizzi
“Da lunga pezza è vivo il lamento che il tesoro di cui natura e l’opera dei nostri padri ha largamente dotata questa città, le copiose e limpide acque che sgorgano dalle frequenti sue fontane e che la fanno ammirata dai forestieri, per l’ineluttabile azione del tempo tende sempre più ad esaurirsi ed a corrompersi e, ove non sopravvenga una mano riparatrice, minaccia di perdere l’inestimabile suo valore”.
Così, una delle molte relazioni poste dalla Giunta ad accompagnare i progetti di fine Ottocento per la sistemazione della fonte di Mompiano, reclamava il rapido intervento municipale. Ma la prima traduzione di un nuovo modo di intendere il servizio dell’acquedotto nelle forme dell’organizzazione civica, nonostante le citate deficienze tecniche ed in attesa di radicali interventi, è rintracciabile nell’approvazione del nuovo regolamento per l’uso delle acque potabili, adottato dalla municipalità nel dicembre dell’anno 1893, dopo ben tre giorni di estenuanti discussioni in Consiglio comunale.
Esso discendeva dalle conclusioni elaborate da una apposita Commissione alle acque (formata da Marino Ballini, Alessandro Bonicelli e Simone Orefici) che aveva lavorato ben 19 anni – dal gennaio 1871 al dicembre 1888 – prima di giungere al parere conclusivo, volto a rilanciare l’intervento pubblico: i diritti privati sulle acque della fonte di Mompiano erano da considerarsi precari e, quindi, da poter nuovamente ricondurre alla proprietà municipale, che poteva riconoscere l’utilizzo dell’acqua potabile dietro pagamento di un canone.
Veniva dunque affermato “il diritto assoluto del Comune sulle acque, ossia la loro demanialità”, imponendo ai privati una somma annua sull’uso delle stesse, garantendo nel contempo l’utilizzo di quel gettito tariffario nella spesa della nuova canalizzazione in fase di ideazione. L’articolo primo del nuovo regolamento era assai chiaro: “L’acqua potabile della fonte municipale di Mompiano è destinata al servizio pubblico sia direttamente mediante fontane pubbliche, sia mediante concessioni precarie ai privati”. Vecchi o nuovi utenti, originari concessionari o acquisitori per compravendita, venivano ora posti nella situazione di vedersi revocato il diritto o condizionati al pagamento di un canone.
Un regolamento che troverà più di una “esitazione” nella sua applicazione. La stessa Giunta di orientamento liberale aveva accompagnato il testo normativo all’esame del Consiglio comunale ricordando che “dovevasi tener conto di una condizione di cose tanto tempo durata, ed avere riguardo, per un sentimento di convenienza e di larga equità, ad uno stato di cose più che secolare e intorno al quale avevano potuto formarsi tante aspettative ed annodarsi tanti interessi”. Non a caso il Comune aveva deciso, all’entrata in vigore del Regolamento, di rinunciare ad esercitare per trent’anni il diritto di revoca nel confronto dei vecchi utenti, evitando dunque di richiedere l’esazione della nuova tassa, stabilendo solamente la compartecipazione alle spese una tantum per la nuova opera che si andava a realizzare.
Ma ben 180 utenti si costituirono in apposito comitato, affidando agli avvocati Giuseppe Tovini e Gaetano Fornasini le proprie rimostranze. E con le nuove elezioni amministrative, nel sottile gioco delle rappresentanze politico-istituzionali, la nuova Giunta di marca cattolica guidata dal sindaco Bettoni proporrà immediatamente una rinnovata e più accondiscendente versione del regolamento, “che si informava”, per utilizzare le stesse parole del nuovo assessore Melchiotti, ad un concetto essenzialmente pratico, quello cioè di evitare la lite fra il Comune e gli utenti /…/ dichiarando impregiudicati i diritti sì del Comune che dei privati e far convergere le forze unite di tutti gli interessati alla esecuzione della reclamata riforma /…/ esempio di concordia fra rappresentanti e rappresentati diretta al raggiungimento di un nobile scopo.
Gli utenti erano, dal nuovo regolamento, suddivisi in fasce, ed ai godenti dell’utilizzo dell’acqua da più di un quarantennio veniva riconosciuto il diritto all’uso gratuito, salvo contributo per i nuovi lavori, mentre alla fascia dei nuovi o futuri utenti era richiesto il pagamento del canone, senza contributi aggiuntivi per i lavori.
Ecco dunque che intorno all’acqua non solamente la campagna, i consorzi irrigui, i proprietari di fondi da irrigare, si confrontano intorno all’amministrazione dell’importante liquido naturale. Ora anche la città, la pubblica amministrazione ed i cittadini, portatori di vecchi diritti e nuove esigenze, si affrontano e si sfidano: la possibile gestione dell’acqua assume un posto rilevante nella trama delle relazioni sociali e nutre i dibattiti politici come anche gli studi di esperti e di uomini di cultura; il suo consumo, la modifica del suo trasporto e dei suoi usi, sono definitivamente al centro delle moderne politiche urbane.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento la popolazione del Comune di Brescia aumentò di circa 35.000 abitanti, un dato attribuibile sia all’inurbamento del centro che all’aggregazione di alcuni Comuni del circondario urbano. I problemi della crescita urbana si pongono dunque in modo indifferibile, e si elaborano sempre nuove sistemazioni teoriche e procedure tecniche per affrontarli. Ed occorre tener conto che, almeno sino al piano di ampliamento cittadino del 1896, le ripercussioni sull’assetto fisico della città di questo progressivo inurbamento furono all’apparenza modeste: il fenomeno migratorio infatti non innescherà una vera e propria espansione urbana ma, semmai, un più intenso sfruttamento dello spazio abitabile, soprattutto della zona storica rinserrata nella linea delle mura, avviando il graduale peggioramento delle condizioni igieniche
Si pensa dunque a dei rivoli per drenare le strade pavimentate, a fontane per rinfrescare portici, negozi e mercati, a canali di scolo alimentati da acque capaci di portar via le immondizie: il canale del vecchio acquedotto di Mompiano non è mai parso così insufficiente. Il consumo d’acqua diventa, come non lo è mai stato prima, un problema di strategia collettiva, di infrastruttura urbana, e l’immagine della città ora comporta necessariamente quella di acqua che scorre liberamente nelle fontane, in sempre maggior copia di zampilli, necessità a cui far fronte con nuove canalizzazioni e reti distributive.
Ma non si pensa immediatamente a rendere più capace e sicura la fonte di approvvigionamento di Mompiano. Quel che conta è ora la possibilità di realizzare reti più efficienti, che si diramino poi in derivazioni individuali, a rendere più numerosi i punti di distribuzione ed a ripartirli meglio: scopo principale non è certamente la garanzia di un flusso regolare, né il controllo dell’acqua proveniente dalla fonte, ma la diffusione delle possibilità di raccogliere l’acqua per il proprio uso, di raggiungere quartieri meno serviti moltiplicando le fontane, soprattutto quelle di seconda o terza caduta.
Si cerca dunque una razionalizzazione dell’esistente, entro un panorama infrastrutturale cittadino che una relazione del 1895 descriveva in un “sottosuolo percorso da dieci, da quindici canalizzazioni d’acqua potabile, che intersecate da tubi di gas, dai condotti di sfogo delle acque piovane, dai canali degli acquai e delle fogne formano una rete inestricabile”.
Certo non troppo lontana appare l’esigenza di poter “avere” l’acqua direttamente dentro casa: quel che conta, nella nuova circolazione dell’acqua, è per ora la possibilità di “avvicinarla” ad ogni alloggio, senza che per questo si concepisca, come succederà più tardi, il raggiungimento di ogni abitazione. Del resto già il costo per poter possedere una fontana entro il cortile della propria abitazione era notevole, e si abbinava all’impossibilità di acquisire definitivamente il flusso del prezioso liquido che, a Brescia era riservato appunto alle fontane pubbliche o a possessori di antichi e trasmissibili diritti di gratuità.
E gli esperti, gli igienisti della comunità, i medici municipali, intendono la presenza di acqua in città non certamente per l’igiene personale, ma soprattutto per disposizioni che interessano la salute collettiva, in quanto si propongono innanzitutto di tenere sgombri gli spazi, le strade e le vasche delle fontane, tenendo conto con assoluta priorità del ruolo ausiliario dell’acqua per la pulizia dell’aria e dell’atmosfera. Acqua dunque, come elemento purificatore, che spazza odori e inghiotte polveri, mentre per dissetarsi bastano i secchi alle fontane e per lavarsi le tinozze o le stesse vasche pubbliche.
Come scriveva riferendosi a Brescia il dottor Tullio Bonizzardi nel 1884, “l’abbondanza delle acque serve ad una efficace spazzatura, ed anco ne’ giorni di incipiente siccità, l’elemento acque detersore delle materie stercoracee vi si trova in sufficiente quantità, da qui la ragione della mancate emanazioni putride”.
L’affacciarsi del problema sociale – dell’abitazione, dei servizi non solo per il centro ma pure per i sobborghi, l’accesso della popolazione ad un certo standard urbano – si connette al graduale instaurarsi di una nuova mentalità basata sui consumi di servizi (e di diritto a questi consumi primari). Fra quelli che acquistano generale diffusione, estendendosi via via anche agli strati meno agiati della popolazione cittadina, hanno un grande rilievo quelli che oggi chiamiamo servizi tecnologici, o reti tecnologiche, che assumono ben presto il carattere di servizi sociali: il gas, la luce, i trasporti, l’acqua anzitutto. Sono questi, unitamente ad altri che hanno perso rilievo, poiché collegati ad un pauperismo fortunatamente pressoché scomparso (i lavatoi pubblici, i forni per il pane municipale, la fabbrica del ghiaccio, ecc.) che la cittadinanza inizia ad assumere quali connotati indispensabili al vivere urbano.
Già nel 1895 ad accorgersi delle nuove esigenze che si condensano nella prioritaria necessità di poter disporre di acqua potabile all’interno della propria casa e del proprio bagno è l’avv. Fausto Massimini che, discettando circa la miglior forma del nuovo regolamento per l’utilizzo da parte degli utenti dell’acquedotto civico, precisa con esattezza le attese dei bresciani, di una città in cui “la tendenza ad avere l’acqua nella propria casa si fa sempre maggiore /poiché/ è questa una delle comodità più ricercate e più consigliabili così dal punto di vista dell’igiene come dal punto di vista dell’economia domestica”.
La sua descrizione è chiara, anche se magari prendendo a prestito un paragone forse altisonante – la città di Parigi – ove, scriveva, “il consumo in venti anni si è triplicato: la media teorica d’acqua da assegnarsi a ciascun abitante si calcola ovunque in cifra sempre più alta, in tutti i quartieri di nuova costruzione, nelle città meglio ordinate e largamente dotate d’acqua, si ha l’acqua non solo in ogni casa, ma in ogni piano, in ogni appartamento”.
Per Brescia alla fine del XIX si pensava dunque che, se non in tali proporzioni come lungo la Senna, certamente “è prevedibile che questa tendenza continuerà a diffondersi anche nella città nostra, dove sono già adesso frequentissime le domande di nuove concessioni sebbene si sappia che, allo stato attuale delle condutture, sono difficilmente accolte; sebbene l’acqua non sia in pressione e non potendo quindi essere utilizzata ai piani superiori, riesca perciò meno appetibile”.
Brescia aveva bisogno d’acqua, ma dentro casa, nelle periferie, ai piani alti: non potevano bastare le 1.440 fontane segnalate entro le mura da cui rifornirsi faticosamente con secchi; la situazione secondo il Massimini era al limite della sostenibilità, poiché
l’importanza delle richieste d’acqua che ne verrebbero di conseguenza può essere facilmente apprezzata ove si rifletta che sopra circa 3.350case che conta la città, 800sole – meno di un quarto – sono provviste d’acqua ed anche queste soltanto a pianterreno, – e che non vi è nessuna ragione perché nei limiti della possibilità tecnica non si estenda anche al suburbio immediato alla città, come già qua e là si fece, il beneficio dell’acqua potabile. A tali presumibili richieste d’acqua si potrà, per un certo tempo, far fronte colla parte d’acqua che ora va dispersa e che si renderà disponibile una volta compiuta la nuova canalizzazione: si potrà qualche poco risparmiare sulle erogazioni delle fontane pubbliche che pure costituiscono uno dei più caratteristici e decorosi ornamenti della nostra città. Ma poi?
Ma non è solamente nelle case che il fabbisogno d’acqua appare in crescita. Anche lontano da quel 24% di alloggi provvisti di condutture d’acqua al proprio interno quel prezioso liquido appare vitale. Fra gli usi pubblici dell’acqua, oltre all’utilizzo per dissetarsi e per l’igiene personale, il lavaggio degli indumenti e dei panni ha infatti, almeno sino alla liberazione (avvenuta con la lavatrice automatica) da uno dei lavori domestici più antichi del vivere umano, una storia che si intreccia con le alterne vicende di radicate tradizioni e differenti modalità dell’intendere le mansioni casalinghe.
E proprio in ragione dei nuovi standards igienici, che si erano andati delineando nell’Ottocento, le grandi lavatrici industriali si perfezionano, con l’utilizzo del vapore. Brescia registra le prime attenzioni verso la lavatrice a vapore sin dal 1865, quando il medico Rodolfo Rodolfi, primario al nosocomio cittadino e futuro fondatore della prima clinica privata bresciana, Casa Moro, propone la costruzione di una “lavanderia pubblica a vapore”. Una proposta di carattere igienista, rivolta non alle massaie ma al Consiglio Sanitario Provinciale, per una città che preferì invece dotarsi, nel 1890, di nuovi lavatoi pubblici “per la lavatura e risciacquatura, con vuotatura automatica a determinato intervallo e successivo riempimento”. Unica concessione alla modernità (ed alle mani delle lavandaie), la realizzazione nei primi anni del Novecento, di un “lavatoio automatico ad acqua calda” in contrada del Carmine.
Spine chiuse e contatori
Frattanto, il Consiglio comunale di Brescia approva nell’anno 1894 un nuovo progetto, elaborato dall’Ufficio Tecnico municipale guidato dall’ingegnere toscano Cosimo Canovetti: costo previsto 1.200.000 lire, poi ridottesi a sole 659.000. E’ il progetto che porterà – dopo una nuova revisione imposta nel marzo del 1897 – al rinnovo della rete, completato dalla sistemazione del laghetto delle nuove Fonti di Mompiano, inaugurate nell’anno 1902.
Il finanziamento del progetto era reso possibile dall’attuarsi delle riforme crispine della fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, che avevano parzialmente liberato i bilanci del Comune da trentennali rigidità, dando avvio ad una fase di espansione della spesa di cui a Brescia beneficiò soprattutto il settore dei servizi. Tanto la riforma legislativa quanto la favorevole congiuntura politica – unitamente alla presenza negli uffici municipali e sugli scranni consiliari di valenti tecnici ed ingegneri – concorsero quindi a creare un clima in cui poterono prender corpo alcuni grandi progetti, che restano ancora oggi a testimonianza di un’epoca ricca di fermenti intellettuali, di alcune ingenuità certamente, ma pure di grandi speranze.
Il progetto dell’ing. Canovetti è forse il primo che invera definitivamente il ricercato rapporto fra potenziamento della infrastruttura idrica e rappresentazione della crescita cittadina: modernizzazione dei servizi dunque, intuizione che grande importanza avrà nel definire il dibattito di queste stagioni e nelle polemiche che accompagneranno l’opera per almeno due decenni, le cui tracce si rinverranno pure in progetti divenuti poi paradigmi della contemporaneità bresciana, soprattutto a partire dal piano regolatore degli anni Venti.
La novità più importante del progetto per il nuovo acquedotto è senza dubbio rappresentata da un diverso modo di intendere la regolare presenza di acqua: non più l’utilizzo diretto dell’irregolare flusso di una fonte naturale, ma l’alimentazione indiretta tramite un grande serbatoio, utile sia alla compensazione delle fasi di accumulo ed erogazione, sia per la stabilizzazione del flusso e della pressione nelle condotte di rete, sia per eventuali interventi legati al controllo della potabilità.
E’ un salto qualitativo e quantitativo di particolare rilevanza, non solo tecnica: il variare della pressione dei bisogni cittadini impone la ricerca della nuova soluzione, tesa a modulare (e in realtà aumentare) l’approvvigionamento dell’acqua all’interno della nuova dinamica urbana. E’ il segno del definitivo passaggio del servizio di acquedotto da una concezione aristocratica e privilegiata – riposante sulla concessione di antichi diritti e sulla naturalità del bene – ad una dimensione di appropriazione collettiva e gestione tecnologica, avente come finalità la regolare diffusione del servizio, che deve d’ora in poi assommare caratteri di economia, igiene, pubblica utilità. Quel che conta, accanto alla relativa semplicità del meccanismo del serbatoio e della sua funzionalità, è pure l’avanzare dell’idea di una possibile estensione della rete ad ogni angolo della città, come dello sfruttamento economico del liquido, ormai definitivamente acquisito nella sua raggiunta artificialità.
I lavori per il nuovo serbatoio, previsto nella capacità di circa 6.400 metri cubi rubati alla viva roccia, vengono avviati nell’anno 1896 sul Ronco Montagnola, a nord del Castello: esso verrà collegato alla fonte di Mompiano da una nuova condotta tubolare del diametro di un metro, passante lungo una via appositamente realizzata (Via Canal Nuovo, oggi via Galilei), mentre l’acquedotto vero e proprio partiva dal nuovo manufatto. Dalla fonte di Mompiano, dunque, posta ad un’altezza di 172 metri, l’acqua giungeva per gravità al serbatoio, che a sua volta alimentava le tubazioni metalliche, garantendo altezze piezometriche comprese fra i 10 ed i 20 metri rispetto alle diverse zone della città, permettendo per la prima volta di erogare acqua potabile anche ai piani più alti dei fabbricati.
Quando il sindaco Fisogni inaugura nel giugno 1902 i lavori di Mompiano, accanto al nuovo serbatoio della Montagnola (ricoperto e mimetizzato da un verde prato), si avvia l’utilizzo del nuovo condotto extraurbano di collegamento realizzato dalla “Società Lodigiana di Lavori in Cemento”, ed entra in funzione la rete in tubi di ghisa, prodotti in buona parte dall’appena sorto opificio bresciano di Giulio Togni e posati dalle ditte Giacomo Manerba e F.lli Mangianti. La rete, della lunghezza di circa 39 chilometri entro la zona delimitata dalle vecchie mura venete, con ampliamenti giungenti a Porta Venezia ed alla zona esterna a Porta Garibaldi, era organizzata su tre anelli principali, intersecati radialmente dalle tubazioni di derivazione.
A partire da quella data, ognuno dei circa 50.000 abitanti del centro città potè teoricamente disporre di ben 500/litri giorno in media (ovvero 300 litri nei periodi di magra e quasi 1.000 litri nelle massime), una cifra che nella realtà viene ben presto ridimensionata dal repentino aumento della popolazione e da un ancora irrazionale sistema di approvvigionamento. Nel suburbio nessuna traccia del servizio: pozzi, rogge e rudimentali canali restavano versione immutata e naturale dell’acquedotto.
Ma quel 1902, con la razionale sistemazione della fonte di Mompiano, oltre a costituire la conclusione di quello che potremmo riconoscere come il lungo percorso di avvicinamento della città ad un moderno acquedotto, rappresenta in qualche misura pure l’inizio di una nuova era, nell’assicurazione di un servizio di distribuzione a rete efficiente e sicuro. Distribuzione in orizzontale e verticale, regolata e contabilizzata nei suoi flussi, entro una città in rapida espansione e rivolta ad un’utenza pronta a rinnovare ed ampliare la varietà delle proprie esigenze contemporanee.
Nel primo decennio del Novecento, frattanto, le utenze d’acqua raggiunsero il numero di 1.381: un numero che, se depurato dei possessori di antichi diritti, e quindi allineato ai soli utenti ex novo, segnala la quadruplicazione dei contratti in meno di dieci anni, mentre nel volgere del lustro successivo essi raddoppiano nuovamente. Alle utenze private in città, nell’anno 1907, si affiancavano 110 fontane pubbliche (66 nel centro e 44 nelle frazioni, fra quelle “a deflusso continuo e deflusso intermittente”), a cui si aggiungevano 12 lavatoi pubblici a getto continuo, per un totale erogato di circa 49 litri al secondo.
Numeri che resteranno immutati sino all’avvicinarsi della grande guerra, anche se la scomparsa di una fontana viene evidenziato dalla stampa cittadina come un fatto certamente degno di nota: il 23 gennaio del 1908, per esempio, il quotidiano “Il Cittadino di Brescia”, nel segnalare lo smantellamento della fontana del Gambero, nell’omonima contrada, non esitava a rimarcare come ciò fosse necessario poiché “le nuove esigenze della viabilità e dell’edilizia – e forse anco un po’ la tendenza di tutto mutare – vogliono questi sacrifici”. Il 7 giugno dello stesso anno 1908 è l’altro quotidiano locale, “La Sentinella Bresciana”; a chiedere sin dal titolo “Acqua! Acqua!” il ripristino delle fontane: mentre gli abitanti del largo Zanardelli attendono con impazienza che venga piazzata la fontana promessa da tempo in sostituzione allo scomparso fontanone, coloro che abitano presso la chiesa di San Francesco lamentano la soppressione dell’acqua nell’unica fontanina che è collocata in quei paraggi. L’ufficio tecnico dovrebbe provvedere tosto a soddisfare i giusti desideri del pubblico.
Nell’anno 1907 il regolamento per l’utilizzo delle acque potabili diviene nuovamente oggetto di analisi e studi, informandolo – questa volta definitivamente – al principio dell’appartenenza delle acque di Mompiano al demanio pubblico comunale ed alla pratica della erogazione con contatore. Ma il percorso non si rivela dei più agevoli: della stesura del nuovo Regolamento viene infatti incaricata apposita commissione (composta da sen. Baldassarre Castiglioni, avv. Giovanni Alberini, avv. Luigi Bazoli, avv. Carlo Bonardi, avv. Gaetano Fornasini, avv. Arturo Reggio), che interrompe però i propri lavori in attesa del completamento del nuovo acquedotto di Cogozzo (e subendo le evidenti pressioni dei possessori di antichi privilegi), presentando le risultanze del proprio operato solamente alla fine del 1914.
Ed il 15 gennaio 1915 il Commissario Regio Giuseppe Ajroldi deliberava “con urgenza” l’approvazione del nuovo regolamento che, come si spiegava al tempo, nella parte giuridica si ispira al concetto della demanialità delle acque, nella parte tecnica all’obbiettivo di procurare la maggiore estensione del preferibile regime a contatore, e nella parte finanziaria all’intento di elevare, in sobria misura, la tariffa per la parte dei consumi a contatore superiori ai cento metri cubi annui, perequando in correlativa misura la tariffa per gli antichi utenti.
La tariffa restava stabilita in 25 centesimi per metro cubo per consumi inferiori alla soglia dei 100 (la cifra era stata fissata nell’anno 1896 ed equivaleva a 0,92 centesimi di euro di oggi, una cifra piuttosto elevata), passando dai 5 agli 8 centesimi per metro cubo per consumi superiori: l’aumento, spiegava il Commissario Regio Ajroldi, era “giustificato dalle esigenze di bilancio … e dal riflesso che la tariffa attuale non corrisponde interamente al mutato valore del denaro e alla efficienza delle spese di impianto e di manutenzione”. Una tariffa che si segnalava fra le più basse d’Italia: se si esclude Milano (fra i 10 ed i 20 centesimi a mc a seconda delle categorie di utenti) e Torino (23 centesimi), Brescia era più a buon mercato rispetto a Verona (30 centesimi al mc), Bologna (idem), Bergamo (27 centesimi), Firenze (40 centesimi) ecc.
In realtà, più che l’aumento tariffario parziale, determinante risultava l’avvio del meccanismo di pagamento anche per gli antichi possessori di privilegi legati all’utilizzo gratuito dell’acqua, utenti che secondo il nuovo regolamento erano chiamati a pagare in ragione di un canone annuo rapportato al flusso goduto o, come stabiliva l’art. 20, “a rinunciare a parte dell’acqua di cui attualmente fruiscono per limitare in proporzione il canone a loro carico”, trasformando quindi l’utente “a flusso continuo” in uno “con contatore”.
Nuove abitudini
Un regolamento, dunque, capace di raggiungere diversi scopi, ad iniziare dal disciplinamento del consumo di acqua, per una città che stava conoscendo un’espansione mai registrata prima. Se, infatti, nell’anno 1902 gli impieghi cittadini ammontavano solamente a circa 150.000 metri cubi annui, Brescia nel 1920 aveva già raggiunto i 2.600.000 metri cubi di acqua consumata. A ciò si doveva aggiungere la crescente chiusura di pozzi privati che risultavano inquinati e, di lì a poco, la realizzazione della rete fognaria, che avrebbe obbligato ad un maggior utilizzo di acqua.
Ma vale la pena cercare di indagare più a fondo nei dintorni dei riflessi che il metodo della spina chiusa con annesso contatore ebbe a registrare nella popolazione bresciana, che in pochi anni si trovò a dover modificare radicalmente le proprie abitudini e la stessa percezione del bene acqua. Nell’anno 1896 i contatori installati in città erano solamente 21, divenuti 345 nell’anno 1900 e 754 cinque anni più tardi. Una diffusione tutto sommato lenta e graduale, anche perché il contatore era guardato spesso con grande circospezione, perno di infinite contestazioni. E non solo per le titubanze legate a tecniche di misurazione difficili da comprendere da parte dell’utenza, nel perenne timore di errori o frodi. In molti si ingenerò l’idea di una limitazione alla propria libertà, sino ad allora goduta e regolata solamente dalla fatica del trasporto ma non certamente dalla apprezzata gratuità dell’acqua.
La reazione di qualche abitante, di fronte alle nuove attrezzature, fu quella di lasciare il rubinetto di casa sempre aperto – fra sfida ed consuetudine – o, ancora più spesso, di manomettere l’apparecchiatura del contatore. Ci si avvia dunque a nuovi gesti, ad acquisire nuove abitudini, ad aprire e chiudere il flusso dell’acqua, cosa non chiarissima in una città in cui da sempre le fontane scorrevano di continuo ed era solamente sufficiente sorvegliarle o pulirle.
L’arrivo dell’acqua nelle case cambia di colpo la vita, alleggerendo così un fardello plurisecolare. Si incrociano nuove direzioni nel consumo: il progresso andava in senso inverso alla parsimonia che in casa si adoperava nell’usare l’acqua portata dai secchi nel non sempre breve percorso dalla fontana alla stanza, proponendo la semplicità di un gesto o la rimediabile trascuratezza di una dimenticanza nel lasciare il rubinetto semi aperto. Ma sempre in casa si poteva risparmiare l’acqua chiudendo il rubinetto quando sino a prima l’acqua scorreva senza interruzioni nelle fontane, fornendo un vago senso di controllo e di potere sulla personale godibilità del liquido trasparente.
La vecchia cultura suggeriva pure un’eredità di ultime diffidenze, rivolte contro gli eccessi di un consumo ritenuto quasi smisurato, con il crescere dei bagni giornalieri, l’annaffiatura dei giardini, il lavaggio di indumenti o pavimenti, mentre la modernità assumeva il volto del malcontento quando nelle estati canicolari il livello di sorgenti e serbatoi si abbassava, la pressione nelle tubazioni diminuiva e senza giungere alla sospensione dell’erogazione, si imponevano comunque divieti orari, punizione degli sprechi o di particolari utilizzi. Rovesciato di fatto il rapporto di gratuità che la gente aveva sempre intrattenuto con l’acqua, questa comincia ad avere un prezzo. Alla fatica del lavoro che imponeva il suo approvvigionamento da pozzi o fontane si sostituisce la fatturazione in base al consumo.
E proprio mentre l’acqua diventa una merce che il Comune vende all’utente, si moltiplicano gli appelli e la propaganda per il suo plurimo uso quotidiano. La “Guida di Brescia” redatta nel 1903 da Arnaldo Gnaga, accanto a musei e monumenti, segnala pure “l’elegante stabilimento” presso la Chiesa di San Lorenzo, ove un “bagno semplice” costava solamente 1 lira, ma erano disponibili pure “bagno marino e solforato, a vapore, doccia”, oltre che l’esatta descrizione del nuovo acquedotto e della sua rete distributiva.
Di un incitamento all’uso dell’acqua si fa carico pure la Veneranda Congrega di Carità Apostolica che, come ricordava il volume espressamente dedicato nel 1911 alla propria attività di beneficenza nel campo dell’igiene, da tempo interveniva grazie alla distribuzione di buoni per accedere nei mesi di giugno e luglio ai “bagni medicati da farsi presso l’Ospedale Maggiore”, ma soprattutto per le “doccie da prendere all’apposito Stabilimento Comunale dei bagni”. Non si trattava – nella richiesta di utilizzare con maggiore frequenza l’acqua – di interventi prettamente sanitari: in questo modo infatti “numerosi poveri possono godere dei vantaggi di queste cure, le quali, se non sono sempre molto efficaci dal lato terapeutico, lo sono però indubbiamente dal lato della … pulizia, che lascia troppo spesso a desiderare nella classe dei poveri”.
L’aumento del consumo, l’estensione delle spine chiuse e del metodo della rilevazione tramite contatori stava inoltre creando un problema nuovo, del tutto irrilevante nelle precedenti stagioni delle fontane a getto continuo. Alla diminuzione (auspicata) dei consumi si contrapponeva ora l’accentuazione della contemporaneità dei prelievi, con l’instaurarsi del fenomeno noto col nome di “punta di portata”. L’addensarsi degli utilizzi in determinate fasce orarie richiedeva, durante l’arco della giornata, la possibilità di “modulare” l’afflusso dell’acqua nella rete: un tema ormai importante quanto la regolarità dell’approvvigionamento alla fonte che, se agli inizi del Novecento si presenta come visto ancora allo stato embrionale (accanto ai contatori posati ai possessori di antichi diritti si aggiungevano i nuovi utenti detti “precari”, misuranti l’acqua a volume divenuti poco più di 800 nell’anno 1913), diverrà centrale nel breve volgere di alcune stagioni.
Si proponeva in questi frangenti una duplice visione del problema. Da un lato gli utenti finali, che in alcuni casi – nelle ore di punta – finivano per ricevere acqua in quantità ridotta o, in combinazioni estreme, potevano restare momentaneamente a secco: in questo caso il confine con l’idea di essere in qualche misura defraudati o scarsamente considerati si abbinava al nervosismo dilatato dal comunque richiesto pagamento della bolletta. Dall’altro lato, i tecnici ed i responsabili del servizio si trovavano innanzi alle problematiche connesse con il pieno e funzionale utilizzo dei serbatoi: paradossalmente nella stessa giornata, dato il flusso costante di acqua dalle sorgenti, era infatti possibile il verificarsi di minore richiesta con conseguente “sfioro” dei serbatoi già pieni e, dopo poco tempo, di esaurimento delle scorte nel momento del massimo consumo. Una commistione, dunque, di temi legati alle diverse esigenze, ma pure di carattere squisitamente tecnico e culturale.
Quel che pochi rimarcavano era la buona redditività dell’acquedotto municipale: nella seconda metà del primo decennio del Novecento esso forniva alle casse comunali un introito superiore alle 100.000 lire annue (nel 1909 il reddito lordo era stato di 148.000 lire), che ponevano Brescia al sesto posto fra le città italiane capoluogo, e rivelavano la gestione un affare tutto sommato vantaggioso.
Tariffe e canoni, pozzi e fonti
“Brescia ebbe un tempo il vanto delle sue fontane: oggi non possiamo considerare questo argomento che al lume delle moderne conoscenze scientifiche, se lo vogliamo risolvere in modo conforme ai veri bisogni presenti e futuri della città”.Sono le parole del medico municipale Angelo Bettoni, spese in sede di approvazione del progetto del nuovo acquedotto nel 1921. La scienza aveva definitivamente preso il posto dell’empirismo, ma intanto, a quella data, Brescia basava la propria rete distributiva ancora su due distinti acquedotti, che iniziavano a mostrare i segni della propria età.
Il più antico, detto di Mompiano, aveva una portata normale di 300 litri al secondo che scendeva a 225 litri nelle magre ordinarie. Il secondo acquedotto, detto di Cogozzo, avviato nel 1914, alimentato da una portata quasi costante da 73 a 90 litri al secondo. L’acqua giungeva così in città e veniva raccolta nei due serbatoi sul Cidneo. Da qui una non troppo estesa rete di condutture in ghisa serviva alla distribuzione dell’acqua di Mompiano alla maggior parte della città e ai sobborghi meridionali, riuscendo a raggiungere le altezze di sette metri nei quartieri alti, e di venti nei quartieri più bassi. Diramazioni dirette dalla condotta maestra dell’acquedotto di Cogozzo e una distinta rete di distribuzione, a cui furono allacciati tronchi staccati dalla rete preesistente, alimentavano con una certa difficoltà la zona più elevata della città e del suburbio, e le estremità periferiche orientale ed occidentale.
Nello stesso anno 1920 la tariffa viene frattanto aumentata alla cifra di 30 centesimi, ed a 12 centesimi per metro cubo rispetto al contenimento o al superamento della soglia dei 100 metri cubi. Tariffe che già l’anno successivo vengono nuovamente aumentate, raggiungendo i 40 centesimi ed i 24 rispettivamente, per una modifica dovuta, così spiegava l’assessore Giuliano Massarani in Consiglio comunale il giorno 18 giugno 1921, “ad inderogabili necessità di bilancio, facili a intuirsi e che sono chiarite nella loro vastità colla presentazione del preventivo … e che hanno costretto la Vostra Amministrazione a ricercare tutte le fonti di reddito che valessero a fronteggiarle”. Aumenti giustificati in sede di discussione dalla ricerca “dei cespiti in quei servizi che sono ancora i meno gravati”, visto che le tariffe delle città vicine – per gli utenti consumanti oltre i 100 metri cubi – erano pari a 50 centesimi per Mantova, 45 per Cremona, 30 a Bologna e Padova, ecc. Ed in effetti, l’aumento recuperava solamente in minima parte la svalutazione intervenuta nei primi lustri del Novecento, sancendo in realtà, con la tenuità della crescita tariffaria, il passaggio del consumo di acqua da caratterizzazioni elitarie- come i costi di fine Ottocento costringevano- a quotidiane.
Inasprimento tariffario, prossimi lavori di ampliamento e razionalizzazione, progetti volti alla riduzione degli sprechi ed arginamento (meglio: restringimento) degli antichi privilegi dell’utilizzo gratuito dell’acqua con fontane private a getto continuo: una pluralità di iniziative tese a rendere più efficiente l’acquedotto municipale, in una città ove, come reclamava il consigliere Petrini durante il Consiglio comunale del giugno 1921, “nei mesi estivi si verifica, specie nei piani superiori delle abitazioni alla periferia della città, una deficienza assoluta di acqua” e, per utilizzare le parole del consigliere Magrassi – medico di fama – “parte della popolazione è costretta a servirsi dell’acqua di canali, con evidente pericolo della salute pubblica”.
Nella mentalità del tempo, gli sprechi non erano solamente imputabili alle utenze a getto continuo ma, pure, secondo il consigliere comunale Bordoni, “all’abuso universalmente praticato durante la stagione estiva di lasciare aperti i rubinetti per molte ore al fine di ottenere acqua fresca”, abuso perseguibile mediante l’apposizione di nuovi contatori ad ogni singolo appartamento più che agli edifici, “al fine di porre a carico degli inquilini l’importo del maggior consumo d’acqua”.
Una polemica relativa all’installazione del singolo contatore qual elemento di contenimento dei consumi che altri schieramenti contestano duramente, assumendo l’apparecchiatura di misurazione a simbolo della prevaricazione sui concreti ed ineludibili bisogni della cittadinanza. Una richiesta impopolare, anche se, come si affermò al tempo, “nessuno ha in quest’aula il monopolio della difesa delle classi popolari, gli interessi delle quali trovano invece presidio in quanti hanno cuore”. Una questione comunque “di lana caprina”, come cercò di tagliar corto l’assessore Massarani, al sol pensiero che “lo spreco di acqua che avviene attraverso i getti continui delle antiche utenze supera il terzo dell’intera portata dell’acquedotto e di fronte ad una percentuale di questa importanza tutti gli sprechi domestici diventano quantità trascurabili”.
Quell’anno la città di Brescia, con una popolazione stimata in circa 110.000 abitanti, era in grado di erogare col proprio acquedotto circa 200 litri per abitante al giorno nei periodi di massima magra: una quota pro capite che veniva penalizzata dalle utenze a getto continuo e da una rete distributiva non all’altezza della situazione. Nell’autunno dell’anno 1921 la Giunta municipale, guidata dal sindaco Luigi Gadola, propone dunque un’importante iniziativa: si tratta della sistemazione degli acquedotti e del progetto di fognatura cittadina, secondo le indicazioni progettuali formulate dall’Ufficio Tecnico municipale diretto dall’ing. Vittorio Taccolini. L’articolata relazione viene letta al Consiglio comunale dall’assessore Giuliano Massarani, ammettendo immediatamente come il tema era “fra quelli che più hanno appassionato l’opinione pubblica da molti anni”, appassionamento che secondo il Massarani non fu probabilmente “ultima causa a ritardarne la soluzione”.
Un ritardo che si intendeva colmare con rapidità, anche in vista di prevedibili quanto vicini mutamenti del panorama dei consumi idrici cittadini. Come spiegava infatti la relazione accompagnatoria:
Se consideriamo il decennio dal 1910 al 1920, vediamo che in quel periodo dai 600.000 metri cubi siamo saliti ai 2.600.000 mc. con un aumento medio di metri cubi 200.000 annui. Le indicazioni del 1921 fanno presentire un incremento anche più violento, e poiché il fenomeno collima con altri indici demografici in pieno sviluppo (e che abbiamo avuto occasione di illustrare parlandovi delle abitazioni), non v’è ragione che abbia ad arrestarsi. Anzi esso è sul punto di essere inasprito da nuovi coefficienti assai importanti:
1°. Il completamento e le estensioni della rete produrranno un aumento rapidissimo delle utenze, anche all’infuori della ripresa della attività edilizia;
2°. La soppressione delle fogne /pozzi neri/, l’obbligatorietà degli apparecchi sanitari idraulici che saranno conseguenza immediata della costruzione della fognatura produrranno alla loro volta un ulteriore intensificarsi dei consumi individuali;
3° . La ripresa edilizia, di cui già segni non dubbi, e che ad ogni modo non può a lungo tardare, sarà un ulteriore elemento di sviluppo pel consumo di acqua potabile.
Questi coefficienti, sommandosi allo sviluppo naturale, e rappresentato dal diagramma, ci portano a prevedere che nel breve volger di tempo in cui dovranno svilupparsi i nuovi lavori per l’acquedotto e per la fognatura – cioè fra quattro anni – dovremo far fronte ad un ulteriore aumento di almeno un milione e mezzo di metri cubi annui.
L’investimento complessivo previsto raggiungeva la cifra di 4.784.000 lire (pari a circa 3,6 milioni di euro di oggi), cui si riteneva di poter far fronte con accensione di mutuo trentacinquennale, il cui ammortamento poteva -secondo la Municipalità- essere coperto grazie alla previsione di un cospicuo aumento dei consumi e con un lieve ritocco delle tariffe.
Di particolare significato appariva soprattutto l’idea di garantire con immediatezza una espansione della rete in aree al tempo estremamente periferiche rispetto al pulsare cittadino – da Torricella alla Mandolossa, da Chiesanuova alla Volta – rifornendo alcune zone decentrate quali Folzano, Fornaci e Verziano mediante impianti separati ed alimentati da pozzi locali. Lo scavo dei pozzi costituisce un cambiamento decisivo: l’acqua non è più “catturata” dalle fonti ma pompata dal sottosuolo; si guadagna in quantità ma si aumentano i costi dovuti al lavorio permanente ed oneroso delle pompe; non più lo scorrimento naturale e la forza di gravità, ma la costosa forza delle macchine; non più la distribuzione di un elemento proveniente dall’esterno del periplo cittadino, ma l’approvvigionamento centrale e locale.
In realtà, soprattutto a causa delle turbolenze politico-amministrative che avvicinarono alla dittatura fascista, i lavori conobbero un lento avanzamento. Contemporaneamente, la sete di Brescia aumenta considerevolmente nel breve volgere di alcuni anni e le sorgenti, dunque, non bastano più. Occorreva integrare quel flusso naturale sgorgante dalle colline, chiedendo al sottosuolo della pianura un nuovo contributo: i primi tre pozzi vennero perforati nel 1929 nella zona del nuovo Quartiere Littorio (oggi Leonessa), capaci di garantire da soli la stessa portata delle fonti di Cogozzo, con il prezioso liquido convogliato mediante una nuova tubatura direttamente al serbatoio Fossa.
Municipalizzare i contatori
Nel verificarsi della duplice coincidenza dell’aggiornamento della legge sulla municipalizzazione e della stessa municipalizzazione del servizio gas avvenuta nel 1923, il Commissario prefettizio cittadino Antonio Zanon avanzò l’idea – nel 1924 – dello scorporo della gestione della rete idrica comunale, da affidare ai Servizi Municipalizzati unitamente agli altri servizi già in gestione all’Azienda. Ma proprio il clima politico – locale e nazionale – parve sconsigliare ogni ulteriore riflessione: lo stesso Commissario Zanon, dopo aver elencato le ragioni della cessione, decideva di soprassedere “e non apportare innovazioni per difficoltà di ordine tecnico e ragioni di ordine sanitario”.
A sollecitare l’acquisizione alla Municipalizzata del servizio acquedotto, nel corso degli anni successivi, fu senza dubbio Alfredo Giarratana, noto parlamentare, presidente dell’Agip e direttore dell’unico quotidiano cittadino, “Il Popolo di Brescia” nonché presidente dell’Azienda dal gennaio del 1927, affiancato da una nuova Commissione amministratrice formata da Angelo Messi, Giovanni Bianchi, Enrico Sorelli, Enrico Bozzi, Battista Colosio, Pier Alfonso Vecchia.
Acquisire la gestione dell’acquedotto significava seguire la linea di una sempre stretta collaborazione con il Comune, che finiva, secondo Giarratana, per poter “sentire di possedere” l’Azienda, che, a sua volta, poteva davvero dirsi “azienda di pubblica utilità”. Un percorso qualificante che aveva cercato di imporre anche a livello extralocale, durante la sua presenza alla Federazione: una sorta di ritorno alle origini del suo pensiero, di quelle stagioni in cui gli pareva necessario puntare tutto sullo sviluppo economico ed efficentista della produzione, sull’organizzazione industriale dei servizi, anche all’interno di aziende pubbliche.
L’acquisizione all’Azienda del servizio di gestione dell’acquedotto cittadino pare dunque costituire una mossa importante nel disegno di impresa multiservizio, lungo il percorso che, dopo un quindicennio di attività imperniato su sole tre sezioni – energia elettrica, trasporti e ghiaccio – stava conoscendo nuovi sviluppi con il nuovo servizio gas e, si sperava, pure del servizio idrico. Un’acquisizione probabilmente più sollecitata dalla stessa azienda che decisa dalla municipalità, nel quadro da un lato dell’autonomia ampia e della sostenibilità tecnica della Municipalizzata e, dall’altro, dalle crescenti difficoltà delle finanze comunali.
Così il podestà di Brescia, Luigi Lechi, il 4 agosto 1933 giustifica la raggiunta decisione di cedere all’Azienda dei Servizi Municipalizzati la gestione dell’acquedotto: “Il Comune gestisce già con una Azienda attrezzata e vigorosa altri servizi analoghi come quello della distribuzione del gas e della luce. Risulta ovvio che l’aggregare a tali servizi quello dell’acquedotto non può che produrre da una parte una economia di servizio e dall’altra una maggior comodità per il pubblico, che potrà avvalersi di un solo organismo per tutti i bisogni della casa.”
Ma negli anni precedenti il percorso non era risultato così semplice, nonostante le pressioni esercitate dalla stessa Municipalizzata.
L’adeguamento delle tariffe, durante gli anni Venti, continuò infatti a costituire l’unica manovra adottata, quale elemento legato alla ricerca di nuove entrate per le sempre esangui casse municipali: lo aveva spiegato l’assessore Massarani nel 1921, lo ritiene naturale il Commissario prefettizio Salvatore Portelli nel novembre del 1925, quando delibera i nuovi aumenti nel nome della “assoluta necessità della ricerca di nuove o maggiori entrate”.
Gli utenti, a partire dal primo gennaio 1926, sono dunque chiamati al pagamento di 60 centesimi al metro cubo (contro i 40 precedenti, pari a circa 0,37 centesimi di euro di oggi) per consumi inferiori ai 100 metri cubi, e di 40 centesimi (invece di 24) per la soglia superiore; anche i vecchi utenti privilegiati si vedono quintuplicare il canone annuo, che si avvicina – nella perequazione sui consumi – alla soglia di 32 centesimi per metro cubo. Ulteriore modifica, adottata dal podestà Pietro Calzoni nell’ottobre del 1928, è costituita dalla norma che determina per ogni alloggio o appartamento la presenza di un proprio singolo contatore, con allacciamento obbligatorio all’acquedotto municipale, della portata minima di un decilitro al secondo.
Per quanto riguarda il conteggio ed il pagamento dell’acqua consumata, il panorama cittadino si è andato evolvendo con rapidità. Il passaggio dal libero e gratuito utilizzo alla fatturazione da parte del Comune della quantità d’acqua consumata era ormai definitivamente superato, anche se restava la differenziazione fra nuovi precari e possessori di antichi diritti (da “almeno quarant’anni ante 1890”, così recitava il regolamento municipale): il servizio era ormai cosa acquisita ed equiparato all’utilizzo della corrente elettrica o del gas. Ora le autorità cercavano di superare l’ulteriore scoglio determinato dalla presenza di un unico contatore per ogni immobile e non, come auspicato, per singolo alloggio. La qual cosa spesso determinava conflitti di condominio, ma pure difficoltà di riscossione e di programmazione dell’impiantistica.
Una situazione che il quotidiano locale così riassumeva ancora qualche anno dopo, nel cercare di enucleare una distinzione fra i 6.500 contatori installati, di cui 1.500 in edifici pubblici:
Il computo dei servizi d’acqua in case private è oltremodo arduo, perché l’amministrazione degli acquedotti conosce solo gli utenti, vale a dire i proprietari di case. Ora si sa che il contatore di una casa controlla in massa gli appartamenti in essa contenuti: come è possibile dunque enumerare tutte le fonti e fontanelle esistenti in un fabbricato?
L’entrata in funzione dei nuovi tre pozzi realizzati nella località Forca di Cane ed il costo di sollevamento dell’acqua e di immissione nella rete idrica, accanto alla perenne ricerca di nuove entrate nei bilanci comunali, inducono la Municipalità a studiare nuovi aumenti tariffari sin dal 1930. Un’iniziativa temporaneamente sospesa dall’intervento statale, relativo all’adeguamento dei prezzi in sintonia con la rivalutazione della lira (la famosa “Quota 90”), ma che viene definitivamente adottata l’anno successivo, causa “il considerevole disavanzo di amministrazione per il quale si impone l’adozione di radicali economie e di provvedimenti finanziari adeguati per incrementare le entrate”.
La nuova manovra, decisa in data 30 giugno 1931 e con tariffe entrate in vigore dal giorno successivo, 1 luglio, viene ricompresa entro un nuovo regolamento per l’uso dell’acqua potabile. Essa prevedeva dunque aumenti di tariffa e riduzione delle soglie di consumo: per le utenze con contatore l’aumento del canone era quantificato da 60 ad 85 centesimi per consumi inferiori ad 85 metri cubi (abbassando quindi la soglia minima) e da 40 a 60 centesimi per ogni mc superiore, mentre le vecchie utenze passavano da 1.000 a 1.300 lire di canone annuo per decilitro, ma quelle di portata inferiore a tale soglia di erogazione dovevano tramutarsi “dalla forma a deflusso continuo in quella a contatore”. Ogni metro cubo di acqua veniva conteggiato loro a lire 1,25 e si dovevano aggiungere 15 lire per canone di manutenzione e utilizzo del contatore.
Il quotidiano “Popolo di Brescia” si premurava in questa occasione non solo di pubblicare integralmente il nuovo regolamento con relative tariffe e tabelle esplicative, ma pure di comparare gli aumenti con le tariffe in vigore in altre città. I bresciani potevano quindi consolarsi rispetto a Parma, le cui aliquote erano maggiori del 200 e 300 per cento, o Bologna, più cara del 50 o del 400 per cento secondo le soglie di consumo, ma anche di Bergamo, “ove le aliquote sono di poco superiori a quelle di Brescia, ma sono però molto più numerose le voci”.
In quegli stessi mesi la decisione di affidare all’A.S.M. il servizio acquedotti (la dizione esatta era “Azienda Acquedotti di Brescia”, guidata dall’ingegnere capo Giuseppe Barbieri) giunge finalmente a concretezza. La positiva attività della Municipalizzata, nel piatto clima del consenso, pare assumere il tenore di precise garanzie tecniche e rassicuranti funzionalità economiche, proprio mentre la macchina burocratica e la finanza municipale versano in evidente difficoltà. La nuova Consulta amministrativa guidata dal podestà Luigi Lechi, nominata nel maggio del 1933, tratta immediatamente il tema dell’affidamento alla Municipalizzata della gestione dell’acquedotto e in data 3 agosto esprime il proprio parere favorevole alla cessione.
Il giorno 4 agosto dello stesso anno il podestà Lechi delibera ufficialmente il trasferimento degli impianti (valutati complessivamente 14.950.000 lire e conferiti al tasso annuo di interesse del 5%) e della gestione dell’acquedotto: le strutture che lo compongono sono, a quella data, le Fonti di Mompiano e Cogozzo, S. Eufemia e Caionvico, i tre pozzi con relative pompe (per complessivi 510 litri al secondo), una rete di 125 Km di estensione, i due serbatoi sul Cidneo.
Non è un caso che il giorno 20 agosto, il quotidiano “Il Popolo di Brescia”, diretto da Alfredo Giarratana, dedichi ampio spazio all’acquedotto civico, ma taccia per il momento sulla decisione di cederne la gestione alla Municipalizzata. Semmai, è ora il momento di narrare con precisione ed una certa dose di sussiego l’intricato mondo della rete idrica cittadina, formata da una città che, accanto a circa 5.000 contatori privati,
ha nel suo seno 117 fontanelle a colonna, 20 a muro e 4 per lavatura erbaggi; 21 fontane monumentali pubbliche e 29 a muro; in totale nelle vie e nelle piazze cantano giorno e notte 191 fontane. Inoltre, sempre in pubblico servizio, l’acqua passa in 33 lavatoi all’aperto e in 40 (fra cui alcuni a spina chiusa) nelle case impiegatizie e popolari, 2 abbeveratoi, 13 gabinetti pubblici, 58 vespasiani, 39 fonti in fabbricati scolastici, asili, palestre, ecc., 7 in magazzini e rimesse, 6 in chiese, musei, monumenti, ecc., 3 in macello, cimitero e bagno pubblico, 8 in uffici (Tribunale, Archivio, Ateneo, ecc.), 20 in case di abitazione e di custode, cursori, ecc.
La delibera podestarile prevedeva la cessione con effettiva operatività a partire dal 1 gennaio 1934. In realtà il 24 ottobre del 1933 un’ordinanza del podestà ne anticipa la data al 1° novembre, anche se sino al primo gennaio 1934 la gestione sarebbe avvenuta per conto del Comune, ai cui uffici continuava a far capo ancora per quei due mesi ogni aspetto amministrativo.
Un’impazienza che trova ragione in varie opzioni che avevano determinato la cessione del servizio: per quanto riguardava il Comune, senza dubbio la possibilità di trasferire unità del personale ad altri servizi e mansioni municipali più importanti e urgenti e, contemporaneamente, sgravarsi delle eccedenze lavorative trasferendo addetti dal proprio ufficio acquedotti alla Municipalizzata.
Inoltre, secondo le ragioni espresse nella stessa deliberazione podestarile, la possibilità di inserire la quota di aumento del patrimonio di impianti dell’A.S.M., raggiunta con l’acquisizione dell’acquedotto, quale garanzia da esplicitare nelle formalità necessarie per la richiesta di accensione di mutui, che l’Amministrazione municipale era costretta a stipulare in quelle stagioni ricche di opere pubbliche in avanzata fase di realizzazione.
Una città di 40.000 rubinetti
Non può destare meraviglia il rapido coinvolgimento della municipalizzazione nell’opera di vicendevole legittimazione. Per quanto riguardava l’Azienda, abbiamo già notato le ragioni espresse dal suo presidente Giarratana. E la stessa Azienda poteva a sua volta sostenere con concretezza le amministrazioni podestarili bresciane, impegnate in un vasto programma di lavori pubblici largamente finanziato dalla Cassa Depositi e Prestiti e dalla Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali mediante mutui.
Al termine del primo anno di gestione municipalizzata la sezione acquedotti contava 4.786 utenti (di cui 380 detentori di antichi privilegi d’uso) e 146 fontane pubbliche, collegati da una rete di tubazioni estesa per circa 198 chilometri, alimentata da fonti e pozzi che erogavano in media 507 litri d’acqua al secondo complessivamente: nel corso dell’anno furono immessi in rete 11.137.980 metri cubi d’acqua.
Un numero di utenze che continua ad essere oltremodo ristretto, se si pensa che oltre 20.000 erano gli utenti del settore energia elettrica per illuminazione, altrettanti quelli per energia per forza motrice e circa 10.000 quelli del gas. Un numero limitato che deriva in parte dalla presenza di una rete di controllo dei consumi obsoleta e impostata ancora sul contatore unico condominiale o per immobile. Così, anche la conoscenza delle reali fonti di approvvigionamento dell’acqua diviene difficile, come rammentava “Il Popolo di Brescia” nell’agosto 1933:
Dunque, 5.000 contatori privati. Ammesso che ogni contatore serva in media 4 appartamenti dello stesso fabbricato, avremo un totale di circa 20.000 appartamenti con acqua. E tanto per spingere all’estremo l’indagine statistica, ammettendo una media di due rubinetti per appartamento, potremo concludere che in Brescia esistono press’a poco 40mila rubinetti. Unendo questi ai circa 2 mila di pertinenza dell’amministrazione comunale, risulterà un totale generale di 42.000 getti per uso privato.
Comunque, anche grazie ad una postazione di bilancio di quote ammortamento impianti piuttosto risicata, pari a 50.000 lire (imposta dal cedente Comune di Brescia), già al termine del primo anno di attività consente alla sezione di poter registrare un attivo di circa 804.000 lire, il massimo raggiunto nei dieci anni successivi, in un costante declinare sino a quando – nell’anno di guerra 1944 – l’utile risulterà completamente azzerato.
In realtà, gli investimenti furono praticamente nulli per diversi anni. Uniche spese, l’acquisto di contatori di marca Astra o Allason (200 unità fra il 1935 ed il 1936) e la progettazione, avvenuta a partire dall’anno 1935, di un nuovo serbatoio posto sotto il culmine del colle Cidneo (noto come Serbatoio Torre Mirabella, altezza 235 metri), con lo scopo di alimentare la rete distributiva nella zona dei Ronchi, sino all’altezza di San Fiorano, intervento che, come vedremo meglio in seguito, fu in pratica l’unica operazione degna di nota compiuta durante i primi due lustri di gestione municipalizzata dell’acquedotto.
Ma vi furono altri aspetti che quell’anno finirono per interessare da vicino il mutato rapporto fra cittadini/utenti e l’acqua utilizzata. Lo spiega con esattezza la relazione al bilancio consuntivo aziendale del 1934, il primo esercizio della gestione affidata alla municipalizzata, definendoli inconvenienti particolari e contingenti, inevitabili sempre in un periodo di transizione”:
“Citiamo: l’imbarazzo degli utenti a dover pagare in una sola bolletta tutta l’eccedenza di acqua consumata nel 1933 e contemporaneamente tenersi al corrente coi pagamenti dei consumi della nuova annata /…/ il disagio in cui venne a trovarsi il Comune che non avendo appoggiato all’esattoria comunale il ruolo degli utenti acqua … rimase a corto di disponibilità di mezzi finanziari presso l’esattoria. Il disagio creato all’amministrazione aziendale dalla frequente sostituzione del personale comandato dal Comune presso la gestione acquedotti.”
La Municipalizzata aveva provveduto come poteva a risolvere gli inconvenienti in seno ai propri uffici, ed agli utenti attenuò l’imbarazzo “concedendo opportune rateazioni per il pagamento dei consumi arretrati, elargendo ampi anticipi alle casse comunali sulle riscossioni delle bollette. In realtà alla amministrazione municipale il presidente dei SS.MM. Alfredo Giarratana elencava la lunga serie di vantaggi conseguiti, fra attività prese in carico dall’Azienda pur spettanti alla gestione del 1933, pagamento di interessi anticipati e di acconti sui supposti utili di esercizio della sezione.
Così per la Municipalizzata non vi poteva essere alcun dubbio che
“il passaggio alla azienda del servizio acquedotti ha costituito per il comune, fin da questo primo anno di esercizio un notevole sollievo; ma anche per gli utenti la regolazione dell’effettivo consumo annuale in quattro trimestralità si è dimostrata logica e pratica, tanto da poter affermare che il metodo adottato dall’azienda ha ormai ottenuto la sanzione dell’esperienza”
Contatori: deterrenti o moralizzatori dei consumi?
Vi è un dato che preoccupa l’Azienda: la quantità ridotta delle utenze. Il numero di utenti era cresciuto di sole 466 unità, ovvero del 10% circa in un settennio. Basti a questo proposito rammentare i dati delle altre sezioni aziendali per ravvisare tutta la differenza di vitalità dei diversi servizi erogati da un’Azienda tesa ad assecondare, e spesso a guidare, la tumultuosa crescita della città. Le utenze di energia elettrica passarono infatti dalle 24.689 del 1927 alle 34.506 del 1940 (circa il 40% di aumento, ma con un 79% in più di kWh erogati) ed al loro interno quelle per illuminazione da 23.614 a 30.839 (il 30% in più); le utenze gas passarono da 11.047 a 15.129 (più 37%), i passeggeri/anno delle tramvie aumentati dell’11% circa nonostante paurose flessioni alla metà degli anni Trenta; la sezione ghiaccio infine, pur vedendo ridotte le vendite di oltre il 25%, continuava a produrre utili significativi.
Le ragioni di questa crescita rallentata? Secondo i SS.MM. il motivo era uno solo: “un’effettiva diminuzione dei consumi dovuta all’estendersi degli impianti privati di innalzamento d’acqua dal sottosuolo; l’Azienda ha tentato e tenta tutt’ora di reagire a questa tendenza, sinora però con scarsi risultati”. E se l’acqua consumata non registrava significativi aumenti, quel che preoccupava era in realtà il costante diminuire dell’alimentazione garantita dalla fonte di Mompiano, che stava passando – in un incontrastato procedere – dai 140 litri al secondo del minimo del 1897 ai 112 litri del minimo registrato nel febbraio 1942 e agli 88 litri al secondo registrati nella soglia storica del settembre 1943.
Anche la sorgente di Cogozzo aveva registrato il minimo di 70 litri al secondo ed i tre pozzi del Littorio avevano toccato pure la soglia inferiore degli 80 litri d’acqua emunti. Per porre temporaneo rimedio alla situazione, si era come detto proceduto al collegamento bidirezionale fra i due grandi serbatoi sul colle Cidneo – per opzioni di reciproca scorta – ed alla trivellazione di un nuovo pozzo (profondità 89 metri) effettuata nell’agosto del 1942 presso le fonti di Cogozzo.
La cittadinanza si lamenta soprattutto dei costi e delle bollette, tanto che nel gennaio del 1939 il quotidiano “Il Popolo di Breccia” pubblica una attenta corrispondenza sul tema, dal titolo “Del consumo dell’acqua dei contatori e dei sistemi di esazione”:
Contro i contatori, uomini e donne hanno sempre avuto una particolare antipatia, specialmente le buone massaie che in questi modesti ed innocui arnesi di misurazione intravedono l’esattore che alla fine di ogni mese fa la sua visitina per bussare a cassa. Ma in fondo in fondo il contatore non fa che il suo dovere anche quando corre ed è forse per una certa sua mania di “correre” troppo che esso non gode la intera simpatia delle persone. Persino in un secolo in cui il dinamismo e la velocità costituiscono l’affermazione di una civiltà nuova e di un progresso sempre in marcia. Comunque lasciamo che il contatore compia i suoi giri più o meno veloci; crediamo nella sua onestà ed ammiriamo la sua tenacia nel servire con scrupolosa fedeltà chi lo ha fatto collocare lì, sulla parete, ben saldo, con tubi e piombini di sicurezza.
Non ammiriamo invece certi sistemi di esazione che, nel settore dei registratori d’acqua, sono motivo di non poche lagnanze da parte di una numerosa schiera di inquilini. Dopo che anche a Brescia alcuni anni fa venne introdotto l’uso dei contatori per il consumo dell’acqua, si sono costituite alcune imprese le quali si mettono a disposizione dei padroni di casa per le operazioni di lettura e di riscossione. Ma tali prestazioni, non disciplinate da precise norme, vengono effettuate con metodi tutti diversi ed in maniera così arbitraria da far sorgere quelle lamentele che ci hanno indotto a segnalarne.
Nel frattempo viene definitivamente risolto, con apposita delibera municipale della primavera del 1939, il tema dei contatori, che da quel momento dovranno riferirsi al singolo alloggio e non già all’intero edificio. La nuova norma prevedeva espressamente l’addebitamento del consumo dell’acqua potabile agli inquilini, “mediante appositi apparecchi misuratori che il proprietario è tenuto ad installare a sua cura e spese”, forniti dal Comune (tramite la Municipalizzata) ed il cui costo era fissato ad un nolo di 10 lire annue.
Dopo i gravi danni subiti nei bombardamenti alleati e la repentina contrazione dei consumi in periodo bellico, il pozzo Zanardelli sarà il primo di una lunga serie di pozzi che aumenteranno la disponibilità di acqua nell’immediato secondo dopoguerra. Ma aumenterà pure il costo del prezioso liquido, sia per la spesa d’ammortamento dei nuovi impianti sia per il sollevamento con pompe azionate da motori elettrici. Ed inevitabilmente, il bilancio 1946 si chiude con una perdita di 2,5 milioni di lire, superiore al preventivato ed a fronte di una fatturazione d’acqua che supera i 30 milioni di lire; per l’anno successivo il deficit è pari a 3.260.000 lire, anche se il flusso finanziario derivante dei consumi è più che raddoppiato per effetto delle nuove tariffe che – anche per via del tasso inflattivo elevato – era frattanto passata dai 60 centesimi del 1940 alle 13 lire al metro cubo del dopoguerra. Un aumento tariffario autorizzato dal Comitato interministeriale prezzi con propria circolare del 12 luglio 1947, che concedeva la possibilità “a variare le proprie tariffe di somministrazione dell’acqua potabile nel senso di commisurarle ad un incremento del 940 % rispetto alle tariffe bloccate dal 1942”.
Nelle pieghe dell’aumento era però inserita la nuova filosofia che da quel momento avrebbe informato le pianificazioni tariffarie, secondo logiche di maggiore penalizzazione dei consumi eccessivi e in definitiva di lotta allo spreco: accanto al pagamento di un canone fisso sino ad una certa soglia di consumo, ogni eccedenza verrà infatti conteggiata con un aumento crescente del costo al mc di acqua.
Nota bibliografica
Premessa
Il brano poetico è in C. Arici, “Dell’Origine delle Fonti”, Brescia 1833.
Le citazioni successive sono tratte da Comune di Brescia, “Discorso pronunciato dal sindaco Carlo Fisogni nell’inaugurare le nuove opere per l’acqua potabile della Fonte di Mompiano. 8 giugno 1902”, Brescia 1902.
La notizia delle 26 città con acquedotto municipale è in “Annuario statistico delle città italiane”, Firenze 1906, p. 88.
Dal secchio all’acquedotto
Per il progetto del 1888: Società Italiana per le Condotte d’Acqua, “Relazione in ordine alla deliberazione consiliare 19 dicembre 1887 e replica ad alcune osservazioni fatte al progetto presentata in data 26 novembre 1887, Brescia 1888. Si veda pure, oltre al citato lavoro di Robecchi, “Aqua Brixiana”, pure Idem, “La nuova forma urbana”, Brescia 1980.
Le citazioni del Bonizzardi del 1884 sono tratte da T. Bonizzardi, “Delle condizioni fisiche della città di Brescia in rapporto alla sua salubrità e alle malattie d’infezione”, Brescia 1884, pp. 128-129.
Sul sistema ottocentesco, una brillante sintesi è in F. Ragni, “Un castello pieno d’acqua. Dopo gli ingegneri romani e longobardi un moderno acquedotto per la sete e la pulitezza della città”, in “AB Atlante Bresciano”, n. 29 del 1991, pp. 71-77. Più in dettaglio si veda F. Robecchi, “Aqua brixiana. Fiumi, canali, acquedotti e fontane nella storia di Brescia, Brescia 1996.
Vecchi diritti e nuovi utilizzi
La citazione di apertura è tratta da “Relazione sulle varianti al progetto della nuova conduttura delle acque potabili di Mompiano e conseguente convenzione colla Società Lodigiana per i lavori in cemento”, Brescia 1897. Da qui anche le citazioni successive dell’assessore Melchiotti. La citazione sull’inquinamento del 1895 è tratta da F. Massimini, “La questione delle acque potabili. Note e osservazioni allo schema di nuovo Regolamento per le acque di Mompiano”, Brescia 1895, p.6.
La citazione del medico Bonizzardi è tratta da T. Bonizzardi, “Delle condizioni fisiche della città di Brescia in rapporto alla sua salubrità e alle malattie d’infezione”, Brescia 1884, p. 59.
Il primo regolamento, da cui è tratta la dizione dell’articolo primo è: Comune di Brescia, “Regolamento per l’uso delle acque potabili dell’acquedotto municipale di Mompiano”, Brescia 1894. Un’ampia disanima dei due diversi regolamenti è in “Per le opposizioni degli utenti”, cit.; cfr. inoltre T. Bruschetti Tornielli, “L’acqua potabile, il Municipio di Brescia ed i privati. Relazione redatta dal rag. Bruschetti Tornielli Teodosio da Brescia per incarico di alcuni proprietari di case nella città di Brescia”, Brescia 1893.
Le citazioni sul numero di utenti del 1895 sono tratte da F. Massimini, “La questione delle acque potabili. Note e osservazioni allo schema di nuovo Regolamento per le acque di Mompiano”, cit., da cui sono tratte pure le altre citazioni.
Sui lavatoi bresciani cfr. C. Canovetti, Nuovi impianti di lavatoi pubblici per la città di Brescia, in “Ingegneria sanitaria”, 1894, n. 4
Spine chiuse e contatori
Per la sistemazione progettata nel 1894, cfr. C. Canovetti, “Relazione sul progetto di sistemazione della fonte e della conduttura delle acque di Mompiano”, Brescia 1894 e Idem, “Dell’acquedotto di Brescia e della sua riforma”, Milano 1895. Cfr. inoltre “Il progetto per la conduttura delle acque di Mompiano”, in “La Provincia di Brescia” del 18 dicembre 1894. Per lo scavo del nuovo serbatoio Montagnola cfr. la relazione del suo progettista C. Canovetti, “Metodo seguito nella esecuzione degli sterri del nuovo serbatoio di 6.000 metri cubi per la città di Brescia”, in “Il Monitore Tecnico” n. 24 del 1897. Per il dibattito politico e tecnico cfr. F. Robecchi, “Aqua brixiana. Fiumi, canali, acquedotti e fontane nella storia di Brescia, Brescia 1996.
Il numero di contatori è tratto da Comune di Brescia, “Dati statistici a corredo del Resoconto dell’Amministrazione Comunale 1908”, Brescia 1909, p. 200. I dati del 1911 sono desunti da F. Nardini, “Ottant’anni con la città. Breve storia dell’A.S.M. di Brescia 1908-1988”, Brescia 1991, p. 64. Il brano della fontana del Gambero è tratto da “Una fontana scomparsa”, in “Il Cittadino di Brescia” del 23 gennaio 1908.
Le citazioni del nuovo Regolamento (ed il testo dello stesso) sono tratte dalla Delibera n. 3 del 15 gennaio 1915, mentre i dati dell’utenza nel 1902 e 1911 sono tratti da R. Capra, “L’acqua potabile a Brescia”, in “Notiziario Economico Bresciano”, n. 6 del marzo 1977, pp. 11-20. Le tariffe delle altre città sono tratte da A. Raddi, “Il consumo ed il prezzo dell’acqua potabile in alcune città italiane”, in “Rivista di ingegneria sanitaria”, 1912, 3, pp. 328-332.
Nuove abitudini
Per le valenze sociali dell’acqua in casa a pagamento cfr. P. Sorcinelli, “Storia sociale dell’acqua: riti e culture”, Milano, 1998 e Idem, “L’acqua: da dono di Dio a conquista sociale”, in “Storia e problemi contemporanei”, n. 19 del 1997, pp. 151-161.
La Guida citata è A. Gnaga, “Guida di Brescia”, Brescia 1903 (citazione da p. 30).
Per l’attività della Congrega cfr. “La beneficenza della Congrega Apostolica di Brescia nel campo dell’igiene”, Brescia 1911, cap. VI.
La notizia sul reddito lordo è tratta da “Annuario statistico delle città italiane”, Firenze 1910
Tariffe e canoni, pozzi e fonti
Il dibattito svoltosi in Consiglio comunale nella seduta del giugno 1921 è in “Atti del Consiglio comunale di Brescia per l’anno 1921”, seduta del 18 giugno 1921, oggetto n. 7.
Il progetto del 1921 e relative citazioni sono in “La sistemazione degli acquedotti ed il progetto di fognatura per la città di Brescia”, Supplemento al Bollettino mensile municipale “La Città di Brescia”, dicembre 1921.
Municipalizzare i contatori
La citazione del Commissario Zanon è tratta da una sua lettera del 12 febbraio 1924 in ASB, Fondo Comune di Brescia, II Versamento, Rubr. XXXII, b. 7/1B.
Sulla storia dell’A.S.M. di questi anni, oltre al volume citato del 1941 cfr. L’A.S.M. dal 1908 al 1952, Brescia 1953 e F. Nardini, Ottant’anni con la città. Breve storia dell’A.S.M. di Brescia 1908-1988, Brescia, Sintesi editrice, 1991.
L’aumento tariffario del 1925 è trattato in Delibera del Commissario prefettizio del 21 novembre 1925, n. 15752, oggetto n. 29. La decisione di obbligatorietà del contatore per ogni alloggio è in Delibera del Podestà Pietro Calzoni del 11 ottobre 1928, oggetto n. 64. La citazione sui contatori è tratta da “L’acqua nelle vie e nelle case”, in “Il Popolo di Brescia” del 20 agosto 1933.
L’aumento del 1931, con la modifica al regolamento, è deciso nella Deliberazione del Podestà del 31 giugno 1931, oggetto n. 22. La citazione è tratta da “Le deliberazioni podestarili. Il nuovo regolamento per l’uso dell’acqua potabile”, in “Il Popolo di Brescia” del 30 luglio 1931.
La deliberazione podestarile di affidamento è la n. 11 del 4 agosto 1933. Il brano giornalistico sulle strutture cittadine è “L’acqua nelle vie e nelle case”, in “Il Popolo di Brescia” del 20 agosto 1933.
Le deliberazioni aziendali circa il passaggio del servizio sono la n. 126 del 30 agosto 1933, n. 128 dello stesso giorno e n. 165 del 31 ottobre 1933.
Una città di 40.000 rubinetti
I dati del primo anno sono riportati in F. Nardini, “Ottant’anni con la città. Breve storia dell’A.S.M. di Brescia 1908-1988”, Brescia 1991, p. 64. Il calcolo dei rubinetti è “L’acqua nelle vie e nelle case”, in “Il Popolo di Brescia” del 20 agosto 1933.
Le citazioni dalle relazioni ai bilanci di sezione sono tratte dalle singole annate, pubblicate a stampa dall’azienda. La citazione per il bilancio 1935 è tratta dal Verbale della Commissione amministratrice n. 54 del 20 marzo 1936.
Contatori: deterrenti o moralizzatori dei consumi?
I dati comparativi delle sezioni per il periodo 1934-1940 sono tratti da Azienda dei Servizi Municipalizzati del Comune di Brescia, 1925. Quindici anni di amministrazione. 1940, cit., passim. Da qui sono tratte pure tutte le citazioni successive.
La citazione giornalistica è tratta da “L’acqua nelle vie e nelle case”, in “Il Popolo di Brescia” del 20 agosto 1933. Per l’obbligo di contatori singoli cfr. “I contatori dell’acqua”, in “Il Popolo di Brescia” del 9 maggio 1939.